Linea d'ombra - anno XI - n. 87 - novembre 1993

IL CONTESTO di fare la sua parte nella battaglia civile per la democrazia, è rimasto sul campo tra lo stupore di tutti" 1 • E così la paura è tornata a calare sulle strade di Brancaccio, e non solo. Nell'immediato disorientamento ci si è chiesto: perché un prete?, perché don Giuseppe Puglisi, un sacerdote che lodevolmente lavorava quasi nel silenzio? Al di là di quale possa essere stato un fatto, un elemento occasionale, diciamo il pretesto locale, si è arrivati all'omicidio, esageratamente, perché dopo i falliti tentativi di mediazione di questa estate, effettuati dalla mafia nei confronti dello Stato e della società civile, Cosa nostra ha più chiaramente deciso che "non è disposta a tollerare che venga ulteriormente messa in discussione la sua egemonia sul territorio"2. Con l'assassinio di Puglisi la mafia ha inteso compiere un'azione di terrore, al fine di intimorire quanti, nel piccolo o grande, credenti e non, lottano e s'impegnano, settimana dopo settimana, per sottrarre il controllo complessivo del territorio alle famiglie di Cosa nostra e alle altre organizzazioni criminali. Si è scelto di colpire a Brancaccio-Ciaculli, forse perché è quartiere simbolo e testa della mafia. Si è voluto dare un esempio, un avvertimento a quanti e quante sono impegnati in quella che è "l'antimafia dei diritti" 3 • Se il risultato è raggiunto o sarà raggiunto lo potremo vedere nei prossimi mesi, osservando l'impegno che quanti operano nel territorio sono più o meno disposti a esprimere. 2) Quanto è accaduto, quale riflessione e quale strategia impone alla comunità ecclesiale? È chiaro che già Cosa nostra non aveva gradito le parole che il papa Giovanni Paolo II aveva pronunciato nella Valle dei Tempi i nel suo ultimo viaggio in Sicilia. Quelle parole certamente erano state un segnale chiaro, forte, un incoraggiamento a quanti, con lettere e appelli, inviati al pontefice prima del viaggio, auspicavano un nuovo impegno della Chiesa cattolica sul fronte del!' impegno rispetto alla mafia. Probabilmente le parole del papa per Cosa nostra non sono state per nulla digerite. Al punto da spingerla a compiere gli attentati alle chiese di Roma, per poi passare all'eliminazione fisica di un prete. Per decenni e decenni si era stati abituati a vedere un rapporto sostanzialmente pacifico tra mafia e istituzione ecclesiale. La mafia, infatti, era stata un freno ali' avanzata della modernità. La stessa che la Chiesa cattolica combatteva, opponendosi ai suoi valori di autonomia e libertà di coscienza. E così la mafia, di fatto, era stata un suo indiretto alleato. Ed è stata sostenitrice delle tradizionali forme di religiosità, consapevole di essere bisognosa di esse, però soltanto nella loro rilevanza sacrale e paralizzante della storia corrente, e capace, perciò, di sopire i conflitti. Non per niente i capi-mafia e i loro uomini di fiducia hanno sempre fatto parte di comitati di festeggiamenti, hanno trattato con riverenza i ministri della Chiesa, fin quando questi sono rimasti religiosi. Fin quando questi hanno accettato e scelto di "fare il prete". Per molto tempo hanno trovato davanti a sé tante persone disposte a chiudere un occhio per quieto vivere, convinti che "il mondo non lo posso cambiare io". Ora a Cosa nostra questo terreno sembra venire meno. Ed ecco la reazione. È già dalla morte del prefetto di Palermo, il generale Dalla Chie a (' 82), che in tanti, come nella società civile, così nella Chiesa cattolica hanno manifestato la scelta inequivocabile di resistenza alla cultura, al potere e alla presenza della mafia. E questo Cosa nostra non può accettarlo. Se prima vi erano state minacce, all'indirizzo di diverse persone, ora si è deciso di passare ali' omicidio. La mafia non può accettare che le comunità ecclesiali e i suoi ministri, invece di sopire i conflitti e le coscienze, Jj risveglino e li portino alla luce del sole. Non può accettare che l'azione pastorale sia qualcosa di vitale per un 10 . quartiere, per una città, e non qualcosa di religioso-ideologico. Ma in quanti nella Chiesa hanno compiuto questa scelta? Per la verità non moltissimi, se si considera che domenica 19 settembre, per esempio, a due giorni dal funerale di don Pino, in tante parrocchie della provincia di Palermo e di altrove (basta chiedere ai propri amici e conoscenti cattolici praticanti) molti parroci non hanno avvertito il bisogno e la responsabilità di parlare di quel1' omicidio e del suo senso. Non hanno sentito il bisogno di gridare la loro ribellione e indicare un percorso di speranza e di impegno a quanti erano accorsi al tempio parrocchiale proprio per sentire una parola di resistenza e di liberazione. In altri contesti si è preferito invitare a pregare per un confratello morto, quasi come se fosse morto d'infarto e non con un colpo alla nuca sparato da una mano armata da Cosa nostra, come altro anello di una lunga catena di morte e di dominazione. Il fatto è che in tanti vi è fortemente paura. E la paura è un sentimento umano. Ma è dignitoso tentare anche di combatterla, specialmente per chi è seguace del Cristo. Vi è chi pensa che Cosa nostra sia qualcosa che devono combattere soltanto le forze dell'ordine e la magistratura. Altri l'hanno sottovalutata. Non si è ancora capito che la mafia è ancora fortissima e che, se essa non è sconfitta, il Regno di Dio, che pure si annuncia nella predicazione, rimane sempre più lontano per chi vive nelle periferie di Palermo, di Reggio Calabria, di Napoli, del meridione d'Italia. C'è chi si attarda ancora oggi a dichiarare che "noi non siamo contro nessuno", che non è compito della Chiesa intraprendere una "pastorale antimafia". Non si è voluto comprendere che l'azione pastorale, propria della comunità ecclesiale, non vuole essere contro le persone, ma contro la "struttura di peccato" 4 quale è Cosa nostra, la camorra o la 'ndrangheta. Occorre finalmente abbandonare la visione tutta spiritualistica di una Chiesa consolatrice fatta di riti e cerimonie, per passare alla costruzione di una Chiesa Itberatrice, perun riscatto delle coscienze, dei corpi, del territorio. E quella che si può chiamare la teologia della liberazione in terra di mafia. Di fronte al fenomeno mafioso la pastorale non può essere qualcosa da lasciare alla libera iniziativa e alla buona volontà del singolo prete, vescovo o comunità, esponendo al rischio queste persone. In un clima di solitudine il rischio è più vicino. E Falcone lo diceva: si muore perché si è soli, perché si è lasciati soli. Bisogna riconoscere che in questi anni passi avanti ne sono stati realizzati. Vi è una coscienza più generalizzata tra i credenti circa la tragicità del fenomeno mafioso. Si è sempre più convinti che essa è una struttura del tutto lontana dalla logica evangelica. In diverse comurutà si è abbandonato il silenzio e si parla di più di mafia. Sono germi che occorre rafforzare, sostenere, incoraggiare, collegare. E questo si può fare con un'azione organica della Chiesa diocesana, regionale, nazionale, nel suo essere comunità. Occorre che, a questi livelli, ci si dia un progetto, con analisi, giudizi, proposte operative e verifiche. Ma è anche necessario liberarsi da legami con settori politici ed economici compromessi. Meglio un municipio in meno, che non perdere la libertà evangelica. Così sarà più vicino a noi il sogno di una Chiesa che, libera da questioni teologiche astratte, entri nel solco della storia, per esservi sacramento, ossia segno e strumento, di liberazione. Note I) C. Palermo, Sicilia da spezzare il cuore, in "Avvenimenti", 29 settembre 1993, p. 93. 2) G. eppi Modona, E la mafia lanciò la campagna d'autunno, in "La Repubblica", 21 settembre 1993; cfr. P. Arlacchi, È sempre Cosa nostra, in "La Repubblica", 20 settembre 1993. 3) C. Chianura, Violante: "Questo delitto è un avvertimento", in "La Repubblica", 17 settembre 1993. 4) Giovanni Paolo Il, Sollecitudo rei socialis, n. 36.

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