Linea d'ombra - anno XI - n. 86 - ottobre 1993

CONFRONTI Per capire meglio l_eimplicazioni delle scelte metodologiche del nostro autore, facciamo un esempio tratto dal capitolo in cui si analizza il concetto di "tribù". Questa bella parola dalla cupa musicalità ha avuto un ruolo chiave nel formare l'immagine europea dell'Africa: evoca un' immagine di massa brulicante, nera nel nero della giungla, o bianca sulle sabbie del Sahara. Uno stadio intermedio tra l'orda e lo Stato, la definiva l'antropologia evoluzionistica del secolo scorso. PerEickelman, invece, la tribù è un "costrutto". Un principio astratto di rappresentazione del sociale, usato in forme diverse sia dai nativi, sia dall'antropologo. È un "insieme simbolico" che muta con l'evolversi delle situazioni storiche, a seconda degli interessi di chi parla: "Allo scopo di frenare lo sviluppo dei movimenti nazionalisti, i poteri coloniali promossero spesso (ad esempio in Marocco ed in Sudan) le identità 'tribali', e fecero dell'amministrazione tribale un'arte raffinata. Opposte furono invece le politiche degli stati nel periodo che seguì la decolonizzazione" (p. 122). Queste parole sulla strumentalizzazione politica delle categorie culturali di descrizione della realtà sociale suonano tragicamente attuali, mentre ascoltiamo smarriti la retorica stereotipata e sanguinosa dei duci serbi e croati. Per la sua opera di sintesi e ricapitolazione, Eickelman sceglie un quadro ampio. Seguendo il corso del sole, spazia dall' Afghanistan al Marocco. Questa fetta di mondo la chiama "Medio Oriente", strattonando la geografia imparata a scuola. La sua Terra di Mezzo si dilata verso Ovest, inghiottendo un "Vicino Oriente" caduto in desuetudine, e perfino un "Maghreb", che in arabo significa "Occidente". L'operazione semantica e concettuale lascia perplessi. Ma nel generale impazzimento delle consuete meridiane geopolitiche, nessuno si orienta più con sicurezza. E ci diciamo che forse l'autore ha trovato un nuovo criterio unificante, solido e chiaro. Aspettiamo di aver letto, allora, per giudicare. Il fatto è che, giunti alla fine del libro, un'area omogenea dai confini definiti non è emersa. Sembra, al contrario, che gli sforzi maggiori di Eickelman siano andati in una direzione opposta alla ricostruzione di categorie unitarie. Egli relativizza sistematicamente la portata dei tratti unificanti sottolineati a suo tempo dall'antropologia tradizionale e dagli studi orientalistici. L'importanza socio-economica del nomadismo pastorale, per esempio, esagerata nel passato dalla sproporzionata attenzione scientifica nei suoi riguardi, viene ridimensionata bruscamente. Ci viene fatto notare che già nel lontano 1970, "i pastori nomadi costituivano poco più dell' 1 % della popolazione totale del Medio Oriente" (p. 61). Dell'insistenza di Èickelman sulla relatività e la variabilità del concetto di "tribù" si è già detto; lo stesso destino di decostruzione tocca alle nozioni di "lignaggio" e di "parentela", largamente usate in antropologia quali strumenti di interpretazione delle reti di solidarietà interpersonali, delle dinamiche ereditarie e delle scelte matrimoniali. Dal resoconto di ricerche fatte dal nostro autore nella cittadina marocchina di Boujad, apprendiamo, per esempio, che spesso la parentela ufficiale viene alterata, nei discorsi e nelle narrazioni degli intervistati, per adattarla a rispecchiare preesistenti legami di "vicinanza" territoriale e sociale (qaraba). La coesione sociale, insomma, è un bene prezioso, che va costruito e costantemente rinforzato, all'occasione anche mediante stratagemmi simbolici. 26 Quanto al fattore di omogeneità più evidente per uno sguardo profano e plasmato dai mass-media, mi riferisco naturalmente all'Islam, l'autore lo demolisce. Privilegiando l'analisi delle pratiche religiose quotidiane invece dell'esegesi dottrinale, egli nega l'esistenza di un'"essenza unitaria" dell'Islam. Mutuando una formula dell'antropologo egiziano Zein, Eickelman preferisce parlare di lslams. Si tratta di un approccio impegnato e polemico che rappresenta, come viene apertamente riconosciuto, "una reazione tanto contro la ricerca orientalistica di un' 'essenza' astorica dell'Islam, quanto contro l'avventura in qualche modo parallela di certi musulmani fondamentalisti, per i quali le loro credenze e le loro pratiche sono 'islamiche', ma non quelle di altri musulmani che non praticano la religione come loro" (p. 259). Dal caleidoscopio di Eickelman emergono visioni, talvolta purtroppo un po' fugaci, di un universo religioso ricco ed eterogeneo, le cui parti si influenzano a vicenda, si fanno concorrenza o si combattono. In una successione forse un po' casuale, sorvoliamo gli sciiti "del dodicesimo Imam", egemoni in Iran e numericamente prevalenti in Iraq, e assistiamo al loro drammatico rituale di lutto collettivo per commemorare la morte di Husayn, nipote del profeta, avvenuta nella battaglia di Karbala (nell'anno 680 del calendario cristiano); poi penetriamo nei villaggi alavi ti della Turchia orientale, dove ci viene sollevato un velo sul loro Islam marginale e segreto; gli stessi alaviti li seguiamo nella Germania dell'emigrazione, in cui la loro identità, sottratta al pesante controllo governativo, emerge più forte e distinta; siamo poi guidati nel complesso mondo delle confraternite religiose, da quelle più severe, spirituali ed elitarie, a quelle più estese e popolari. Il percorso è insieme geografico e cronologico, e ci conduce fino ai pensatori riformisti del secolo scorso (Jamal-al-Din al Afghani 1839-1897, Mohammed 'Abduh 1849-1905), e al radicalismo dei Fratelli Musulmani, la voce del cui fondatore, Hasan al-Banna (1906-1949), fu propagata in tutto il mondo arabo da Sayid Qutb (1906-1966). In questa pluralistica galassia il collante teologico-dogmatico è debole; riprendendo Cantwell Smith l'autore scrive che, per l'Islam, "sarebbe più appropriato parlare di ortoprassi, una base comune di pratiche e rituali, piuttosto che di ortodossia, una base comune di credenze"(p. 259). I fondamenti di questa relativa omogeneità di pratiche consistono tradizionalmente nei famosi "cinque pilastri" (professione di fede, cinque preghiere giornaliere, offerta di elemosine, mese di digiuno rituale annuale, pellegrinaggio alla Mecca). Anche questi fondamentali doveri rituali, peraltro, vengono assolti con gradi diversi di rigore e in forme che mutano, a seconda dei luoghi e della condizione sociale. L'insegnamento più prezioso del testo, in fin dei conti, risiede proprio nel suo rifiuto di facili generalizzazioni. Nella tensione, che si avverte in ognj pagina, tra categorie sintetiche e risultati dell'osservazione empirica. Lo stesso "Medio Oriente", come entità geografica e culturale unitaria, sta nel libro quale un'ipotesi iniziale, che alla fine risulta confutata. Stupisce un po', sia detto incidentalmente, che il Mediterraneo non compaia mai come possibile quadro interpretativo, perlomeno nel campo dell'antropologia della famiglia. La cornice, sembra dirci Eickelman, esiste per essere smontata e sostituita da un'altra cornice, che ci permetta di distinguere meglio la "forma della società". E così via ricercando.

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