Linea d'ombra - anno XI - n. 86 - ottobre 1993

STORIE/ESPRIU Pensavano a Madrona e agli altri morti con invidia, carezzavano la gatta, piangevano insieme abbracciate strette e dopo_cominciarono a preparare con appetito la misera cena. fecero letture in francese, avevano divorato qualchedivertissement di Bourget e persino qualche voluttuosa pagina di Prévost. AdeleMontoliu dettava loro l' Avisd'une mèreàsafilledi Mme de Lambert e si dilettava a ripetere che "les vertus des femmes sont difficiles, parce que la gioire n'aide pas à les pratiquer. Vivre chez soi, ne régler que soi et sa famille, ètre simple, juste e modeste, vertus pénibles, parce qu'elles sont obscures. Il faut avoir bien du mérite pour fuir l'éclat, et bien du courage pour consentirà n'ètre vertueuse qu'à ses propres yeux". Adele insegnò loro anche a distinguere il point à l'aiguille dalla dentelle duchesse e dal point à la rose. Le sorelle Ginebreda potevano discutere sulle qualità e sulle differenze dei pizzi di Alençon, di Milano, di Bruxelles, delle Fiandre, dell'Inghilterra e di Venezia. Potevano discutere d'altri argomenti altrettanto raffinati ed inutili. Non sapevano nient'altro. Ogni tanto la vedevano ancora, l'Adele, la vecchia professoressa, ormai molto anziana, ingobbita e acida. Si vedevano dai Filipponi all'ora del rosario, di fronte ad un Sacro Cuore che ispirava loro una particolare devozione e alternavano le preghiere ad aspri commenti sulle difficoltà del momento. Le tre donne avevano dimenticato le massime di Mme de Lambert e rovistavano con un qualche compiacimento nella prop1iamiseria, dibattendo l'argomento secondo cui "al giorno d'oggi noi poveri non possiamo praticamente mangiare". Avendo ottant'anni, Adele era quasi rassegnata. Le Ginebreda potevano viverne un'altra ventina e temevano nella stessa misura la morte e la vita. La professoressa e le ex discepole avevano ora una piena intesa e confidavano con imparzialità, da pari a pari, i rispettivi problemi. "Se almeno Elpidia guarisse!", diceva Amelia. Ma Elpidia non guariva mai. A partire dalla morte del padre, quindici anni prima, doveva prender letto ai primi freddi e, febbricitante, andava avanti a colpi di tosse fino a primavera, lamentandosi ora del capo, ora del petto, ora della pancia. Amelia, che la accudiva con abnegazione, solerte verso i desideri della sorella, sempre insoddisfatti per la mancanza di possibilità, subiva pazientissima il caratteraccio e il disperato torpore della malata. Una volta, una vicina che aveva una gatta che aveva partorito, regalò loro una gattina per portare un po' di distrazione ad Elpidia. Accettata inizialmente la bestiola con una certa prevenzione tanto "per non offendere quell'anima pia", essa divenne presto la gioia ed il conforto delle Ginebreda: le attaccarono un campanellino al collo e la battezzarono col nome di "Murr", una reminescenza letteraria dovuta alle lezioni di Adele Montoliu. Comunque dovettero lasciar perdere perché il felino, con quel nome, non ci si raccapezzava. Così fece la sua comparsa il classico "micia" e le Ginebreda ne magnificavano l'intelligenza. Le sorelle s'erano abituate a coinvolgerla nelle loro chiacchierate e sembrava che la gatta fosse lì lì per integrarsi completamente nella conversazione. L'animale ricordava loro Madrona, la Madrona che era morta da un secolo, la sorella che tanto avevano amato e anche aborrito. L'avrebbero potuta chiamare "Madrona" se ciò fosse stato compatibile con il rispetto dovuto ai defunti. Quando la gatta andava in calore (non l'avevano mai lasciata uscire dall'appartamento), le Ginebreda mostravano un notevole disgusto, ma si spalancavano le vastissime narici di Elpidia e le sfavillavano quegli occhi di malata, scavati dalla febbre. Allora carezzava la gatta senza sosta, offrendo uno spettacolo, come diceva la signora Maddalena Blasi, "assolutamente ripugnante". Ma le Ginebreda non se ne curavano. Chiudevano le palpebre e, pensando a Madrona, si perdevano nella nostalgia degli anni andati. Quegli anni che non sarebbero più ritornati. Ora non restava che la lotta quotidiana per una briciola di pane, dinanzi il vuoto. Amelia scendeva ogni giorno a consegnare i lavori di rammendo ricevuti e s'avviava alle lunghe code per ottenere un po' di carne per la sorella. Rincasava tardi, stanca, percorrendo le solite vie: via Aurora, via della Virtù, via del Mirto, piazzetta del Sole, via della Lanterna. Escrementi e frotte di bambini, mendicanti senza braccia né gambe, quasi senza testa. Piccole rivendite di carbone e di generi alimentari: bacinelle con la salamoia delle olive, peperoni, grappoli d'uva, verdi banane dal prezzo inaccessibile. Moltitudini che nessun messianismo, poco importa se sociale o religioso, sarebbe mai riuscito a redimere. "Se almeno Elpidia guarisse!", pensava Amelia incamminandosi verso casa. "Se almeno guarisse o morisse", le capitò di pensare. E, senza avvertirlo, s'abbandonò con diletto all'idea: s'immaginava immersa nel proprio dolore e si compativa fino alle lacrime. Elpidia avrebbe una buona volta riposato, la poveretta!, con i genitori e Madrona. Lei si sarebbe rassegnata a trascorrere lunghi anni di solitudine, magari in un convento per anziane signore (il suo sogno segreto) , fino a ricongiungersi in una colombara con gli altri Ginebreda. Sorrideva al pensiero mentre saliva le scale, ma improvvisamente si sentì trafitta dal rimorso. Mio Dio, desiderava la morte della sorella, lei desiderava la morte del la sorella! Aprì la porta dell'appartamento dirigendosi velocemente al letto di Elpidia e abbracciò la malata con esagerate manifestazioni d'affetto. Come se avesse indovinato le inconfessabili ragioni di quello scompiglio, Elpidia la respinse con durezza. "Sistema il cuscino." Frastornata Amelia non l'obbediva. "Ti ho detto di sistemare il cuscino", insisteva Elpidia. "E Maddalena non la saluti?". "Stavo per andar via", disse la signora Blasi che aveva portato loro qualche scatola vuota. "Non tornerò più", decise. Non le piaceva la gatta, ancora una volta in calore, la tosse di Elpidia e quella miseria senza vie d'uscita. "Sono troppo vecchia per questa commedia", pensava. "Vado in campagna", disse ad alta voce alle sorelle. "Dicono che la guerra sia vicina e non vorrei che mi sorprendesse qui, dico sul serio." Le Ginebreda impallidirono. "Beh, addio", disse la signora Blasi. "Addio, Maddalena". Amelia l'accompagnò sull'uscio. Di nuovo insieme, le sorelle si sentirono oppresse dal vuoto e dalla solitudine. Le faceva rabbrividire l'idea d'attendere indifese i bombardamenti aerei, in quell'appartamento: una specie di scaffale, quasi un loculo. Una morte comune, mischiata a quella del prete, del falegname, della giovane coppia, dei proprietari (loro magari no, perché al momento giusto pure sarebbero andati in campagna). Pensavano a Madrona e agli altri morti con invidia, carezzavano la gatta, piangevano insieme abbracciate strette e dopo cominciarono a preparare con appetito la misera cena. (1940-1950. Riveduto nell'autunno del 1964 e ad ottobre del 1967) 65

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==