Linea d'ombra - anno XI - n. 86 - ottobre 1993

CONFRONTI tanti legami che mi vincolano alla storia, al presente e al futuro del mondo arabo, e non solo del mio paese. Ho vissuto all'estero: ho lavorato per tre anni in Germania e ho studiato per tre anni cinematografia a Mosca. Ho visto quanto triste e misera può essere la vita degli scrittori in esilio, salvo quelli che scrivono in una lingua diversa dall'arabo. Io scrivo solo in arabo e mi interessa moltissimo la reazione del lettòre arabo, per questo motivo non ho mai pensato di lasciare il mio paese. Però le mie storie non sono ambientate solo in Egitto. Il romanzo Beirut Beirut, per esempio, parla delle conseguenze della guerra civile libanese. In futuro mi piacerebbe scrivere un romanzo sull'Oman che ho visitato ultimamente. Questo paese, che ha vissuto un tentativo rivoluzionario fallito, è la chiave per studiare il fenomeno rivoluzionario marxista nel mondo arabo: la sua grandezza e i motivi del suo fallimento. Vorrei anche scrivere un romanzo storico su un'esperienza simile, vissuta mille anni fa nel Bahrein: mi riferisco alla rivoluzione dei Carmati (Qaramitah) che sin da quell'epoca hanno tentato di costruire una società comunista. Di solito nel mondo arabo gli scrittori si lamentano delle relazioni tra potere e intellettuali, com'è oggi la situazione in Egitto? Anche da noi le relazioni tra potere e intellettuali sono complicate. Il potere si è arreso alla potenza americana e così ha perso il consenso popolare però, nello stesso tempo, si deve confrontare con il pericolo dell'estremismo religioso. Ma poiché è debole, il potere permette un certo margine di libertà di espressione agli intellettuali, cercando l'aiuto di quegli scrittori liberali che si trovano anche loro in una situazione difficile: sono contro la subordinazione del potere alle autorità straniere da una parte, e nello stesso tempo, lottano contro l'estremismo religioso. In Occidente si parla molto dell'integralismo islamico, secondo te è giustificata questa nostra apprensione? Nell'Occidente avete paura di tante cose. All'inizio avete parlato del pericolo comunista, poi del pericolo del nazionalismo arabo, del pericolo nasseriano e adesso del pericolo islamico. Ma quelli che parlano così in Occidente sono gli stessi che hanno grandi interessi e si preoccupano solo di tutelarli. Ci sono movimenti islamici estremisti e, naturalmente, io sono contrario, ma nel territorio arabo ci sono altri movimenti estremisti, come il sionismo, e da voi non ne parlate abbastanza. Ci sono anche alcuni movimenti cristiani estremisti, ma fino ad ora non hanno usato la violenza.L'estremismo comunque è sempre il risultato di una delusione. Per secoli siamo stati vittime dell'aggressione straniera: turchi, inglesi, francesi, italiani, israeliani e adesso gli americani. Tutti i tentativi per liberarci della dipendenza straniera e costruire una rivoluzione industriale araba sono falliti. Adesso il cittadino egiziano sa di essere sfruttato dall'Occidente che gli prende le materie prime a poco prezzo per poi rivendergli prodotti finiti a caro prezzo. E inoltre si sente sfruttato anche da parte del suo governo. La vera alternativa è la sinistra, ma anche la sinistra ha subito colpi forti che l'hanno indebolita e quindi per qualcuno di loro cosa rimane se non il ritorno al passato e all'estremismo? Questo, comunque, non è l'unico pericolo che dobbiamo affrontare, ma è uno dei tanti pericoli che subiamo, come il sionismo e l'imperialismo. · Tu che sei anche un affermato scrittore per l'infanzia, che genere di racconti proponi ai tuoi piccoli lettori? Scrivo per soddisfare una mia esigenza, perciò mi piace scrivere per i bambini come mi piace scrivere per gli adulti e quello che scrivo per i bambini non è diverso da quello che scrivo per i grandi. Ai bambini descrivo la vita vera del mondo degli animali, in ambiente arabo; per gli adulti cerco di descrivere la loro vera vita. Dove finisce il Medio Oriente? Le domande di due libri Ferruccio Pastore Siamo un popolo di curiosi, si dice. Di gente intraprendente. Mercanti e navigatori, si narra. E oggi turisti di lungo corso, accaniti consumatori di mete originali. Siamo stati coloni e colonialisti, emigranti e popolatori. Tecnici italiani hanno scavato pozzi in Persia, tracciato autostrade nel deserto. Ma questa vocazione ad uscire dai confini è stata e resta eminentemente pratica. Via da casa, l'interesse ha guidato il nostro sguardo; o, tutt'al più, il gusto per il nuovo, l'esotico e il sensazionale. La voglia di capire, purtroppo, ci ha sempre fatto difetto. I tedeschi hanno decifrato le lingue del Nostro Mare. Francesi, inglesi e olandesi hanno inventato l'antropologia. Definendo il lignaggio e la tribù, I' etnìa e la razza, hanno classificato l'umanità, modellandola perché funzionasse secondo i loro interessi. Quest'illusione demiurgica mancava ai conquistatori italiani: violenza, retorica e benevolenza furono i buoni vecchi strumenti usati nell'Africa orientale e in Libia. Oggi il peso di questa ignoranza si fa sentire. Nessuno si illude che lo sforzo di capire elimini le ragioni di conflitto e annulli la tentazione della prevaricazione; tuttavia, se in Somalia avessimo saputo guardarci intorno, mentre "cooperavamo", forse a qualcosa sarebbe servito. E nelle nostre città di oggi, cambiate dall'immigrazione, studiare e discutere le "differenze culturali" è l'unico modo per evitare di vederle e additarle dove non ci sono. Per queste ragioni, ogni libro serio di antropologia che venga scritto o tradotto in Italia ci fa bene. Questa generale prescrizione vale, senza dubbio, per un saggio di Dale F. Eickelman, pubblicato di recente da Rosenberg e Sellier nella traduzione di Lanfranco Bianchetti Revelli e con la supervisione di Vanessa Maher (pp. 396, L. 45.000). La versione italiana ha un buffo titolo da summa positivistica ottocentesca, Popoli e culture del Medio Oriente, forse ritenuto più attraente, per lo sprovveduto pubblico italiano, del meno pomposo titolo inglese: The Middle East. An Anthropological Approach. Il prezzo crea qualche esitazione: 45.000 lire sono tante se si vuole che sia letto in giro, e non solo dai recensori e dagli studenti universitari a cui sarà prescritto; più rilevanti e interessanti sono però le perplessità suscitate dalla lettura. Eickelman è un antropologo americano che ha lavorato soprattutto in Marocco (al famoso "progetto Sefrou" che riuniva anche Hildred e Clifford Geertz, Paul Rabinow e Lawrence Rosen), ma ha toccato nei suoi viaggi di studio anche l'Arabia Saudita, l'Oman ed altri Paesi arabo-musulmani. Le sue principali ricerche sul campo hanno riguardato la religiosità popolare, le istituzioni scolastiche e i modi di trasmissione del sapere, il ruolo sociale degli intellettuali tradizionali. Con questo libro, uscito nel 1989 negli Stati Uniti, egli mira ad una sintesi. Gli strumenti usati sono quelli à la page di un'antropologia costrutti vista e riflessiva, ovvero molto attenta a svelare le ideologie implicite nelle categorie apparentemente più "naturali", e insistente nel problematizzare il metodo e la posizione del ricercatore in seno al contesto osservato. 25

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