IL CONTESTO è allora senza autorità, così quando nel momento cruciale ordina alla popolazione di accogliere a braccia aperte i soldati, la gente ascolta e crede piuttosto agli studenti ed insorge contro l' esercito. 2 In 10 anni di riforme, dalla fine degli anni Settanta, l'atmosfera si è liberata e i quadri intermedi vanno avanti facendo soldi piuttosto che obbedendo ali' ideologia. E per questo non c'è insoddisfazione, anzi. La risposta del governo in quei giorni è invece ripristinare li vecchie riunioni politiche, commissioni di disciplina, rapporti segreti: nessuno li prende più sul serio.3 I leader non si accorgono di tutto questo? I canali di informazioni in quei giorni non funzionano bene, molti giornalisti, agenti del servizio segreto cinese, non scrivono più rapporti perché non vogliono aiutare la repressione, spesso anzi passano informazioni agli studenti. Ma c'è altro. I vecchi sono parte integrante di quel vecchio modo di governare, non sanno nemmeno che può esisterne un altro.4 Infine gli intellettuali che hanno aiutato Deng e i suoi a rimettere in piedi l'edificio legale e ideologico della Cina in quei giorni si sono schierati in massa con gli studenti. Li aiutano a vincere i governanti al loro stesso gioco, non infrangono mai le regole e riescono anzi a "usare le nostre stesse regole contro di noi" come dirà dopo la repressione uno dei leader. I vecchi per ristabilire il loro potere non hanno più armi, tranne le armi vere, fucili e carri armati. Ma proprio perché la loro vittoria l'hanno ottenuta sempre stando dentro le regole, i giovani non possono trasformare la loro autorità morale in autorità politica andando oltre le regole: imbracciando le armi contro l'esercito. Loro, in maggioranza almeno, vogliono essere solo una forza di opposizione. "Noi non vogliamo il disordine, la rivoluzione - mi ha detto più d'uno di quelli che partecipavano allo sciopero della fame- vogliamo solo democrazia, progresso, parlare con il governo a proposito della corruzione." Contro le armi vere erano disarmati. Del resto la resistenza alla repressione ha rafforzato la loro organizzazione, ed è la prima fase per diventare un "contropotere". Ancora non bastava, però, ci voleva tempo, disciplina, pazienza. Bastava dare un'occhiata alle tende in piazza per capire che Tiananmen stava diventando la nuova Yanan, la città dove era approdata la lunga marcia e da dove era iniziata la liberazione della Cina. Un angolo era addirittura trasformato in università per la democrazia, quasi come l'università rossa di Yanan. Cosa sarebbe diventato con il tempo? Sotto gli occhi del mondo e davanti al naso dei leader del paese? Per i dirigenti questo poteva avere tanti motivi complicati ma in fondo era solo disordine, e l'ordine andava ristabilito. La tradizione politica Non sono idee nuove, anzi. La terminologia e lo stesso modo di pensare sembravano appartenere più alla cultura classica cinese. Del resto ognuno usa la cultura che ha. Le opinioni differivano fra i vari pensatori su come arrivare all'ordine e cos'era in fondo l'ordine, ma non sul fatto che luan, disordini, fosse male. Così pensano anche i vecchi dirigenti, per loro il movimento studentesco provoca disordini e il primo compito dei governanti è ristabilire l'ordine, poi si vedrà di modificare le cause che lo hanno generato. La soluzione pratica è una: fare quadrato intorno ai vertici, ristabilire l'unità che in cinese moderno per il leader massimo Deng Xiaoping si dice tongyi come si legge ogni mattina sui giornali. In cinese classico per il filosofo Mozi si diceva tongyi con solo una piccola differenza di grafia nei caratteri originali, quasi che 2.500 anni di storia non fossero mai passati. Questa idea è confermata dalla biblioteca di Mao: lui non parlava o leggeva alcuna lingua straniera ma sui suoi scaffali spiccava lo 12 Zizhitongcha, un'opera storica del XIV secolo con molti capitoli di storia militare. Allora bisogna leggere le loro azioni da quel punto di vista. La società classica è idealmente molto gerarchizzata come una piramide a piani rigidi. A ogni livello c'è un responsabile che risponde delle sue azioni solo al proprio capo e non alla gente che comanda; questo perché lo stato deve confluire nelle mani del capo e la volontà popolare deve essere una con l'imperatore, il figlio del cielo. Quindi ai vari gradi i capi devono implementare la volontà dei vertici e tutti devono adeguarsi ai propri superiori. Se i capi rispondessero delle proprie azioni ai loro sottoposti allora sarebbe facile che capo e sottoposti, al primo attrito coi vertici, si riunissero in una specie di consorteria contro il figlio del cielo, o comunque contro un superiore. Invece il capo deve essere come sospeso nel nulla fra due minacce: quella di essere decapitato dai superiori e quella di essere linciato dai sudditi. In questa tensione, in una situazione di pericolo si appoggerà alla struttura che lo ha promosso e nella quale è cresciuto, la gerarchia, e sacrificherà senza esitazione la gente. Si tratta di un'ottima garanzia di fedeltà. I capi così non possono agire in proprio, sono rigorosamente gli occhi e le orecchie del sovrano, sono degli strumenti che mettono in grado l'imperatore di sapere tutto e di avere il quadro completo della situazione. Solo sapendo tutto si può reggere con oculatezza il governo e quindi i vari capi non possono agire in proprio perché deciderebbero solo in base a informazioni parziali. E inoltre questo presuppone un monopolio rigido e vari livelli di segretezza delle informazioni: infatti, come ripetono i filosofi legalisti, solo il sovrano può avere una vista e un udito da spirito, perché- tramite l'efficiente circuito di informazioni - sa tutto e può decidere su tutto. Tale apparato si regge però su una disponibilità della gente ad essere governata; il bieco esercizio della forza non basterebbe. La gente può dare dei "consigli leali" ai suoi capi, denunciare gli oppositori e chi si riunisce con intenzioni ostili; in realtà sin dall'antichità le uniche riunioni consentite sono quelle promosse dai capi. Ma questi "consigli" e lealtà ci possono essere solo se c'è una fede (xin) nella gerarchia, cioè se i capi sono effettivamente uomini virtuosi che pensano al bene del popolo e non agli interessi personali. Se non sono virtuosi nella teoria classica sono semplicemente corrotti. A sua volta la virtù è aver ben presente la volontà, i bisogni del popolo (yu), porvi un freno quando le richieste sono eccessive, ma anche accontentarla quando è giusto. In questo margine di grande discrezionalità è il potere dei singoli capi e del sovrano nei momenti di crisi. Ma i classici non erano così ingenui e conoscevano questa debolezza del loro edificio teorico. Se emerge un fenomeno nuovo, il compito dei dirigenti è stabilire cos'è, dargli un nome, cioè decidere se per il potere e lo stato è buono o cattivo. Se qualcuno prende dei soldi a un passante, io devo decidere se costui è un uomo affamato che si è rivalso contro un ricco mercante, oppure se è un ladro. Se è un uomo lo lascio libero, se è un ladro, allora non è un uomo e quindi deve essere ucciso.5 La famosa questione della "rettificazione nomi" dell'epoca classica è un po' tutta qui, quasi come quello che fa da noi un giudice in tribunale quando deve decidere se qualcuno è o meno un ladro e perciò se metterlo in galera o no. La differenza è però che in questo sistema non c'è nessuna trasparenza o regole rigide, tutto dipende da come la pensano i giudici. Essi agiranno pensando certo agli interessi dello stato, ma, nella migliore delle ipotesi, nei casi più dubbi e quando la crisi è più grave, ci saranno opinioni diverse su cos'è l'interesse dello stato, e questo interesse, nella foga della discussione, finirà per coincidere con quello proprio del giudice o del governante. Tali divisioni minano la facciata unitaria di cui ha bisogno la corte per governare.
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