Linea d'ombra - anno XI - n. 86 - ottobre 1993

OTTOBRE 1993 - NUMERO 86 LIRE9.000 I mensile di storie, immagini, discussioni e spettacolo SPED.IN ABB. POSTALEGR. 111- 70%- VIAGAFFURIO4 - 20124 MIIANO

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Gruppo redazionale: Alfonso Berardinelli, Gianfranco Bettin, Grazia Cherchi, Marcello Flores, Goffredo Fofi (direttore), Piergiorgio Giacchè, Gad Lerner, Luigi Manconi, Santina Mobiglia, Lia Sacerdote (direzione editoriale), Marino Sinibaldi. Collaboratori: Damiano D. Abeni, Adelina Aletti, Chiara Allegra, Enrico Alleva, Livia Apa, Guido Armellini, Giancarlo Ascari, Fabrizio Bagatti, Laura Balbo, Mario Barenghi, Alessandro Baricco, Matteo Bellinelli, Stefano Benni, Andrea Berrini, Giorgio Bert, Paolo Bertinetti, Francesco Binni, Lanfranco Binni, Luigi Bobbio, Norberto Bobbio, Marilla Boffito, Giacomo Borella, Franco Brioschi, Marisa Bulgheroni, Silvia Calamandrei, Isabella Camera d'Afflitto, Gianni Canova, Marisa Caramella, Rocco Carbone, Caterina Carpinato, Bruno Cartosio, Cesare Cases, Alberto Cavaglion, Roberto Cazzola, Francesco Ciafaloni, Luca Clerici, Pino Corrias, Vincenzo Consolo, Vincenzo Cottinelli, Alberto Cristofori, Mario Cuminetti, Peppo Delconte, Roberto Delera, Stefano De Matteis, Piera Detassis, Vittorio Dini, Carlo Donolo, Riccardo Duranti, Edoardo Esposito, Saverio Esposito, Bruno Falcetto, Giorgio Ferrari, Maria Ferretti, Ernesto Franco, Guido Franzinetti, Giancarlo Gaeta, Alberto Gallas, Nicola Gallerano, Fabio Gambaro, Roberto Gatti, Filippo Gentiloni, Gabriella Giannachi, Giovanni Giovannetti, Paolo Giovannetti, Giovanni Giudici, Bianca Guidetti Serra, Giovanni Jervis, Roberto Koch, Filippo La Porta, Stefano Levi della Torre, Mimmo Lombezzi, Marcello Lorrai, Maria Maderna, Maria Teresa Mandalari, Danilo Manera, Bruno Mari, Edoarda Masi, Roberta Mazzanti, Roberto Menin, Paolo Mereghetti, Diego Mormorio, Maria Nadotti, Antonello Negri, Grazia Neri, Marco Nifantani, Luisa Orelli, Maria Teresa Orsi, Pia Pera, Silvio Perrella, Cesare Pianciola, Guido Pigni, Giovanni Pillonca, Bruno Pischedda, Oreste Pivetta, Pietro Polito, Giuliano Pontara, Giuseppe Pontremoli, Sandro Portelli, Dario Puccini, Fabrizia Ramondino, Michele Ranchetti, Marco Restelli, Marco Revelli, Alessandra Riccio, Fabio Rodriguez Amaya, Paolo Rosa, Roberto Rossi, Gian Enrico Rusconi, Nanni Salio, Paolo Scarnecchia, Domenico Scarpa, Maria Schiavo, Franco Serra, Francesco Sisci, Joaqufn Sokolowicz, Piero Spila, Paola Splendore, Antonella Tarpino, Fabio Terragni, Alessandro Triulzi, Gianni Turchetta, Federico Varese, Bruno Ventavoli, Emanuele Vinassa de Regny, Tullio Vinay, Itala Vivan, Gianni Volpi. Progetto grafico: Andrea Rauch/Graphiti Ricerche redazionali: Natalia Delconte Pubblicità: Miriam Corradi Esteri: Pinuccia Ferrari Produzione: Emanuela Re Amministrazione: Patrizia Brogi Hanno co/1/ribuito alla preparazione di quesro numero: Giovanna Busacca, Barbara Galla, Giovanni Galli, Lieselotte Longato, Romano Montroni, Marco Antonio Sannella, Barbara Veduci, l'Odin Teatret, T1 Leuto libreria dello spettacolo di Roma, le agenzie fotografiche Contrasto, Effigie e Grazia Neri. UNEA D'OMBRA anno Xl ottobre 1993 numero 86 IL CONTESTO 4 ? 9 Joaqu[n Sokolowicz Alessandro Oppes Francesco Sisci La pace in Israele La nuova Spagna alla prova La lotta politica in Cina e in Italia. Un confronto e un'intervista con Susan Sontag a Sarajevo, da "El Pais" (a p. 7). CONFRONTI 19 21 22 23 24 25 29 35 Guillermo Cabrera Infante Fabrizio Carbone Paola Splendore Manuela 'Zanirato Sonallah Ibrahim Ferruccio Pastore Majid El Houssi Marisa Caramella Arenas: la distruzione mediante il sesso con un Autoepitaffio di Reinaldo Arenas Sepulveda: un romanzo sull'Amazzonia Dieci storie di Zoe Wicomb L"'onesta farsa" di Félix de Azua Molti pericoli incontro con Isabella Camera D'Afflitto Dove finisce il Medio Oriente? Khatibi tra romanzo e poesia Da Hollywood, dinosauri e titani e P. Mereghetti sul film di Scorsese (a p. 32), G. Canova su quello di Altman (a p. 33), E. Martini su quello di Soldini (a p. 33). ANDANZA SPAGNOLA Poesia 39 Antonio Machado Saggi 41 44 45 49 59 Danilo Manera ]osé Antonio Ugalde Rafael Sanchez Ferlosio Luis Mateo Dfez Antonio Muiioz Molina Storie 46 Juan Eduardo Zuiiiga 48 Luis Mateo Dfez 51 Nuria Amat 53 Rosa Montero 56 José Jiménez Lozano 62 Salvador Espriu 66 Ramon G6mez de la Serna SAGGI Proverbi e cantari a cura di Danilo Manera Piccolo prontuario del '93 Fenomenologia dell'individualismo La verità su Don Chisciotte Sul romanzo I libri e la notte con una nota di Elena Liverani Il nipote di Praga non arriverà Cine Arianna Le sopravvissute Due racconti Il silenzio con un 'intervista a Lozano di S. Burgaretta Tres sorores con una nota di Patrizio Rigobon Le sveglie Edirore: Linea d'ombra Edizioni srl - Via Gaffurio 4 69 20124 Milano Tel. 02/6691132. Fax: 6691299 74 Distrib. edicole Messaggerie Periodici SpA Eugenio Barba Piergiorgio Giacchè Terzo teatro: l'eredità di noi a noi stessi Teatro e antropologia. Note su una "canoa di carta" aderente A.D.N. - Via Famagosta 75 - Milano Tel. 02/8467545-8464950 Distrib. librerie PDE- Viale Manfredo Fanti 91, 50137 Firenze - Tel. 055/587242 Srampa Litouric sas - Via Rossini 30 Trezzano SIN - Tel. 02/48403085 LINEA D'OMBRA Iscritta al tribunale di Milano in data 18.5.87 al n. 393. Direttore responsabile: Goffredo Fofi Sped. Abb. Post. Gruppo IIJ/70% Numero 86 - Lire 9.000 La copertina di questo numero è di Giovanni Mulazzar_ii. Abbonamento annuale: ITALIA L. 85.000, ESTERO L. 100.000 a mezzo assegno bancario o c/c postale n. 54140207 o carta di credito SI intestato a Linea d'ombra. Linea d'ombra è stampata u carta ecologica Freelife Vellum white - Fedrigoni I manoscrilli 11011 vengono resrituiri. Si pubblicano poesie solo su richiesta. Dei resti di cui non siamo in grado di rintracciare gli avenri dirillo, ci dichiariamo pronri a ollemperare agli obblighi relativi.

IL CONTESTO La lunga strada della pace L'accordo tra Israele e l'OLP Joaqufn Sokolowicz È molto improbabile che Hosni Mubarak, il presidente egiziano, sappia dell'esistenza di "Linea d'ombra". Il fatto è che il Mubarak raggiante che in mezzo a un folto gruppo di persone esclamava "diciamoci la verità, è perché alla guida di Israele è arrivato l'attuale governo che siamo riusciti a vedere una stretta di mano fra Rabin e Arafat" sembrava quasi - a un lettore di questo mensile-voler confermare alla prova dei fatti quanto qui pubblicato poco più di un anno fa. Della coalizione allora appena insediata al potere scrivevamo che quella era "una squadra caratterizzata da un animo pacifista" con la quale finalmente diventava "probabile un avvio di soluzione per la questione palestinese". E mettevamo in rilievo non tanto la combinazione dei partiti che l'aveva fatta nascere quanto la presenza al suo interno di certe persone. Sono stati proprio i ministri e funzionari citati in quell'articolo i più attivi promotori e artigiani della svolta. Il riconoscimento dell 'OLP ha poi dimostrato, oltre ali' approccio del tutto nuovo agli aspetti specifici del conflitto con i palestinesi, quella "visione realistica e costruttiva del contesto mediorientale" che attribuivamo al governo guidato dai laburisti. Si può essere ottimisti. Il piano "Gaza and J erieofirst", primo passo, non resterà l'unico, cioè l'ultimo, come in molti nei due campi del conflitto vogliono e come buona parte dell'opinione pubblica mondiale pessimisticamente prevede. Questa previsione è determinata sia dalla consapevolezza dell'esistenza di forti oppositori all'accordo, appunto, sia dall'esperienza di quasi un secolo di violenza sanguinosa che ha sempre soffocato i tentativi di compromesso tra i due popoli che si contendono la stessa terra. Invece questa volta - pensiamo - è davvero legittima la speranza di vedere un giorno la pace basata sulla realizzazione delle aspirazioni nazionali palestinesi. Un giorno non vicino, beninteso, al quale si arriverà dopo mille sabotaggi ancora con spargimento di sangue e sicuramente dovendo superare fasi di stasi e di marce indietro degli stessi protagonisti del cammino ora imboccato. Vediamo perché si può essere ottimisti: Foto di JeffreyMorkowitz (Syqmo/G. Neri)' 4 1) Il principale punto di appoggio dei gruppi palestinesi oltranzisti anti-Arafat, il regime siriano del presidente Hafez elAssad, non può restare a lungo dissociato dal processo di pace che si è aperto (la Giordania ha già aderito, mentre il restante negoziatore, il piccolo e debole Libano, è siro-dipendente e deve per forza attendere ordini da Assad). Questi, che da decenni si comporta in modo da condizionare ogni sviluppo politico mediorientale, scavalcato in questa circostanza dall'odiato Arafat, rischia un isolamento che non si può permettere. Ormai privo della protezione della scomparsa Unione Sovietica, ha bisogno di buoni rapporti con gli Stati Uniti, e gli serve sempre l'assistenza finanziaria delle potenze petrolifere arabe, le quali appoggiano l'accordo OLP-Israele. Conosciuta l'astuzia del capo siriano, si può facilmente immaginare che userà ancora in futuro mezzi duri e violenti a scopo ricattatorio per ottenere di più nei contenziosi e negoziati che di volta in volta avrà con i potenti. Ma avrà nel frattempo siglato anche lui un patto che, del resto, gli dovrebbe consentire di riavere le alture del Golan (occupate oggi da Israele), una restituzione che verosimilmente sogna più che mai ora che, anziano, sa che è prossima la sua uscita di scena. 2) Il crescente fondamentalismo islamico preoccupa i palestinesi dell'OLP quanto Israele. Il fenomeno allarma i regimi arabi, i quali - quasi tutti - appoggiano l'accordo israeliano-palestinese, e anche il regime siriano. Questo allarme diffuso di fronte alla sempre più diffusa violenza integralista è stato un fattore determinante a promuovere l'intesa e dovrebbe esserlo ancora in futuro per favorirne i risultati, in opposizione a una prevedibile crescita ulteriore dei movimenti fondamentalisti proprio come reazione a tale svolta. Potrebbero quindi nascere alleanze regionali inedite in Medio Oriente per combattere i fanatici (finanziati dall'Iran, musulmano non-arabo), le quali necessariamente proteggerebbero il nuovo legame OLP-Israele. 3) I sentimenti della base finiscono storicamente per essere decisi vi e i palestinesi dei territori occupati appoggiano da sempre le scelte pragmatiche, moderate. Quando hanno voltato le spalle ad Arafat, pur vedendolo come il simbolo della causa nazionale, lo si è dovuto alla mancanza di risultati pratici della sua politica, risultati che ora possono cominciare ad arrivare. E prevedibilmente aiuterà alla causa della pace il miglioramento delle proprie condizioni di vita: una casa, nuove possibilità di lavoro, strade. (Le potenze economiche del mondo si stanno adoperando per fare la loro parte in questo senso.) Anche tra i palestinesi in esilio, la possibilità del ritorno o di visitare liberamente i parenti nella terra abbandonata per forza, farà guadagnare consensi alla scelta di Arafat. Quanto agli israeliani, i benefici economici e strategici che dall'accordo ricaverà il loro paese non possono che produrre un sostegno sempre più largo e convinto alla decisione presa ora dal governo. 4) Se Arafat scomparisse improvvisamente dalla scena, se cioè venisse a mancare il leader che in campo arabo si è assunto la maggiore responsabilità, con tutti i rischi, il trauma sarebbe a questo punto transitorio. Ci sono tra i suoi collaboratori di questi ultimi anni e tra i dirigenti dei territori occupati diversi uomini

politici di grande spessore in grado di sostituirlo. Importante è che a fare il primo passo sia stato lui, di modo che il suo pensiero non possa essere soggetto a interpretazioni differenti quando non ci sarà più. Cosa sente in Israele "l'uomo della strada" lo indicano i sondaggi frequenti dopo la stretta di mano di Washington: di settimana in settimana si aggiungono nuovi sostenitori a quella maggioranza ristretta che in un primo momento ha plaudito al governo. E nei territori occupati, tra i palestinesi, si è avuta un'eloquente indicazione il giorno stesso della cerimonia alla Casa Bianca: finito alle 3 del pomeriggio lo sciopero generale proclamato dai fondamentalisti dell'organizzazione Hamàs - rispettato solo da una parte della gente, nonostante la paura di punizione -, sono corsi tutti a guardare per televisione le immagini che arrivano dalla capitale americana e, poi, sono stati molto più numerosi quelli usciti a festeggiare in corteo rispetto agli altri che si sono radunati per urlare la loro condanna del "tradimento". Importano relativamente le dichiarazioni bellicose che continuano a scambiarsi a distanza i protagonisti della stretta di mano IL CONTESTO anche dopo lo storico gesto. "Gerusalemme sarà la capitale palestinese", ha detto Arafat. "Se lo può scordare", ha risposto Rabin. Mentre questi va ripetendo che di uno Stato palestinese neanche a parlarne, l'altro dichiara in continuazione che il primo passo fatto porta verso la fondazione di questo Stato. Sono parole indirizzate ai rispettivi popoli e con l'attenzione rivolta verso le trattative che verranno: ognuno alza la posta in vista del momento in cui si siederà al tavolo. Basti pensare che appena poche settimane prima di riconoscere l'OLP come "rappresentante del popolo palestinese" il capo del governo israeliano aveva detto di non approvare i contatti di alcuni suoi ministri con esponenti dell'organizzazione di Arafat. La strada è lunga, sì, i fondamentalisti islamici stanno affilando i coltelli e anche i coloni ebrei insediatisi in mezzo alle popolazioni palestinesi tengono pronte le armi. Già se tutto andasse regolarmente il traguardo dovrebbe essere raggiunto verso il 2000, figurarsi quanti ritardi potranno essere provocati. Tuttavia non è azzardato, questa volta, considerare che "first" vorrà dire davvero primo. Un passo che sarà seguito da altri in quella direzione. La nuova Spagna alla prova Alessandro Oppes Il desencanto è arrivato nel t:,elmezzo della festa. Il '92 doveva essere l'anno dell'autocelebrazione. E tutto era stato fatto in grande: da Madrid a Barcellona a Siviglia, dalla "capitale europea della cultura" alla sede delle Olimpiadi alla città dell'Expo, un impegno gigantesco per consacrare il definitivo ingresso della Spagna nel salotto buono dell'Occidente industrializzato. Ma la lunga corsa è finita col fiatone, l'atleta è diventato ali' improvviso un paziente affetto da insistenti attacchi d'asma. Il crollo della peseta, travolta dalla tempesta monetaria continentale, ha aperto gli occhi a tutti. E ad occhi aperti si è potuto vedere ciò che c'era intorno: la disoccupazione, l'inflazione, la corruzione. Un modello che entra in crisi, un "regime" socialista che festeggia un amaro decimo compleanno. Tra gli spagnoli e il loro leader c'è stato fin dal primo momento un rapporto di fiducia quasi diretto, una stima per l' hornbre corno tu y corno yo, per il ragazzo della porta accanto, che ha consentito a Feli pe Gonzalez di sai varsi a più riprese da una sfilza di passi falsi nei quali in questo decennio è inceppato il Psoe. "C'erano milioni di Felipe in Spagna", hà scritto Francisco Umbral rievocando il trionfo socialista dell'82, "e hanno votato per se stessi". Questa gente, questo popolo 'felipista' l'ha salvato soprattutto quattro mesi fa, alle politiche anticipate convocate in piena bufera tangenti, quando gli spagnoli hanno scelto Felipe e solo Felipe, togliendogli però quella maggioranza assoluta che gli aveva consentito di trasformare il suo potere in arroganza del potere. Ma l'hanno comunque preferito a quel leader senza carisma che è ]osé Marfa Aznar, alla guida di una destra riveduta e corretta nei programmi e negli uomini ma non ancora ritenuta degna di fiducia incondizionata da parte di un popolo uscito "appena" diciott'anni fa dall'era franchista. Felipe ha ringraziato e ha subito fatto una promessa: "Cambiare il cambiamento", cioè cambiare stile e metodo, ripulire le stanze del potere. Undici anni prima era entrato al Palazzo della Moncloa ali 'insegna dello slogan "Por el cambio", spiegando di voler "far funzionare la Spagna". All'epoca aveva fatto presa ali 'interno di una società che aveva bisogno di rinnovarsi profondamente. Ma le accuse di aver cambiato ben poco si sono fatte di giorno in giorno più impietose. Antonio Guerra, ex dirigente del Psoe, autore di una storia del decennio socialista, dedica le sue "Filfpicas" a "quanti hanno creduto nell'utopia di un cambiamento che non è mai arrivato". E ricorda, proprio in apertura della prima "lettera", le parole di Nicolas Redondo, segretario generale del sindacato Ugt, un tempo stretto alleato dei socialisti al governo, poi fiero avversario: "Mai così pochi, in così poco tempo, hanno deluso tante speranze". Francisco Umbra), scrittore brillante, penna spesso velenosa, è ancor più pesante: accusa il premier di "coltivare il potere per il potere, come Franco", e di aver fatto proprio, nella pratica, lo slogan del Caudillo "Io o il caos". Oltre ad avere al suo fianco - come tutti i potenti - una schiera di giornalisti ossequiosi, Felipe ha sempre "goduto" anche di una pessima stampa: opinionisti tra i più ascoltati di Spagna si sono accaniti contro la politicadel governo ma soprattutto contro il personaggio, la sua mania di protagonismo. Ha davvero sbagliato tutto, Gonzales? Difficile essere così drastici. Anzi, i cambiamenti ci sono stati e, almeno in una certa fase, innegabilmente positivi. Per agganciare il paese al "carro" dello sviluppo, il leader ha puntato tutto sull'Europa, sollecitando l'ammissione alla Cee, ottenuta ne11'85. E ha capito anche che una Spagna europea non poteva restare fuori dalla Nato: nell' 86 gli è così riuscito il capolavoro di convincere l'elettorato socialista a votare "sì" in un referendum che lo stesso premier aveva promesso quattro anni prima con uno spirito diverso. Da allora la Spagna ha 5

IL CONTESTO Barcellono, le Romblos (foto di P. Horree/G. Neri). registrato una crescita economica impressionante, a ritmi del cinque per cento l'anno, la Borsa ha conosciuto un "boom" senza precedenti, il paese è diventato improvvisamente appetibile per folte schiere di investitori stranieri. In dieci anni, il reddito pro capite si è triplicato, passando da 4000 a 12 mila dollari, si è quintuplicato il numero dei supermercati, è cresciuto del cinquanta per cento il numero dei televisori, si è raddoppiata in cinque anni la vendita di auto. Ma i problemj sono arrivati presto. Il 14 dicembre 1988 è passato alla storia come "il giorno in cui si fermarono anche gli orologi": il primo sciopero generale, il primo duro colpo per il governo socialista, che un anno dopo ha subi tu un preoccupante calo elettorale. Poi, è venuta la recessione, la disoccupazione al venti per cento, lo stop improvviso nella lunga "rincorsa" all'Europa. E alla fine il colpo più duro: le accuse di corruzione per il partito socialista. Nel giugno scorso, però, nel segreto dell'urna, la gente ha dato ancora una volta fiducia a Gonzalez, quasi con un'implicita supplica: "Questa volta, non tradirci". È il bisogno di sicurezza di una società disorientata dopo gli anni dell'euforia. Lamovida, cioè l'esplosione di vitalità, tutto ciò che si muoveva e si agitava, l'inno al divertimento, è ormai niente più che un ricordo, magari un oggetto d'analisi per i sociologi. È stata un modo di essere, di vivere che è servito, nei primi anni Ottanta, ad allontanare gli incubi del quarantennio, quasi un rito liberatorio per accantonare - in un vorticoso e disordinato succedersi di espressioni artistiche, culturali, musicali- un passato fastidioso, per rimuovere il 6 franchismo. Quella frenesia Carlos Saura la tradusse bene in un film che racconta la storia di un gruppo di giovani teppisti alla deriva. Un film intitolato, guarda caso, De prisa, de prisa, in fretta, in fretta ... Se la movida è stata messa in soffitta, resta sempre la voglia di fiesta, una caratteristica tutta spagnola che niente potrà scalfire. "Madrid me mata", Madrid mi uccide, dicono i fanatici delle notti senza sonno. E sono tanti, e sono irriducibili. Si danno appuntamento tutti i fine settimana, tra strade e viuzze che circondano la Glorieta (piazza) de Bflbao, nel cuore del vecchio quartiere di Malasaiia, nei bar, nelle discoteche, nei club. Celebrano il piacere di incontrarsi, di parlare, di bere, di far tertulfa (o salotto), di tirar tardi anzi tardissimo, anzi di fare l'alba. Madrid è città speciale, la città che "te mata", ma dopotutto in Spagna i bar sono il luogo privilegiato di incontro, il centro della vita sociale: ce ne sono più di 130 mila, che forse è un record mondiale e comunque è un numero quasi pari a quello dei bar di tutti gli altri paesi della Cee messi insieme. Così non più di qualche mese fa, qu~ndo alcune amministrazioni comunali hanno tentato di imporre la chiusura dei locali alle tre del mattino, c'è stata quasi una rivolta nazionale, con scontri tra dimostranti e polizia. I vecchi orari sono stati subito ripristinati. Dietro la "cultura del bar", com'è stata definita, si cela però anche un problema che si è fatto sempre più preoccupante: l'alcolismo 'giovanile. Cominciano a bere sempre più presto, bevono sempre di più. Dei ragazzi madrileni tra i 12 e i 20 anni, uno su due si dichiara "consumatore abituale di alcol". Ma dai 16 in su l'indicesaleaddiritturaall'83 percento. Spesso poi l'alcolismo si unisce in una miscela esplosiva al consumo di droga. Tra il 1981 e il '92 il numero di morti per overdose è cresciuto da 61 a 806,

il sequestro di cocaina si è moltiplicato per sette, quello di eroina per otto, quello di hascisc si è quadruplicato. La società spagnola si è trasformata, in questi anni, a ritmi vertiginosi. Ha notato lo storico francese Jean Pierre Amalric: "È bastata meno di una generazione agli spagnoli per conoscere un rovesciamento di valori, un cambiamento di modi di vita che in altri paesi ha richiesto almeno mezzo secolo". Un cambiamento a tutto campo. In un paese a lungo tradizionalista, la pratica religiosa che nel 1960 era ancora del 70 per cento oggi è scesa ad appena il 13 per cento. E se dieci anni fa ogni donna spagnola aveva in media 2,2 figli (assurdità della statistica) oggi ne ha appena 1,1 (idem). Crescono i divorzi, cresce il numero di studenti. A conferma che il paese ha ormai "rimosso" il franchismo, la nozione di patria è diventata estranea ai giovani spagnoli. Che infatti rivendicano sempre più spesso il diritto all'obiezione di coscienza. Aman.do de Miguel, autore di un recentissimo studio sulla società spagnola, spiega che i giovani "sono contrari al servizio militare perché non hanno fiducia nelle grandi istituzioni, nella Chiesa, nei partiti, nei sindacati. Ci sono sempre meno militanti". Un'istituzione nella quale credono ancora è però la famiglia, nel senso che se ne allontanano molto meno che in passato, rinviano il più possibile le loro scelte di vita. Ma questo può essere il segno di una generazione senza ambizioni e senza desideri che non siano quelli di vivere il meglio possibile guadagnando sempre di più. I sociologi fanno a gara nel suonare i campanelli d'allarme. C'è chi parla di "disorientamento intellettuale e demoralizzazione sociale", c'è chi denuncia uno sviluppo forsennato dell'individualismo, chi dice che gli spagnoli sono "conformisti, fiacchi, privi di passioni". Tutto vero? Una risposta non esiste, ma ci sono alcune indagini che hanno fornito risultati sconcertanti, numeri e dati che fanno riflettere. Un'inchiesta del Ministero della Cultura indica che il 42 per cento degli spagnoli di età superiore ai diciott'anni non legge niente; il 63 per cento non ha acquistato, nel corso del 1990, neppure un libro; il 60 per cento non ascolta musica; il 51 per cento non va a teatro; l' 80 per cento non ha mai assistito a un concerto rock. Sconsolanti anche i dati sulla produzione culturale. Nel corso degli anni Ottanta, è calata del 52 per cento la produzione di lungometraggi. Nel 1988 è stato stampato in Spagna lo stesso numero di libri del 1975. In compenso, ogni settimana, sette milioni di lettori scoprono tutto sulle pene, gli amori, i matrimoni dei loro divi preferiti. Sono i fanatici della prensa del coraz6n, di quei rotocalchi fatti apposta per presentare il lato buono delle cose, destinati a chi vuole dimenticare la politica. Un successone, proprio mentre i quotidiani d'informazione sono in gravi difficoltà (quattro giornali hanno chiuso i battenti negli ultimi due anni). Insomma, la crisi c'è, crisi di valori e depressione culturale insieme. Il tutto sullo sfondo di un panorama economico ben diverso da quello che prefigurava Felipe Gonzalez quando, nell'euforia degli anni del "boom", prometteva di portare il paese ai vertici del mondo industrializzato. Negli anni Ottanta, il nuovo materialismo spagnolo veniva sintetizzato nelle tre "c" di coche, casa e compaiiera (auto, casa e ragazza). Oggi, in un rapporto che significativamente ha per titolo "Dopo la fiesta", il britannico "Economist" suggerisce altre tre "c", che dovrebbero caratterizzare la Spagna degli anni Novanta: convergenza (adeguamento dell'economia nazionale agli standard Cee), coesione (tenere la Spagna unita al resto dell'Europa), coalizione (la necessità che scaturisce dalla fine del monopolio socialista). IL CONTESTO Aspettando Godot a Saraievo L'esperienza di Susan Sontag a cura di Loretta Colosio Da "El Pafs" del 29 luglio scorso stralciamo questi brani di un'intervista a Susan Sontag che ci sono sembrati di particolare interesse per i nostri lettori. L'intervista della Sontag è opera di Alfonso Armada, ed è stata fatta a Sarajevo. Perché è venuta a Sarajevo dopo che è scoppiata la guerra? La prima volta ci sono venuta quando mio figlio, David Reiff, stava scrivendo un libro sulla guerra in Bosnia. Già prima di allora, comunque, avevo provato un senso di orrore ed indignazione per quello che stava succedendo qui. Devo dire che non avevo mai pensato di venire a Sarajevo, perché non sapevo che cosa avrei potuto fare. Che cosa può fare, in effetti, a Sarajevo chi non è né un giornalista né un volontario al servizio di qualche organizzazione umanitaria? lo, poi, non ho mai fantasticato di arruolarmi come "casco blu". Ho trascorso due settimane in questa città ed è stata un'esperienza straordinaria. Ciò che più colpisce di Sarajevo - a parte la sofferenza della gente-è la possibilità di instaurare un legame molto forte con i bosniaci e con l'idea che la Bosnia debba diventare un paese indipendente. Successivamente, ho cercato il modo di ritornare a Sarajevo e di dedicare un po' del mio tempo a qualche attività moralmente valida. Durante il mio primo soggiorno ho conosciuto alcuni attori di teatro e ho chiesto loro se avrebbero gradito che io lavorassi con loro per qualche tempo. La risposta è stata affermativa. Scegliere il testo da mettere in scena non è stato difficile: mi è bastato pensarci solo un po' e mi è venuto in mente Aspettando Godot. Perché proprio Aspettando Godot? Perché ha un'analogia ovvia con la situazione attuale, che non deve essere spiegata per essere capita. Tutti sorridono quando se ne parla; anche la gente che va incontro alla morte, aspettando, giorno dopo giorno, qualcosa che non arriva mai, lagenteche,dando prova di un disperato senso dell'umorismo, parla della vita e della situazione in cui si trova senza più speranza, pur continuando, nonostante tutto, ad andare avanti. Sarebbe difficile trovare un testo che presenti analogie più evidenti con questa realtà; e non soltanto per il suo valore simbolico. Poi si tratta di una "pièce da camera". In effetti mi piacerebbe mettere in scena un'opera di Shakespeare, maè impossibile farlo su un palcoscenico molto piccolo, a lume di candela e in un edificio che potrebbe essere bombardato da un momento all'altro. Tant'è che ho deciso di sistemare il pubblico sul palcoscenico perché è più sicuro che in platea. Il tetto del teatro è stato parzialmente danneggiato e, qualche giorno fa, è caduto un missile proprio lì accanto, facendo tremare le pareti. Quindi non ho intenzione di esporre il mio pubblico ad alcun pericolo. Che significato ha Sarajevo allafine del XX secolo? Credo che il nostro secolo sia iniziato qui e che altrettanto accadrà con i I prossimo. Il XX secolo è stato breve. La prima guerra mondiale ha preso avvio da questa città. I secoli non iniziano necessariamente nel momento in cui si raggiunge la cifra tonda: il XIX ha avuto inizio nel 1815 con la Restaurazione, dopo la caduta di Napoleone. Suppongo che il XXI sia già incominciato nel 1989 con il suicidio dell'Unione Sovietica, ma si potrebbe anche dire, con un pizzico di ironia, che è iniziato a Sarajevo, perché quanto è accaduto inquesta città completa, per così dire, gli eventi del XX secolo. In che modo si percepisce lo scorrere del tempo a Sarajevo? Un giorno a Sarajevo è come una settimana a New York. Ogni giornata è così piena che una settimana qui pare un mese; è densa di nuove e terribili impressioni. Ma non soltanto terribi Ii, perché qui sta succedendo ciò che accade in circostanze estreme: in questa città assistiamo agli atti più terribili di cui l'uomo sia capace, ma allo stesso tempo possiamo conoscere le persone migliori, le più coraggiose che si possano incontrare in tutta 7

l!iiiltii'l"li Af.EXANDER STIJART Tribu pagine 176 lire 24 000 OTTOBRE UnaLondracupae fiammeggiante fa da sfondoallastoria diunproduttorecinematograficohetentadi allestireun film sullebandegiovanili.Dell'autoredi Zonadiguerra. ldi·Id·tiiiW MARCOGIUSTI Bossoli Il bk>bdellaLega pagine 144 Lire 12 000 Invettive,minacce,slogans,ultimatum,volgarità,messaggievolantini: il primoblobdellaLega ROSELIJNABALBI Ebrei,razzismoe antisemitismo pagine 160 lire 18 000 Sulpregiudiziorazziale antiebraico. PIEROSINATII (a curadi) ChecqsavoglionoiRussi? pagine 160 lire 18 000 Parlanoi protagonisti dellanuovapoliticarussa: dai liberal-democratici, agli slavofili, alla destraradicale. 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I □ Pagheròincontrassegno I I □ Hoversato la cifrasulccp 43907005 intestatoa:EdizioniTheoria I EDIZIONI THEoRIA ViaSeverano 33- 00161 Roma I tel. 06/44291214 fax 44291390 .J .._ _________ EDIZIONITHEORIA • VIASEVERANO, 33 - 00161 ROMA IL CONTESTO una vita. Le situazioni estreme - guerre, catastrofi, ecc. - in un certo luogo - attraggono le persone migliori e quelle peggiori. Pensa che la storia possa ancora insegnarci qualcosa o che invece il mondo abbia dimenticato Auschwitz? Credo che la storia ci impartisca continui 1nsegnamenti. Il fatto è che i più non ne tengono conto. Senza dubbio nel giro di due o tre anni al massimo la versione ufficiale di quan.toè accaduto in questa parte del mondo sarà che le nazioni occidentali hanno commesso grossi errori che continueranno a fare. Stiamo parlando del terzo genocidio di un certo rilievo messo in atto in questo secolo: nel 1915 gli armeni, alla fine degli anni Trenta e all'inizio del decennio successivo gli ebrei e gli zingari, e ora i bosniaci musulmani. Che cos'è lapaura a Sarajevo? Chi non avesse paura, qui, sarebbe pazzo. Si deve avere paura. Vi sono diversi gradi di pericolo: non esistono posti sicuri, ma alcuni lo sono più di altri. Ieri sera ho cenato con il direttore del quotidiano "Oslobodenja", Kemal Kursaphic, che vive a pochi metri dalle linee serbe. Mi ha mostrato i fori lasciati dai proiettili dei cecchini nelle pareti del soggiorno. Il suo vicino del quinto piano - Kemal abita al secondo - è morto sabato scorso sotto i colpi dei serbi. Se gli chiedi dove sono i serbi non esita a rispondere: "In quell'edificio laggiù". Qui la gente è capace di cose straordinarie. A Sarajevo vivono circa 350.000 persone; ogni giorno ne muoiono dieci-quindici e ne resta ferita una ventina. C'è una probabilità su mille che io possa subire la stessa sorte: la gente viene uccisa nel posto dove ti trovavi un'ora prima o dove vai un'ora dopo. La cosa straordinaria, però, è che tutti cercano di fare il possibile per agire come se nulla fosse. Ha intenzione di scrivere un libro sulle sue esperienze ed impressioni? Sto tenendo una sorta di diario intitolato "Aspettando Godot a Sarajevo". Pensa che l'Europa e l'Occidente pagheranno a caro prezzo la loro attuale politica? Ovviamente. Credo che i serbi vogliano impadronirsi di tutto il territorio della ex Jugoslavia. lo ritengo sempre più probabile l' ipotesi peggiore, perché, come diceva Antonio Gramsci, "l'ottimismo [è prerogativa] della barbarie, il pessimismo dell'intelligenza". Penso che il peggio debba ancora venire: i bosniaci saranno completamente sconfitti e Sarajevo sarà occupata, divisa e distrutta. Anche se questo patetico governo sottoscrivesse un accordo di spartizione del paesecosa inaccettabile - causerebbe comunque grandi sofferenze al suo popolo. Penso che finiremo per trovarci in una situazione simile, fatte le debite proporzioni, a quella della Germania di Hitler. La guerra inoltre sta screditando completamente l'Europa. Che cosa pensa dell'atteggiamento dell'ONU, dell'Europa, degli intellettuali e della sinistra nei confronti della Bosnia? Deplorevole. Non lo condivido certo, né condivido il fatto che il governo del mio paese si sia rifiutato di intervenire. Ma penso che la responsabilità maggiore e la vergogna peggiore debbano ricadere su Gran Bretagna, Germania e Francia. Il governo del mio paese dovrebbe intervenire perché si ritiene una superpotenza. I governi dei paesi europei, invece, hanno il dovere morale e politico di intervenire perché la ex Jugoslavia fa parte dell'Europa. Sarajevo era la San Francisco de li 'Europa orientale, era una città cosmopolita e sofisticata, più di quanto lo fossero Zagabria o Belgrado. Forse è proprio per questo che i serbi vogliono distruggerla. Senza le Nazioni Unite - è perfettamente chiaro - non sarebbe sopravvissuta. Di questo sono molto grata ali' Alto Commissariato ONU per i Profughi. Ma le forze ONU non stanno eseguendo gli ordini del Consiglio di Sicurezza. I serbi violano le loro disposizioni ogni giorno; Sarajevo dovrebbe essere una città sicura, mentre si può ben vedere quanto poco lo sia. Per quanto riguarda gli intellettuali, il loro atteggiamento è penoso per me. Quando sono venuta qui in aprile, ho invitato tutti quelli che conosco ad unirsi a me. Della lunga lista di personaggi famosi a cui ho parlato, solo due hanno agito nel senso da me auspicato: uno - appena partito - è Juan Goytisolo, che ammiro di tutto cuore, l'altra è Annie Leibowitz, una famosissima fotografa, che è ancora qui. Molti mi hanno risposto: "È molto pericoloso" o "Devi essere pazza" o "È molto triste". E la sinistra? Oggi non esiste più la sinistra. È solo uno scherzo.

IL CONTESTO Questioni di retorica La politica in Cina e in Italia Francesco Sisci Quanto contano le parole in politica? Facile rispondere: tanto, tantissimo. Sì ma una risposta così resta ancora vaga e non si sa veramente quanto. Forse in Italia però, nell'anno passato, è possibile fare qualche misurazione più concreta. I giornali sono stati una fucina di idee e iniziative per la politica, e spesso sono apparsi quasi suggeritori di un canovaccio che altri recitavano. In tutta la vicenda dell'inchiesta milanese sulla corruzione, condotta dal pool di magistrati di "Mani pulite", il ruolo dei giornali è stato infatti determinante. Un esempio per tutti è il decreto legge firmato dal ministro della giustizia Giovanni Conso per la cosiddetta "soluzione politica" per gli uomini implicati nelle tangenti. li giorno dopo l'annuncio del decreto legge i quotidiani riportavano commenti molto prudenti al riguardo senza troppo esporsi nel merito. Uniche eccezioni "La Stampa" con un fondo firmato da Sergio Romano, che con tatto ma anche con molta decisione respingeva l'idea di quella soluzione politica che di fatto assolveva i tangentomani, e "L'Indipendente" con un fondo del direttore Vittorio Feltri il quale invitava i cittadini a appellarsi al presidente perché non firmasse il decreto legge e si diceva sicuro che il presidente Oscar Luigi Scalfaro non avrebbe firmato il decreto visto che aveva promesso di opporsi a colpi di spugna sulla questione delle tangenti. Quel giorno il Quirinale fu inondato di proteste dei cittadini contro il decreto Conso ormai diventato per tutti il colpo di spugna; decine di migliaia di fax e telefonate raggiunsero i centralini del presidente il quale, come Feltri prevedeva, non firmò il decreto. Il giorno seguente tutti i quotidiani scesero in campo schierandosi nettamente contro il decreto Conso che venne seppellito insieme a ogni idea di trovare una soluzione politica entro l'attuale legislatura per Tangentopoli. Ma qui proprio si aprono delle fessure, la prima delle quali è quasi banale: coloro che hanno telefonato al presidente quanto erano mossi da uno "spontaneo" sentimento di protesta o erano invece "agitati" da quanto avevano scritto "L'Indipendente" e "La Stampa"? E anche coloro che non avevano letto "Stampa" e "Indipendente" quanto erano stati convinti alla loro azione in generale dalla campagna di stampa dei giornali contro Tangentopoli nei mesi precedenti? Cioè quanto i giornali avevano influito nel creare un'opinione pubblica contraria a Tangentopoli? Queste domande si avvicinano alle tesi degli inquisiti. Era quanto pensava l'allora segretario del partito socialista Bettino Craxi che parlava di complotto ordito dai poteri forti, cioè dalla grande industria proprietaria della maggior parte dei giornali italiani. Ma a queste domande se ne deve aggiungere un'altra se si ammette la potente influenza dei giornali nell'attuale process9 politico: perché i giornali sono riusciti nella loro opera di persuasione mentre non ci sono riuscite le televisioni, queste sì all'inizio di Tangentopoli schierate quasi tutte dalla parte del potere costituito? Forse perché i giornali dicevano la verità mentre le televisioni mentivano? Ma questa verità non era la stessa che si ripeteva da anni per le strade? Di bocca in bocca si sorrideva o ci si infuriava perché tutti sapevano del fiume di mazzette che correva per ottenere qualunque cosa: il permesso dai vigili urbani per un lavoro fatto dentro casa o la sicurezza di un grande appalto pubblico. Perchéalloraa un certo punto questa verità era diventata esplosiva? E perché non si dava credito a un'altra storia che solo un anno prima sarebbe stata accolta da tutti come una verità, cioè quanto diceva Craxi, che tutti erano nel mucchio, tutti i partiti e tutte le persone facevano parte, chi più chi meno, del sistema, tutti avevano abusato della legge e avevano attinto al pozzo della corruzione? Probabilmente in quei mesi aveva avuto luogo una articolata "rivoluzione scientifica" per cui un sistema retorico non funzionava più con quello che appariva essere la realtà dei fatti, realtà dei fatti intesa in modo molto concreto: come veniva colpito o stava per essere colpito (questo all'inizio di Tangentopoli) il portafoglio di molti cittadini. Forse per intendere con più chiarezza quello che è avvenuto bisogna però prima guardare a un esempio esterno ché, come capita tra gli uomini, il guardare a un altro fa riconoscere se stessi. Un duello politico a parole Il 4 maggio 1989 si tiene a Pechino una grande manifestazione popolare di opposizione al governo e inCina appare in modo chiaro e netto che gli equilibri politici sono mutati. Tutto era iniziato il 27 aprile quando gli studenti hanno marciato pacificamente per la capitale a dispetto di un bellicoso editoriale del "Quotidiano del popolo" ispirato da Deng che proibiva le manifestazioni. Forse tra gli stessi governanti cinesi in lotta per il potere, qualcuno non ha dato gli ordini che doveva dare e ha giocato contro il grande vecchio. Lo ha fatto esporre con l'editoriale e poi non ha fatto realizzare le minacce. Comunque, anche se tutto fosse andato liscio nella lotta nel partito il compito dei poliziotti il 27 non sarebbe stato facile. Infatti la battaglia tra autorità e studenti si svolge su due binari: quello della forza nuda, riuscire o meno a portare della gente in piazza, e quello della retorica. Che significa? Abbiate pazienza, ci vuole ancora un passo indietro. . A Pechino le manifestazioni sono proibite per ragioni di traffico, ma sono permesse dalla costituzione. Quindi per evitare la repressione bisogna manifestare a un lato della strada. Oppure di notte, quando non c'è traffico da disturbare. Quelle manifestazioni non si "presentano" di protesta. Commemorano la morte di un membro dell'ufficio politico, l'ex segretario del partito Hu Yaobang, sono quindi "a favore" del partito. Perciò si deve chiudere un occhio. Ma gli slogan gridati per la strada non sono altrettanto digeribili. Molti gridano contro Deng Xiaoping e Zhao Ziyang. Quegli slogan in Cina significano automaticamente essere controrivoluzionari. Ma negli ultimi due anni nelle università c'è stata più tolleranza verso teorie dichiaratamente antisocialiste, e questa tolleranza è di fatto il contesto degli slogan controrivoluzionari. Se certe teorie sono insegnate a scuola perché reprimerle adesso, quando i giovani si muovono a sostegno di un ex segretario del partito? Le due parti, dopo, passano notti effervescenti. Gli studenti insistono sui colloqui e la stampa rompe le fila, si sgancia dalla sudditanza prona verso il partito. Molti giornali pubblicano articoli 9

IL CONTESTO Fotodi Geoffrey Hiller (G Neri). su Hu Yaobang e sulle dimostrazioni. La repressione potrà esserci solo se il governo riesce a presentare in modo convincente gli studenti come anticomunisti. Se però tutti gli slogan sono ricalcati sulla linea ufficiale del paitito i poliziotti che difendono il partito come possono sciogliere una manifestazione per il partito? In più i giornalisti, i singoli lavoratori hanno orecchie più disposte ad ascoltare discorsi che abbiano un fondamento ragionevole, con aderenza ai fatti, non c'è più fiducia cieca nei leader, anzi. E qui bisogna dire che con i tempi in Cina è cambiato anche il concetto di "ragionevole" e quindi "vero" e "accettabile". Da un lato le rivolte a Changsha e Xian alla fine di aprile dimostrano la profondità del malcontento e la sua pericolosità sociale. Dall'altro offrono alle autorità una via d'uscita: non si tratta di una lotta "leale" per il benessere della patria, garantita dalla costituzione, ma di disordini dove dei teppisti vogliono distruggere la pace sociale. Il partito stesso però ha detto di volere democrazia e libertà di stampa, ora non si può accusare di essere anticomunista chi come gli studenti ripete quelle stesse cose. E dopo l'attacco del "Quotidiano del popolo", un sociologo consigliava agli studenti: "Devono leggere e rileggere molto attentamente questo articolo. No, non penso che debbano fermarsi. Non c'è nulla di nuovo in questo articolo, il governo ripete la mossa che ha già compiuto con il movimento degli studenti dell'86. Gli studenti possono andare avanti rispettando la legalità, il governo fa una cosa illegale se proibisce le manifestazioni quando sono invece garantite dalla costituzione". La mossa astuta sono gli slogan e gli striscioni "Appoggiamo il partito comunista, appoggiamo il socialismo". Nel paese dove la propaganda è orchestrata come una sinfonia di Mozart gli studenti 10 con questi slogan tolgono al governo ogni motivo per attaccarli. li loro era un movimento legale, se il governo avesse tentato di disperderli si sarebbe presentato agli occhi di tutti come una indifendibile tirannia. Così giovedì 27 i ragazzi escono gridando "viva il partito". Se gli agenti intervenissero lo farebbero senza un motivo difendibile, per un puro atto di despotismo, e queste co,se si pagano nella Repubblica popolare cinese. Qualche leader più giovane in quelle ore deve aver pensato al proprio futuro e deve essersi dissociato da Deng. Deve aver pensato che forse alcuni agenti avrebbero detto: chi è veramente per il partito, il mio comandante o questi studenti? I vecchi rivoluzionari sanno che queste domande sono quelle che precedono una rivoluzione. Dal pomeriggio del 27 il governo cambia tono. Rovescia le richieste degli studenti. Voi siete per quello che vuole il partito? Il partito siamo noi, i vecchi leader, quindi voi siete per noi vecchi leader. Identificano cioè partito e leadership, il che è passaggio gratuito specialmente dopo i ripetuti sali e scendi di leader, davanti alla facciata immutabile del partito. È un imbroglio? Certo, ma non più di quello fatto dagli studenti che hanno rispolverato vecchi slogan e vecchi leader del partito, come Hu Yaobang, per proporre dei contenuti nuovi. Democrazia e libertà sono concetti astratti e il gioco funziona perché governo e studenti li riempiono di contenuti diversi. Entrambe le parti sanno il vero senso dell'altro, bisogna però riuscire a presentare le proprie tesi nel modo più convincente, e quindi forzare il proprio senso sull'altro. In questo gioco dalle regole tacite chi usa la forza per primo si presenta come fuorilegge e autorizza l'altro alla risposta di forza, con il consenso popolare. Il governo il 27 apri le mattina, quando ha cambiato atteggiamento sugli studenti, non poteva limitarsi a un'inversione di marcia, altrimenti avrebbe tolto ogni motivo

difendibile per future proteste, ma avrebbe anche legittimato il movimento. Così aggiungeva: adesso il paese ha bisogno di pace, ci sono dei sobillatori che usano questo movimento per i loro scopi, tornate in classe. Queste parole sono ancora l'eco di Deng, sfidate e vinte il 27. Era una tesi indifendibile. Chi sono i sobillatori? E soprattutto gli studenti usando la logica marxista ortodossa, cioè quella del partito, dicono di essere solo un fenomeno. La vera causa dei disordini è la corruzione, quella va combattuta, non loro. Il governo però aveva altre armi: il monopolio dei mass media, cioè una 1isposta autentica e argomentata, invece gira con una certa abilità intorno alle richieste che si erano andate precisando: libertà, democrazia e colloqui diretti con i "veri" rappresentanti degli studenti. Il fronte stesso dei mass media si sbriciola, molti singoli giornalisti vogliono scrivere quello che pensano, che è uguale a quello che pensano gli studenti. Anche qui c'è una contraddizione con il passato. I mass media negli ultimi dieci anni sono passati già due volte per del le improvvise chiusure censorie, nell' 81 e nell' 86, chiudere una terza volta è troppo in così breve tempo. Ciò non convince nessuno, prova solo che il governo non sa quello che fa. Il 4 Zhao riconosce la bontà degli studenti, ed elimina le storie dei sobillatori. Ammorbidisce la pericolosità della richiesta dei colloqui diretti dicendo che ci devono essere colloqui anche con altre parti sociali, operai, intellettuali. Ma la minaccia rimane. I colloqui devono essere tali. Ed è importante vedere se Qin Benli, il direttore licenziato della "Rivista di economia mondiale" di Shanghai (appoggiava gli studenti), torna o meno. La sua riassunzione sarebbe la prova che Zhao fa sul serio, e sarebbe guerra aperta con molti dirigenti del comitato centrale. Lì Zhao può presentarsi come l'uomo che ha riportato gli studenti a scuola. Nello stesso modo potrebbe però essere accusato di essere quello che non ha portato la calma ma ha ceduto ottenendo poco in cambio. Certo la forza e le minacce non hanno giovato, anzi, ma qualcuno può sempre obiettare che non è necessario cedere tanto. Certo bisogna vedere nella realtà se le parole di Zhao riportano effettivamente a scuola gli studenti. Ma questo è ancora un argomento disputabile perché dopo le enunciazioni teoriche la gestione pratica della faccenda passa per gli uomini che da subito volevano usare la forza. Riappare l'intreccio strettissimo ma sempre distinto tra quello che si fa e come lo si legge e lo si dice. Le azioni sembrano avere un sapore, certo, ma poi bisogna aggiungerci sale, pepe, cucinarle per farne una pietanza. Così in Cina il vertice con Gorbaciov è importante come vetrina per vedere se e quanto i vertici si preparano a cambiare, e se gli studenti si muoveranno ancora. Allora un breve salto in avanti. Durante la visita di Gorbaciov saltano tutti i freni: i mass media riportano quello che vogliono, cioè si schierano sfacciatamente con gli studenti e i dirigenti medi del partito pure. Perché in quel momento i massimi leaderpènsano ai sovietici e non hanno tempo di pensare anche agli studenti, e senza ordini tutti si schierano come gli pare. Questo dimostra che i massimi dirigenti comandano solo se stanno sempre lì con la frusta, appena si distraggono un attimo nessuno obbedisce più: pessimo segno per uno stato, la struttura del potere è personalistica. Dopo Gorbaciov è chiaro che tutto va risolto con la forza: un colpo di stato di Zhao contro i conservatori o viceversa. Poi in ogni caso farla finita con gli studenti, pochi o tanti che certamente staranno ancora in piazza. Se Zhao vince, molti giovani staranno con lui, ma non tutti, e per liberarsi dei più ostinati dovrà usare la polizia; sporcarsi di sangue appena al potere non è buona propaganda per il futuro, perché lui vorrebbe fare il leader buono. Se vincono gli altri, gli studenti in piazza saranno di più, la repressione dovrà essere più violenta, ma tant'è, i conservatori non hanno IL CONTESTO . problemi ad apparire cattivi. Ma ci deve essere una giustificazione. Per adesso gli studenti stanno organizzando dongluan, disordini, e competono con la polizia. Se viene mandato l'esercito "come sicurezza" e la gente reagisce violentemente, beh, allora vanno contro lo stato e questo diventa fangeming baoluan, ribellione controrivoluzionaria non armata, e l'esercito è fatto apposta per i controrivoluzionari, allora si può versare tutto il sangue che si vuole. Dopo la strage la macchina della propaganda dovrà rimettere in piedi una "ragionevole" versione dei fatti che convinca tutti. Ma allora sarà più facile perché senza gli studenti a fare controinformazione all'interno del paese nessuno potrà contestarla. 1 In Cina il governo, pur esercitando un controllo abbastanza diretto sul flusso di informazioni, non sfuggiva a queste regole. In fondo nella proposta di Zhao anche gli incontri con gli studenti dovevano essere una forma di dialogo con la società. In ogni caso il Pc doveva rimanere il centro del potere. In realtà in questa situazione il governo deve essere capace di dire cose convincenti, se è clamorosamente smentito perde autorità. Il governo cinese il 22 aprile diceva che gli studenti non dovevano stare a piazza Tiananmen, ma ci stavano, il 27 aprile non avrebbero dovuto sfilare pena fiumi di sangue, ma il 27 gli studenti sfilavano e non c'era nemmeno una scazzottata, il 15 maggio, durante la visita di Gorbaciov, gli studenti avrebbero dovuto smettere lo sciopero della fame e invece lo continuavano. In tutti questi episodi gli studenti si sono impossessati della comunicazione: quello che dicono risulta vero, quello che dice il governo è falso. Il governo 11

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