INCONTRI/LOZANO una piccola storia, si compie intanto un atto di giustizia e di comprensione etica verso tutti quelli che non sono mai stati nella Storia, sebbene l'abbiano sostenuta sulle loro spalle. D'altra José Jiménez Lozono. parte, ciò che ci dicono queste piccole storie è qualcosa di assolutamente diverso da tutto quello che è sempre uguale a se stesso nella vicenda del potere. È il nouveau di quanti non hanno avuto storia, ma hanno avuto certamente speranza; forse sono anche passati sotto lo scudiscio e comunque hanno avuto una vita di frustrazioni, ma anche di allegria, verità e poesia. Con Simone Weil, e accennando anche ad Antonio Machado, lei dice che la poesia nasce dalla povertà. Qual è il legame? Il solo fatto in sé della ricchezza-potere (anche in campo letterario) si colloca fuori della poesia. Essa sta nella debolezza, nella fragilità, nel piccolo: nei fiori di ciliegio minacciati dalla tramontana o che comunque dureranno molto poco di cui parla Simone Weil. Solo nel fulgore di questa piccolezza e di questa debolezza si dà la possibilità agli occhi e al cuore umano di vedere il mondo in modo essenziale e nuovo, o almeno di intuirlo. Come si muove tra narrativa e saggistica? Ovviamente, scrivere un saggio non è narrare. E io non sono sicuro che il saggio in se stesso, cioè ogni saggio, sia letteratura, e non so se qualche volta lo è. Il saggio ha le sue esigenze speculative. Può succedere che sia anche un "sussurro" o conversazione, come in Montaigne; e allora deve anche dire le cose in una dimensione di fragilità, di precarietà, di verità: come se si narrasse, anche se la funzione resta quella di un discorso intellettuale serio e rigoroso. Anche il raccontare è una cosa seria e rigorosa, sebbene non sia opera di speculazione. In tutte le sue opere c'è la Spagna, però si tratta di una Spagna "non allineata", diversa da quella che generalmente conosciamo, da quella, per intenderci, "ufficiale", del casticismo. Ha scritto anche una Guida spirituale di Castiglia, che è un rovesciamento di molti pregiudizi tradizionali. In questa sua visione della Spagna, che posto occupano Giovanni della Croce e Teresa d'Avita, dei quali lei è attento studioso? Sì, è vero. Io appartengo ali' "altra Spagna": quella che ha sempre perso, la Spagna di Giovanni e Teresa, di Cervantes e Fray Luis de Le6n, e degli altri spagnoli maltrattati, insieme al loro mondo, che furono sempre, e continuano ad essere, "pecore rognose e generazione di infamia senza fine", come diceva lo stesso Fray Luis in relazione alla "doxa" del suo tempo. Attraverso i loro occhi tento di indagare la Spagna profonda. E dove pensa che vada la Spagna di oggi? Non lo so, anche se temo il peggio in questo processo di 58 omogeneizzazione universale della cultura del denaro, del controllo delle coscienze ad opera dei media, del seppellimento della memoria e della perdita totale del senso della giustizia e della libertà. La civiltà e la cultura delle cosiddette "democrazie avanzate" hanno queste connotazioni e perciò la parola anima finirà per non significare granché da qui a un paio di generazioni. Il nuovo stato confessionale e teocratico della secolarizzazione ha già saccheggiato le coscienze e catechizza queste nuove generazioni nella nuova ortodossia. Le cose in Spagna hanno sempre avuto un che di clericale: c'è qui una forma di incapacità storica alla laicità. Nell'opera e nella vita di Giovanni della Croce e di Teresa d'Avila sta forse la radice del rapporto fra il suo "misticismo" e il suo "giansenismo",fra la sua scrittura e il suo impegno civile? Il mio giansenismo ha una prima dimensione, che è quella civile e politica, come a Port-Royal: ni chancellier ni personne; né i I re, né i I papa, né la comunità, né la forza bruta al di sopra del la mia coscienza. Port-Royal è il primo atto di coscienza civile in Occidente. Ma, prima ancora di questo e di qualsiasi altra cosa, è anche la ricerca del "Dio nascosto", il Dios oculto, che ovviamente è un'impresa o cammino mistico. Le complicità oggettive, poi, fra Port-Royal e la mistica carmelitana sono molte, ma essenzialmente sono queste: la serietà e radicalità della fede; la serietà dell'amore; il bisogno di semplicità; la ricerca delle realtà ultime. Nelle note dei suoi diari ricorrono spesso alcuni nomi di poeti e scrittori, anche di pensatori, che hanno per lei qualcosa in comune: Silone, Pascal, Simone Weil, Unamuno, Dostoevskij, Voltaire ... Ciò che accomuna questi uomini e donne è il fatto che siano del parere che l'essere umano è la storia nella quale si gioca il destino del mondo, sull'essere e il non essere di ogni uomo anche in relazione al futuro; e che l'uomo è un enigma inspiegabile per la scienza, non riducibile alla natura. Ci sono poi legami d'altro tipo, ma questo è quello principale anche per Voltaire, che cercò di chiudere gli occhi davanti a se stesso, sviando costantemente il problema. Ci può dire la sua opinione sulla strada imboccata dal continente? È caduto in un sogno totalitario - lo si dissimuli come si vuole - da Grande Impero: l'unione politica, economica e di forze per la violenza. Un'idea, questa, che viene servita da burocrati. Tutto quello che ostacola questo sogno viene via via cancellato: strati sociali interi, costumi di vita, la pluralità delle culture. Dov'è l'anima di quest'Europa? I nazismi e i fascismi non potrebbero sperare in un clima migliore per consolidarsi e crescere. Senza dire peraltro che potrebbero presentarsi come sostenitori di un "supplemento d'anima"; e quando non si sa più che cos'è un'anima, può succedere qualsiasi cosa. Del resto, la liquidazione del cristianesimo storico in Europa è in fase molto avanzata.
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