Linea d'ombra - anno XI - n. 86 - ottobre 1993

politici di grande spessore in grado di sostituirlo. Importante è che a fare il primo passo sia stato lui, di modo che il suo pensiero non possa essere soggetto a interpretazioni differenti quando non ci sarà più. Cosa sente in Israele "l'uomo della strada" lo indicano i sondaggi frequenti dopo la stretta di mano di Washington: di settimana in settimana si aggiungono nuovi sostenitori a quella maggioranza ristretta che in un primo momento ha plaudito al governo. E nei territori occupati, tra i palestinesi, si è avuta un'eloquente indicazione il giorno stesso della cerimonia alla Casa Bianca: finito alle 3 del pomeriggio lo sciopero generale proclamato dai fondamentalisti dell'organizzazione Hamàs - rispettato solo da una parte della gente, nonostante la paura di punizione -, sono corsi tutti a guardare per televisione le immagini che arrivano dalla capitale americana e, poi, sono stati molto più numerosi quelli usciti a festeggiare in corteo rispetto agli altri che si sono radunati per urlare la loro condanna del "tradimento". Importano relativamente le dichiarazioni bellicose che continuano a scambiarsi a distanza i protagonisti della stretta di mano IL CONTESTO anche dopo lo storico gesto. "Gerusalemme sarà la capitale palestinese", ha detto Arafat. "Se lo può scordare", ha risposto Rabin. Mentre questi va ripetendo che di uno Stato palestinese neanche a parlarne, l'altro dichiara in continuazione che il primo passo fatto porta verso la fondazione di questo Stato. Sono parole indirizzate ai rispettivi popoli e con l'attenzione rivolta verso le trattative che verranno: ognuno alza la posta in vista del momento in cui si siederà al tavolo. Basti pensare che appena poche settimane prima di riconoscere l'OLP come "rappresentante del popolo palestinese" il capo del governo israeliano aveva detto di non approvare i contatti di alcuni suoi ministri con esponenti dell'organizzazione di Arafat. La strada è lunga, sì, i fondamentalisti islamici stanno affilando i coltelli e anche i coloni ebrei insediatisi in mezzo alle popolazioni palestinesi tengono pronte le armi. Già se tutto andasse regolarmente il traguardo dovrebbe essere raggiunto verso il 2000, figurarsi quanti ritardi potranno essere provocati. Tuttavia non è azzardato, questa volta, considerare che "first" vorrà dire davvero primo. Un passo che sarà seguito da altri in quella direzione. La nuova Spagna alla prova Alessandro Oppes Il desencanto è arrivato nel t:,elmezzo della festa. Il '92 doveva essere l'anno dell'autocelebrazione. E tutto era stato fatto in grande: da Madrid a Barcellona a Siviglia, dalla "capitale europea della cultura" alla sede delle Olimpiadi alla città dell'Expo, un impegno gigantesco per consacrare il definitivo ingresso della Spagna nel salotto buono dell'Occidente industrializzato. Ma la lunga corsa è finita col fiatone, l'atleta è diventato ali' improvviso un paziente affetto da insistenti attacchi d'asma. Il crollo della peseta, travolta dalla tempesta monetaria continentale, ha aperto gli occhi a tutti. E ad occhi aperti si è potuto vedere ciò che c'era intorno: la disoccupazione, l'inflazione, la corruzione. Un modello che entra in crisi, un "regime" socialista che festeggia un amaro decimo compleanno. Tra gli spagnoli e il loro leader c'è stato fin dal primo momento un rapporto di fiducia quasi diretto, una stima per l' hornbre corno tu y corno yo, per il ragazzo della porta accanto, che ha consentito a Feli pe Gonzalez di sai varsi a più riprese da una sfilza di passi falsi nei quali in questo decennio è inceppato il Psoe. "C'erano milioni di Felipe in Spagna", hà scritto Francisco Umbral rievocando il trionfo socialista dell'82, "e hanno votato per se stessi". Questa gente, questo popolo 'felipista' l'ha salvato soprattutto quattro mesi fa, alle politiche anticipate convocate in piena bufera tangenti, quando gli spagnoli hanno scelto Felipe e solo Felipe, togliendogli però quella maggioranza assoluta che gli aveva consentito di trasformare il suo potere in arroganza del potere. Ma l'hanno comunque preferito a quel leader senza carisma che è ]osé Marfa Aznar, alla guida di una destra riveduta e corretta nei programmi e negli uomini ma non ancora ritenuta degna di fiducia incondizionata da parte di un popolo uscito "appena" diciott'anni fa dall'era franchista. Felipe ha ringraziato e ha subito fatto una promessa: "Cambiare il cambiamento", cioè cambiare stile e metodo, ripulire le stanze del potere. Undici anni prima era entrato al Palazzo della Moncloa ali 'insegna dello slogan "Por el cambio", spiegando di voler "far funzionare la Spagna". All'epoca aveva fatto presa ali 'interno di una società che aveva bisogno di rinnovarsi profondamente. Ma le accuse di aver cambiato ben poco si sono fatte di giorno in giorno più impietose. Antonio Guerra, ex dirigente del Psoe, autore di una storia del decennio socialista, dedica le sue "Filfpicas" a "quanti hanno creduto nell'utopia di un cambiamento che non è mai arrivato". E ricorda, proprio in apertura della prima "lettera", le parole di Nicolas Redondo, segretario generale del sindacato Ugt, un tempo stretto alleato dei socialisti al governo, poi fiero avversario: "Mai così pochi, in così poco tempo, hanno deluso tante speranze". Francisco Umbra), scrittore brillante, penna spesso velenosa, è ancor più pesante: accusa il premier di "coltivare il potere per il potere, come Franco", e di aver fatto proprio, nella pratica, lo slogan del Caudillo "Io o il caos". Oltre ad avere al suo fianco - come tutti i potenti - una schiera di giornalisti ossequiosi, Felipe ha sempre "goduto" anche di una pessima stampa: opinionisti tra i più ascoltati di Spagna si sono accaniti contro la politicadel governo ma soprattutto contro il personaggio, la sua mania di protagonismo. Ha davvero sbagliato tutto, Gonzales? Difficile essere così drastici. Anzi, i cambiamenti ci sono stati e, almeno in una certa fase, innegabilmente positivi. Per agganciare il paese al "carro" dello sviluppo, il leader ha puntato tutto sull'Europa, sollecitando l'ammissione alla Cee, ottenuta ne11'85. E ha capito anche che una Spagna europea non poteva restare fuori dalla Nato: nell' 86 gli è così riuscito il capolavoro di convincere l'elettorato socialista a votare "sì" in un referendum che lo stesso premier aveva promesso quattro anni prima con uno spirito diverso. Da allora la Spagna ha 5

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