Linea d'ombra - anno XI - n. 86 - ottobre 1993

attraverso il suo decantarsi in direzione di una maggior autonomia della materia letteraria ed immaginaria di cui è fatto. Se qualcosa distingue il romanzo dagli altri generi letterari è proprio la sua forza• procreatrice, la sua capacità di sopravvivere reinventandosi, integrando elementi estranei, disintegrando i suoi vecchi residui, modellandosi su qualunque sperimentazione ed ibridazione. Nel processo di affinamento ha certamente avuto molta parte tutta la zavorra da cui, negli anni, il romanzo si è potuto liberare, perché la società ha conseguito altri mezzi (oggi più numerosi che mai) per sollevarlo dai suoi doveri informativi, da quella dipendenza vicaria di altri tempi. Oggi gli specchi sono molti e certe volte riflettono il gesto immediato dell'evento che si realizza. La vita è sufficientemente assediata dalla stampa, dalla televisione, dalla radio, e il romanzo può distanziarsi inventandone un'altra che, tutt'al più, assuma simbolicamente il bagliore di quella che stiamo vivendo. Mi sembra che il romanzo contemporaneo viva o voglia vivere alla luce di questo bagliore, con l'esistenza soppiantata, sostituita, relegata alla funzione di modello. Il romanzo vuole essere una proposta di realtà e di vita autonome e indipendenti, che verrebbero a sommarsi al nostro quotidiano, ad arricchirlo, ad estenderlo. Sono universi immaginari sorretti dalla parola, da quel verbo narrativo che racconta e crea costruendo un altro ambito d'esistenza, in cui, sicuramente, possiamo verificare ciò che siamo e trovare le metafore della nostra condizione. A noi romanzieri contemporanei difficilmente si potrebbe perdonare l'ignoranza di questo passaggio del romanzo che avalla la nostra smisurata ambizione di saperci non imitatori, ma falsificatori della vita, artefici di quello spazio dell 'immaginazione e della parola che apre al sapere umano un territorio di libertà. Abbiamo ereditato questa ambizione dai grandi maestri del genere romanzesco che, infrangendo i modelli del loro tempo, già vaticinavano questo futuro per un genere che ha sempre avuto come emblema la vita e che anche quando non ha più bisogno di copiarla seguita ad inventarla. Tornando infine a una prospettiva più circoscritta e centrata sull'esperienza, vorrei citare quella frase di Miller secondo cui "scrivere, come vivere, è un viaggio di scoperta". Naturalmente l'esperienza della scrittura si modella sulla vita e, anche se uno si muove in direzioni meno esplicitamente autobiografiche e più tematicamente estranee al suo vivere quotidiano, resta un viaggio di scoperta che lo riguarda intimamente: scoperta del mondo, della realtà e di se stessi, in quella dimensione più o meno intensa e vitale in cui tutto si relaziona e si contamina. Capirete che, con queste idee, è molto difficile accettare la nota diatriba che riemerge di tanto in tanto, secondo cui il romanzo è un genere in declino, sul punto di estinguersi. Mi è sempre parso che il romanzo muoia solo in mano di coloro che vogliono ucciderlo e unicamente per loro. Infatti, la sua sorgente scaturisce da quell'inesauribile propensione dell'essere umano (debitore alla propria immaginazione prima che ad ogni altra cosa) a rifare il mondo partendo da vari mondi, a rivelare la realtà, il sogno, la memoria e la fantasia, muovendo dalla parola che narra e dissemina quello che resta tra l'emozione e il silenzio, tra l'invenzione e il vuoto. Da "El Urogallo", marzo 1993. LE SOPRAVVISSUTE NuriaAmat traduzione di Daniela Pièri e Giusi Uglietti Siamo state bambine difficili, adolescenti musone, ragazzine strambe e particolari. Avevamo in comune la rabbia, il dolore dell'uomo e la voglia di salvarlo. Abbiamo presto scoperto che decisamente il mondo si sbagliava per una ragione in più che l'altra metà del mondo ignorava. Abbiamo infranto modelli, reggiseni, schemi, atteggiamenti passivi, barriere ... Siamo cresciute lottando contro l'autorità del padre, che era uomo ed esercitava il suo potere sulla madre, che riproponeva la stessa debolezza dell'uomo. Lottavamo contro il noto, l'ignoto e perfino contro ciò che dovevamo ancora conoscere.•Eravamo - dicevano - delle intransigenti. Donne forti destinate con ogni probabilità ad essere delle disgraziate. Avevamo amici, da una parte, e amiche, come noi, dall'altra. Già allora era impossibile mescolarli. Gli amici più accomodanti resistevano e addirittura si entusiasmavano per uno o, al massimo, due esemplari della nostra specie. Con una o due della nostra categoria si completava la quota. Non arrivavano oltre. L'uomo-amico si intimoriva. Perché eravamo radicali, esigenti, intolleranti, antipatiche. Siamo state abortiste, rosse, femministe, disinibite, indipendenti, lesbiche. Avevamo dei fidanzati. Avevamo bisogno, come pazze, dell'amore dell'uomo: dell'appoggio dell'uomo, del suo affetto e del suo conforto. E non ci piacevano gli uomini. Xilogrofio di Viclor l. Rebuffo 51

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