SAGGI/GIACCHÈ "Le canoe navigano le correnti dei malintesi. Sono lettere che non sappiamo se e quando giungeranno a destinazione, né come verranno intese se verranno lette, e da chi." altri scritti (anche se manca ancora una aggiornata edizione italiana del Dictionary ofTheatre Anthropology di Barba e Savarese, che sta per uscire anche in giapponese), il nuovo libro di Barba sembra voler aggiungere la profondità di una prova storica, chiamando in causa i maestri del teatro occidentale del Novecento, come involontari ma consapevoli complici di una tradizione di studi antropologico-teatrali. Una "tradizione delle tradizioni", suggerisce l'autore. In realtà con La canoa di carta Eugenio Barba prosegue ancora e sempre lo stesso viaggio orizzontale: non va affatto alla ricerca di confortanti ipse dixit, non arretra in verticale nel tempo per fondare nel teatro di ieri quella pre-espressività che è il motore e l'oggetto principe dell'Antropologia Teatrale, ma estende il confronto fra colleghi, stavolta evidenziando i contributi degli attori e registi del ·nostro teatro. Del resto, non c'è affatto un Passato diverso e autorevole cui appellarsi: si è immersi almeno da un secolo nella stessa, datata e proficua "crisi" dell'arte teatrale, e non è per deferenza ma per necessità che ancora oggi ciascun teatrante lavora sulle medesime ricerche aperte da Stanislavskij ed Artaud, Jouvet e Brecht, Decroux e Mejerchol 'd, riconoscendo a questi "grandi" artisti una effettiva e perfino ordinaria compresenza, malgrado le differenze di tempo e di spazio in cui si collocava il loro teatro. L' AntropoTogia Teatrale è appunto la disciplina che esalta questo autonomo terreno di confronto: certamente, non per questo i registi e gli attori occidentali si possono davvero sottrarre al loro contesto storico, così come nessuno ha mai preteso di azzerare le distanze geografiche e sociali dei maestri balinesi e indiani e giapponesi e cinesi, ma ciò non toglie- sostiene Barba- che non sia legittimo studiare delle parzialità, 'O che non sia conveniente decontestualizzare l'oggetto per evidenziare aspetti e fenomeni altrimenti invisibili. E inoltre - ci permettiamo di aggiungere - è la stessa chiave antropologica ad aprire un rapporto diverso con la storia e la geografia: ci sono sfasature e contraddizioni fra il tempo e il luogo di una cultura e le cronologie e le coordinate che definiscono una società. Tutte le permanenze, o se si preferisce, tutte le tradizioni, non sono né immobili né insensibili alla storia, ma si orientano secondo trasversalità e profondità ignorate o tollerate dalle pur rapide e incessanti trasformazioni della società contemporanea. Come è capitato al teatro, perdono semmai di visibilità e di importanza, cosicché ci si deve chiedere se la loro decontestualizzazione non sia di fatto già avvenuta e se allora restringere lo sguardo alla loro "scena" non sia poi l'unica e l'ultima possibilità di restituire loro un contesto. C'è davvero a Bali il contesto della danza e della trance? C'è ancora in Europa il pubblico del teatro? Con domande (e contraddizioni) come queste si confronta ogni ricerca etnologica attuale: davanti ad esse si può arrivare a scoprire che l'interdisciplinarità non è né la soluzione né la vocazione della scienza antropologica e che l'odierno interculturalismo imperante potrebbe essere, piuttosto che il nuovo festoso orizzonte dell' indagine antropologica, la sua tomba. Lo studio del teatro si imbatte dunque negli stessi problemi di chi studia la cultura, e non potrebbe essere diversamente. Ma se la corrispondenza funzionasse anche nell'altro senso, l'antropo76 logo potrebbe raccogliere qualche suggerimento dalla Antropologia Teatrale e ricordarsi, ad esempio, della parzialità del suo campo e dell'autonomia della sua disciplina. L'antropologia culturale - anche quando passa dalle ricerche sulle culture primitive allo studio della attuale società complessa e totale - si applica attorno a un corpo e a un mondo che ha altre velocità, altre storie e altre sostanze a dispetto delle mode e degli accidenti della realtà sociologica. Così non è nuova né difforme disciplinarmente un'Antropologia Teatrale che si occupa di un altro corpo e mondo del teatro, a dispetto della cronaca dei critici d'arte e perfino fuori delle leggi e delle scansioni della storiografia del teatro. Come sanno bene i teatranti e gli intellettuali che davvero conoscono quella straordinaria scuola e formidabile esperienza che è I 'IST A: accanto e dentro la storia del teatro, c'è davvero lo spazio e la necessità di un'antropologia dell'attore che rivoluzioni i tempi e i modi della ricerca teatrologica e che costituisca l'unica e preziosa possibilità di evitare il pregiudizio etnocentrico dello spettatore denunciato da Barba, ma anche i prepotenti postgiudizi storicistici e sociologici a cui si è sempre sottomessa la realtà teatrale (e non). "La professione è anch'essa un paese cui apparteniamo, patria elettiva, senza confini geografici" - ci spiega l'Autore-e questo è ancora più vero per i teatranti di ogni società, ma non tanto per la patente di marginalità che a volte è loro assegnata, ma soprattutto perché artigiani dell'alterità ed operai del proprio stesso corpo. Nonostante la scoperta (e la denuncia) di Mauss e la crescente convinzione della loro importanza e centralità, rari sono gli studi antropologici che hanno indagato - e non soltanto filmato, fotografato ... - il capitolo delle "tecniche del corpo". Mentre dall'altra ci si ricorda lo scetticismo o l'irrisione di non pochi intellettuali davanti ai primi tentativi del nuovo teatro di dimostrare l'esistenza e l'autonomia di una "cultura teatrale". È strano come le loro riflessioni e ricerche "antropologiche" siano state fin qui sostanzialmente ignorate dal dibattito scientifico, proprio mentre la storia e l'antropologia, la sociologia e la semiologia, si mostravano aperte ed attente ad ogni aspetto della cultura materiale, si impegnavano in difficili proiezioni storicoantropologiche nella vita quotidiana d'altri tempi, si sforzavano di conoscere il valore e il mistero del "corpo-mente" di ogni altra categoria sociale, affascinate perfino dalle posture dei contadini e dalle cosmologie dei mugnai. Ma non si può rimproverare l'ignoranza colpevole degli antropologi, senza ricordare la ritrosia e la comoda subalternità dei teatrologi e dei teatranti. Normalmente, si preferisce fingere di adoperare vicendevolmente "teatrale" e "antropologico" come liberi aggettivi, piuttosto che riconoscere e affrontare la sostanza vischiosa della loro intersezione. Anche l'Antropologia Teatrale di Barba evita magari il confronto a parole, ma non sfugge al confronto nei fatti. Anche se accuratamente si smentisce ogni dipendenza e confusione con l'antropologia culturale, non si può certo frenare la necessità o negare la convenienza di uno scambio; e tantomeno si può impedire che il Trattato di Antropologia Teatrale non sia riconsegnato, oltre che al teatro, anche alla disciplina che ha cessato di qualificarsi attraverso gli studi delle società "primitive" e si ripropone come scienza della cultura.
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==