IL CONTESTO grado di tener testa soltanto le più demagogiche delle "vecchie facce", invero spudoratissime. -C'è un "sistema dei media" che si è configurato infine, nonostante le liti e zuffe interne tra statalini, berlusconiani, debenedettiani ecc., come un sistema unico. Abbiamo un'ottantina di • quotidiani, in Italia, che sono un solo quotidiano, una mezza dozzina di telegiornali che sono un solo telegiornale, varie trasmissioni di attualità politica che sono una sola trasmissione ... Il segno più vistoso di un regime, e che non ci siano chances per cambiamenti non superficiali, è probabilmente questo. [ discorsi sono contigui, intercambiabili come le firme; come i toni delle opinioni e le stesse opinioni, come la monotonia della predica intimidatoria che scorre limacciosa da una pagina ali' altra, da una testata all'altra. Pur nel gioco delle rivaJità e dei ricatti (anche osceno, ma qui ancora non micidiale) abbiamo un solo giornale e un solo telegiomaJe, con titoli diversi e uguale sostanza. Comandato o servito da uno stesso "giornalista-massa". C'è infine da parlare di noi. I sostenitori del "ritorno alla politica", tra i vicini e gli amici, si guardano di fatto dal "tornarci". C'è da constatare al contrario la miserabile presenza in coda al nuovo trasformismo di tanti della ex nuova sinistra, tutta una generazione che ha perduto pudore e aJibi tra gli anni del terrorismo, di cui ha subito o compiaciuto il ricatto, e quelli del socialismo craxiano. Molti di coloro che parlano del ritorno alla politica preferiscono oggi, nella loro vita, dedicarsi a un qualche aspetto del. sociale, a una qualche piccola lunga marcia. E nei vicini come nei lontani, c'è soprattutto da constatare I' assenza totale, marchiana, macroscopica, assoluta di un progetto, dell'idea di una possibile, concreta alterità. Non ci sono grandi politici in giro, da nessuna parte, che sembrino avere in testa qualcosa, o almeno qualcosa di più, di più chiaro orizzonte, di quello che uno qualsiasi di noi può avere in testa. Che è ben poco. Chi dice di averlo, poi, sa benissimo di mentire, e basta leggere i suoi proclami, basta studiare le sue pratiche. La malafede può essere ora maggiore e ora minore, ma di malafede si tratta. Ed è impossibile distinguere, in questo senso, tra Verdi e 6 Rete, Pds e Rifondazione, Alleanza e nuova Dc. Abbiamo invece in molti, io credo, un'idea dell'Italia un po' più precisa di quella che si poteva avere tre o quattro anni. Un po' di conoscenza migliore del Nord e del Sud e del Centro come essi realmente sono, fuori dalle fossilizzate letture degli anni Sessanta-Ottanta, dalle barzellette deritiane, dagli schemini manifestini, l'abbiamo, io credo, acquisita; molti studi, tra tanti inutili e chiassosi, hanno contribuito a farci un poco più "laici". Ma un piano, una visione, un progetto, una carta, una strategia nessuno sembra averla, e tantomeno sembra riuscire, in politica, a far tesoro delle conoscenze laicamente acquisibili. All'assenza di progetto supplisce, e si direbbe davvero che questo finisca per riguardare tutti coloro che fanno oggi politica, la demagogia. Il segno caratteristico di questa stagione della politica e della cultura è la demagogia. A tutto questo va aggiunto - ed è fondamentale-uno scenario internazionale tutt'altro che rasserenante. LaJugoslaviaè più vicina di quanto pensiamo, e si avvicina, in molti modi si avvicina. Come l'Albania. Come l'Islam degli integralisti. Come un Est allo sbando. Come un'Europa che ha dimostrato ancora una volta di quanta viltà possa essere capace e maestra, né più né meno che, in passato, all'approssimarsi di due guerre mondiali frutto del suo seno. E va aggiunta una politica italiana, europea, internazionale nei confronti dei Sud del mondo incerta e furba, che mette noi ora alla coda di un impero peraltro isterico e frastornato (l'ultimo rimasto alla fine del secolo) e ora ci porta a improvvisi e spesso incongrui contrasti, in assenza anche qui di analisi e di piano, di scelta precisa di una funzior:iee dunque di una politica. A tutto questo va aggiunta una congiuntura, anche effetto della crisi politica ma certamente non solo, che potrebbe ben presto provocare nel paese tensìoni forti, lotte corporative brutali. La disoccupazione giovanile (e però, "in famiglia") renderà presumibilmente vieppiù violento e amorale il nostro paese e la sua gioventù, e non mi pare ci sia chi se ne preoccupi. Le vittime predilette della nostra delinquenza quotidiana, allucinata, spietata, sono sempre di più donne e bambini, barboni ed extracomunitari e diversi (e naturaJmente la natura), cioè la parte più debole e indifesa del paese. (La nostra delinquenza è perlopiù razzista, sessista, fascista.) Di fronte a tutto questo, "tornare alla politica" è certamente un dovere, ed è giusto che ci sia chi lo affermi e lo predichi. Ma se ci si crede davvero, si dia aJlora seguito aJle parole e alle dichiarazioni e non ci si limiti aJlo studio e ali' opinione, nelle nostre nicchie protet.:' te. E chi nella politica non crede e ha tutto il diritto di non credere, dimostri di esistere in altro modo. Per esempio, affermando una minoranza che non si vergogni di essere tale, cercando di uscire dalla frammentazione e dall'isolamento secondo una logica di minoranza e di opposizione attiva, di estraneità attiva alla logica dominante. Smettendola di considerare le attività di minoranza come anticamere tattiche alla conquista della maggioranza (che in un sociale così baJordo risulta per forza moralmente, intimamente corrotta) o alla scalata di qualche potere. Affermando una cultura decisamente e orgogliosamente minoritaria, una presenza determinata e utile, fiduciosa nelle virtù dell'esempio e del contagio, e non pronta ad abbandonare se il contagio non ci sarà. Durante leferie sono usciti, il primo su "La Repubblica" del 28 lug/io, il secondo su "L'unità" del -7 agosto, due articoli "contingenti", che ci sono sembrati ben diversi da quelli che ci ammanniscono quotidianamente i quotidiani e settimanalmente i settimanali. Presumibilmente non tutti i nostri lettori- causa vacanze - li hanno letti. Li ripubblichiamo con l'autorizzazione dei loro autori, perché ci sembra importante farli conoscere, e che ne resti traccia. Il primo, di Cesare Garbo/i, riflette sui suicidi di Cagliari e Cardini e sulla nostra classe dirigente; il secondo, di Alfonso Berardinelli, è la risposta a un intervento del "Corriere" su un saggio di Berardinelli apparso nell'ultimo, bellissimo numero di "Diario". La morte in accappatoio Cesare Garbali Se si deve affrontare l'argomento sotto il profilo della disciplina letteraria, come suggerisce Enzo Biagi, pubblicando su "Panorama" le "poesie dal carcere" di Gabriele Cagliari, salta agli occhi che tra i due suicidi Enimont c'è un rapporto speculare che chiama in causa due opposte tradizioni stilistiche. "Dobbiamo tutti meditare", dice il Capo dello Stato con la sua larga e aguzza faccia che dà forza al buonsenso in mezzo a tanto bailamme e a tanti sciagurati, mentre la cricca dei politici si arrocca in Parlamento come gli uomini della Spectre nei film di 007, assediati nella centrale blindata in fondo al mare. Io sono un critico, e medito come posso. Che cosa mi dicono i miei poveri strumenti di letterato? Che il suicidio "termale" di Raul Gardini, quasi ai bordi del la vasca da bagno, può essere letto come un'espressione di stoicismo di marca romana, unito al "disprezzo della vita" di un eroe sportivo che vive il suo giorno di sole alla Hem'.ingway, al mare e al vento, il sorriso sempre splendente e quasi spudorato, i denti scintillanti tra le labbra tagli ate come una ferita, la bocca dal segno così perfetto e invitante da sembrare inverecondo.- Il trionfo della morte in accappatoio evoca sensazioni di un secolo fa. Il piacere del rischio, l'ebbrezza dell'emozione, i1gusto alcibiadeo di provocare lo stupore e l'invidia portano da noi il nome di D'Annunzio. Non abbiamo altro in casa nostra, che ci aiuti a connotare letterariamente il gusto panico della vita.L'ultimo gesto di Gardini s'iscrive dentro uno schema letterario di moderna classicità eroica da campione che taglia sempre per primo il
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