Linea d'ombra - anno XI - n. 86 - ottobre 1993

TERZO TEATRO: L'EREDITÀ DI NOI A NOI STESSI Eugenio Barba Terzo Teatro indica un modo di modellare i propri "perché". Non è uno stile teatrale, né un'alleanza fra gruppi, un movimento. o una corporazione internazionale, né una scuola, un'estetica o una tecnica. Non è neppure una delle "novità" che appartennero alle mode degli anni Settanta. Critici e teatrologi possono guardarlo con interesse e passione, oppure possono ignorarlo: il Terzo Teatro continua ad esistere. Il termine è recente. Non lo è, però, la condizione che esso designa. Louis Jouvet fece, un giorno, un'affermazione che risuona come un enigma: "Esiste un'eredità di noi a noi stessi". Ne discendono alcune domande essenziali: "Ho ancora nelle mani l'eredità che io stesso mi sono costruito? Conosco ancora il suo valore, oppure esso è stato intaccato dal tempo, dalla pratica della professione, dal ritorno al centro appiattito del pianeta teatrale?". Quell'enigma e queste domande riguardano il Terzo Teatro. Potremmo dire che sono Terzo Teatro. Sono l'espressione, infatti, di ciò che non si lascia attrarre e appiattire: gli anelli di Saturno. A volte, la forza che appiattisce è costituita da apparente saggezza: "Fare teatro non ha più senso, ormai", dicono alcuni. Soprattutto quando vivono in quell'hotel di lusso mediocre chiamato Europa, e dopo anni di lavoro si guardano intorno per contemplare l'indifferenza che li circonda. Lontano, spesso al di là del mare, altri simili a loro, ma in contesti profondamente diversi, a volte provano smarrimento nel confrontare l'impegno che occorre per fare teatro e l'esigua misura della sua efficacia in una realtà sociale drammatica, che minaccia di crollare nella barbarie. "Il teatro non ha senso": chi oserebbe affermare il contrario? È il "démone di mezzogiorno". Gli antichi chiamavano così questo sgomento che coincide con un momento di maturità e di chiarezza. Proprio quando il sole è a picco e inonda le cose, l'uomo può sentirsi fuori posto. L'eredità delle scelte iniziali gli pare ora insensata. È come se l'istante presente schiacciasse ogni altro valore. Quando passa il démone di mezzogiorno il monaco - dicevano gli antichi - sente che la sua vocazione è senza senso; il cavaliere sogna l'aratro; il contadino anela alla vita errabonda delle armi. Chi oserebbe affermare che fare teatro abbia di per sé un senso? Ci sembra a volte che il senso sia colato via dalla realtà del teatro, lasciando pietra arida e fanghiglia. Forse un senso c'era, un tempo, prima che l'industria dello spettacolo moderno, la cultura di massa, i nuovi riti e miti giovanili togliessero legittimità ed efficacia al fare teatrale. Si tratta di movimenti storici più grandi di noi. Ecco perché non riusciamo più a raccapezzarci, a ritrovare i motivi che ci nutrirono nei primi giorni di lavoro. Forse in quei primi tempi eravamo idealisti. Ora ci sentiamo più maturi, ma più aridi e a volte disillusi. Proprio questo è il momento in cui siamo più fortemente in preda all'illusione. Potentissima, infatti, è l'illusione per cui le cose e le azioni sembrano avere un senso di per sé, e il loro senso sembra accrescersi o perdersi quasi a nostra insaputa, per cause esterne. Ci appartiene l'azione, non i suoi frutti. Questi ultimi traggono 70 significato dal contesto, dal tempo e dalle contingenze, dagli spettatori e dalle loro memorie. Non siamo noi che possiamo definire il valore dei nostri spettacoli, il messaggio che essi porteranno. A volte è la Storia, con la maiuscola, che si incarica di generare il senso profondo che il frutto dell'azione di far teatro può assumere. Sklovskij racconta d'unll. recita filodrammatica per soldati, durante la prima guerra mondiale, nelle retrovie del fronte russo. Si recitò Il matrimonio di Cechov, una farsa di piccolo-borghesi, uno schizzo satirico e realistico, senza alcun intento eversivo. Ma alla fine, quando il protagonista fugge via dalla casa volgare e opprimente della promessa sposa, tutti i soldati in platea, come se all'improvviso qualcuno avesse loro aperto gli occhi, si alzarono e disertarono. Jan Kott racconta di quando le notizie che filtravano a Varsavia sugli avvenimenti del XX Congresso del PCUS davano improvvisamente un significato bruciante ad una pièce d'avanguardia ch'era sembrata puro sentimentalismo ed ora invece si rivelava allegorica e politica: En attendant Godot. La stessa pièce per i filodrammatici del penitenziario di Saint-Quentin fu crudo realismo. Sono esempi estremi, quasi delle parabole. La realtà è fatta di sfumature delicate. Le parabole servono a rammentare le astrazioni che possono orientarci. E cioè: i frutti dell'azione di far teatro non ci appartengono. Ma ci appartiene l'azione. È solo colpa nostra se il nostro fare teatro perde senso ai nostri occhi. Sarebbe sciocco scoraggiarsi per qualcosa che è ovvio da quasi un secolo: il teatro è un'attività artistica in cerca di senso. Di per sé, è il residuo archeologico di un'altra epoca. In questo residuo archeologico, che ha perso la sua immediata utilità, vengono iniettati valori di volta in volta diversi. Possiamo adottare quelli correnti secondo lo spirito del tempo e della cultura in cui viviamo. Oppure possiamo vivere da diseredati e scoprire noi stessi la nostra eredità. Possiamo ripeterci che non siamo gli eredi di una Grande Tradizione. Ma che "esiste un'eredità di noi a noi stessi". Il teatro che vive questa condizione, che non incarna un patrimonio dalle profonde origini, né si ricollega ad una tradizione per riprodurla o contraddirla, per negarla dialetticamente o per rinnovarla, è il Terzo Teatro. Alcuni, quando parlano di Terzo Teatro, intendono una periferia, una marginalità frutto di scelta o di ingiusta discriminazione. Non è questo che ci definisce, anche se a volte pesa sulla nostra esperienza. Senza eredità non è solamente il figlio diseredato per ingiustizia (o giustizia), ma anche lo straniero a mani nude. Quando Jouvet parlava dell'eredità di noi a noi stessi riassumeva il senso di molte storie che avevano cambiato lo spirito del teatro novecentesco. Erano storie di persone, non di istituzioni. Erano storie di stranieri nel teatro. · Cbi sono questi stranieri? E che vuol dire che abbiano le mani nude? Spesso, nei nostri discorsi, ricorrono i nomi di "maestri" e "padri fondatori": Craig, Stanislavskij, Copeau, Brecht, Artaud, Mejerchol'd, Beck e pochi altri. Fra i viventi ricorre sempre il

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