CONFRONTI l'altra: "Il bilinguismo testuale, ci dice Khatibi in Maghreb Pluriel, sarebbe il gesto di quel palinsesto molto strano in perdita su se stesso, sulle sue origini e genealogie. Dirò perfino che un simile testo è doppio perché sostenuto, silenziosamente e a fondo perduto, dalla lingua materna. Diventa traducibile d'altro canto, in modo tale che la lingua-bersaglio sfumi e si annulli (M.P., p. 207). Lo scrittore quindi prende una più viva coscienza di ciò che già era in atto nel discorso amoroso bilingue. La lingua di Khatibi è classica, quindi sapiente: l'autore marocchino rifiuta il più possibile ciò che altri scrittori maghrebini si permettono fino all'ultimo respiro, di usare in francese delle parole arabe, di trascrivere dei motti, di mimare l'andamento di un discorso in lingua popolare. Un'unica parola viene giustapposta nel testo originale, all'espressione francese che la traduce: cumulo di pietre (karkur) - che la traduttrice italiana ha omesso - (p. 62) non ha corrispondente. Si ricorda che nei testi maghrebini e soprattutto in questo Amore bilingue, i rari termini arabi inseriti servono ad illustrare il dibattito sociolinguistico in corso; ecco alcuni esempi: - Lo scrittore bilingue si abbandona voluttuosamente alla lingua dell'Altro. Egli gioisce delle sue parole e dei détours del suo discorso. Gioca con le omofonie sulle due lingue: in francese "mot" suona come "mort", così come "mer" suona come "mère". Serivendo "se calma", egli suscita la parola araba "kal(i)ma" (parola) con tutta la catena, dal sapiente "kalima" al diminutivo "klima". "Riapparve la diglossia Kal(i)ma, senza che sparisse né si cancellasse la parola 'mot'. Tutt'e due si fronteggiavano in lui, anticipando l'emergere, ora precipitoso, di ricordi, frammenti di vocaboli, onomatopee, frasi in ghirlanda, avviluppate a morte: indecifrabili. La scena è ancora muta. Ma quando egli arriverà a parlare, si sfinirà nell'amnesia, attanagliato, a momenti, da uno smarrimento prodigioso che gli farà dimenticare le parole più comuni, in una lingua o nell'altra" (p. 4). - Un altro esempio, ma di permutazione, questa volta: "Permutarsi perenne. L'aveva capito meglio a partire da un lieve disorientamento, il giorno in cui, aspettando a Orly la chiamata per la partenza, non riuscì a leggere attraverso il vetro la parola 'Sud' vista da retro. Nell'invertirla, si accorse d'averla letta da destra a sinistra, come nell'alfabeto arabo, sua prima grafia. Poteva mettere a posto quella parola solo passando attraverso la lingua materna" (pp. 17-18). - Più sovversive, certe associazioni di parole arabe quando il Recitante è combattuto tra la sua richiesta di amore puro e il fascino suscitato in lui dalle prostitute: prostituzione conduce a poligamia e harem, in arabo harfm non è altro che il sacro e il proibito. L'antitesi amore puro I prostitute è combattuta nascostamente dal lessico dell' infanzia (vedi La mémoire tatouée, Parigi, Denoel 1971) e ne è come svuotata: "La sua lingua materna proseguiva i suoi piccoli piaceri, con ammirevole continuità" (p. 20). La lingua straniera è qui all'origine del "chiasmo del piacere". - Le parole, tra gli amanti, provocano strani intervalli, colmi di miraggi. Quando il Recitante chiama la straniera "angelo mio", questa appellazione rianima il suo paradiso di fanciullo, l'immagine della "Urì" carnale e pura, secondo l'Islam, fino all'atto della carne. L'angelo cristiano è spiritualizzato, asessuato. Trasmettere il significato islamico alla parola francese che è deputata a tradurlo conduce a far sorgere l'immagine paradossale "di una santa in calore, di un mistico del tutto osceno". Anche se non ci credono più, gli amanti non sfuggono al loro doppio libro: ne approfittano. -Il momento più drammatico del racconto è quello in cui gli amanti cominciano a non sopportare le insidie che le parole aprono sotto i loro passi. Davanti ad un sontuoso mazzo di rose messo nel salone della giovane donna, il Recitante ha l'impressione che vengono offerte ali' assente, all'altro lui stesso (colui che parla francese?). Egli si sente cancellato dall'immagine dell'Altro e una folle gelosia nasce in lui. Tenta di sfuggire da essa tramite "la meditazione dei fiori". Sorge in lui la traduzione della parola "fiore", "nuar", polisemica in arabo marocchino: vuol dire anche "sifilide". Le parole francesi, nel momento del desiderio più grande di tenerezza, possono essere erose dalla sovrapposizione delle due lingue: "Mai, mai ti chiamerò il mio fiore" (p. 49). Una tale situazione linguistica conduce perfino a dimenticare nomi 30 (qui dei fiori e dei profumi). Ma c'è di più: c'è l'amnesia a doppio registro: del nome e della cosa stessa; parole davanti alle cose, cose davanti alle parole. Paradossalmente, se il blocco conduce alla sofferenza, l'oblio provoca un piacere nostalgico che porterà più gioia al ritrovamento e può così nutrire il lavoro testuale. La scrittura nasce dall'amnesia, dal vuoto interiore. La bi-lingua con l'aprire i suoi abissi dà vita ad una bella "energia di amnesia", la béance che suscita il desiderio. Il lavoro di scrittura è un lavoro di amnesia. Non è quindi un caso se "il pensiero del vuoto" nutre le letture taoiste (vedi Le lutteurde classe à la manière taoiste, Parigi, Sindbad 1976). D'altra parte, il Recitante è veramente affascinato dagli handicappati della comunicazione: balbuzienti, sordi, muti, ciechi si succedono nel testo con i ventriloqui, i mongoloidi, gli albini, etc ... L'autore dice la gravità dei gesti del cieco che non "vede" i gesti dell'altro, ma trae le sue informazioni dal contatto. Egli ride con un balbuziente. Simpatizza con il sordo per il suo amore impossibile della lingua. Si appassiona per le cabine di traduzione simultanea, le macchine traduttrici, la composizione di assemblaggi poliglotti, mentre lo sconvolge una scena d'amore gestuale tra sordo-muti. Tutte queste osservazioni e tutti questi raffronti portano l'autore a dire: non si parla una lingua, si è parlati da essa: "La tua lingua materna ti ha data a me, e dipende probabilmente, più da me che da te" (p. 36). Questa sensazione di inglobamento in un ambiente che lo manipola, il Recitante la prova nell'oceano, durante i bagni voluttuosi in cui egli gode della esaltazione nel mare notturno o tumultuoso al limite dell' annegamento: allo stesso modo, il godimento e l'esaltazione della lingua. Nel testo si ritrova a più riprese: "mi vedevo visto dalla notte", "fu preso dal volante della vettura", "si lasciava meditare dai fiori". La parola "eau" lo spinge al nuoto, la parola "mer / Bahr" lo bagna in una inversione dalla cosa alla parola. Egli ha l'impressione di nascere dalla lingua stessa, di partorirsi nella parola "bambino" (si ritrova l'antica ossessione de La mémoire tatouée: "Ho sognato questa notte che il mio corpo era parola"). Le lingue non sono di nessuno, ma possiedono le persone, rifluiscono in se stesse, come il mare, si proiettano l'una contro l'altra, si distruggono insidiosamente. La lingua, la bi-lingua bagna l'inconscio. Onde di parole lo pervadono completamente. Come sogna nella bi-lingua, si domanda? Quale interpretazione freudiana dare ad un sogno in cui il pensiero crolla? La prima ed immediata associazione si fa con un terremoto, la seconda conduce ad un acquietamento: "Quando la terra sarà scossa dal sisma, e rigetterà i propri fardelli, e l'uomo dirà: 'cosa le succede?', in quel giorno essa narrerà la propria storia" (p. 9). La lingua è sessuata: c'è la lingua della madre, quella del padre e tra di esse dei rapporti di dominazione, da maschio a femmina. Il bambino bilingue desidera, per via dell'attaccamento alla madre, sostituirsi a lei per ingravidare il padre (vedi p. 58): bisogna forse capire che egli cerca di fare dominare la lingua della madre, il parlare popolare, sulla lingua sacrale, fosse anche attraverso la lingua straniera dominante? Si conosce la follia per averla esplorata. Ogni colpevolezza nei riguardi della lingua materna è cancellata. Una scena comico-fantasmatica mostra il paziente bilingue che "accoppa" il suo psicanalista a colpi di ombrello. Come altri scrittori ricorrono alla terza lingua, lingua del piacere, per uscire dalla contraddizione tra l'arabo e il francese, Khatibi, in tutti i suoi testi e soprattutto in questo, fa appello ali' altrove per respingere l'indicibile. Lo scrittore è votato al palinsesto delle sue lingue, allo sdoppiamento, alla schise, all'alienazione (pensiamo ancora allo scrittore algerino Kateb che dice alla fine di Lepolygone étoilé: "Ho perso allo stesso tempo mia madre e il suo linguaggio, unici tesori inalienabili - e tuttavia alienati -"). Ma se è capace di pensare chiaramente alla situazione, trae piacere dalla follia della lingua, dalla follia delle lingue, delle sue lingue (Khatibi parla anche spagnolo, inglese, svedese, colleziona dei frammenti di lingue asiatiche riportate dai suoi viaggi). Una volta che la lingua materna è affrancata dall'umiliazione, tutte le lingue del mondo imparano molto sulle altre. Condividiamo dunque la conclusione di questo bel testo (della collana "Il lato dell'ombra", diretta da Itala Vivan), che è un'apertura alle lingue, un augurio plurilingue nel momento tragico che sta vivendo il nostro pianeta: "Poter dire solo questo: 'Insegnami a parlare nelle tue lingue!"'.
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