Linea d'ombra - anno XI - n. 85 - settembre 1993

INCONTRI/ McBAIN Il genere "detective privato" è completamente fictional. Nella vita vera un investigatore privato non è mai coinvolto in un delitto, mai. Se inciampa in un corpo morto scappa, e poi chiama la polizia. Parliamo di un'altra recente "famiglia" cinematografica. La famiglia di Cape Fear di Scorsese. Un gruppetto marcito dall 'interno, disgregato, che riesce a tenersi insieme solo quando interviene un nemico a minacciarlo dall'esterno e, in qualche modo, anche dall'interno. La possiamo prendere per una metafora di quello che sta succedendo a questo paese: la paranoia e insieme la necessità di un pericolo esterno, il bisogno dell'assedio per continuare a esistere come corpo unito, la sindrome cittadella fortificata? In America abbiamo avuto per generazioni la cultura della famiglia estesa. Accanto alla famiglia nucleare, nel medesimo rione, c'erano, magari a due isolati di distanza, nonni, sorelle, cugini, zii. Oggi la famiglia americana è dispersa. La gente va dove la porta il lavoro e i rapporti familiari ne soffrono. Ma prendiamo Cape Fear: nonostante l'assoluta maestria con cui Scorsese usa la cinepresa, ci troviamo davanti a un film vuoto, perché al posto di una famiglia solida Scorsese ha messo una famiglia fallata, né buona né tantomeno felice. Il risultato è che di questa famiglia e di quello che le può capitare non ce ne importa un bel niente. E alla fine del film, anche se il cosiddetto cattivo muore e la famiglia si salva, non siamo mica tanto sicuri che quello che le è successo la renderà migliore. Nel film originale (Ed McBain si riferisce alla versione di Cape Fear diretta da J.L. Thompson nel 1962, di cui il film di Scorsese è un remake dichiarato, NdC), la famiglia era la tua famiglia, la famiglia americana ideale, a cui ci si affezionava tanto da non sopportare l'idea che potesse non farcela a sopravvivere. Non credo comunque che Scorsese intendesse fare un discorso metaforico sull'America contemporanea. Credo che intendesse soltanto farci una paura del diavolo e direi che ce l'ha fatta. Potrei fare lo stesso discorso per Gli uccelli. Quando la gente chiedeva a Hitch o a me cosa avevamo in mente quando giravamo il film, quale ne fosse la filosofia, beh, tutto quello che ci veniva da rispondere era che stavamo cercando di spaventarla a morte. Parlami di Isola, la città semifictional dove hai ambientato le storie dell'87simo distretto. Quando ho cominciato la mia serie, intendevo ambientarla a New York, in modo decisamente realistico. Ma a poco a poco mi sono accorto che controllare tutti i dettagli, nomi, strade, colore degli edifici, eccetera, significava passare più tempo al telefono che seduto a scrivere i miei romanzi. Mi sono dunque inventato Isola. All'inizio era una brutta copia dell'isola reale, ma poi ha cominciato a vivere di vita propria e con il passare degli anni è cresciuta su se stessa, sedimentando una sua storia autonoma di fatti, situazioni, personaggi puramente immaginari. E il clima, le variazioni stagionali, gli elementi atmosferici, che sembrano essere così organici ai tuoi romanzi da poter essere presi per personaggi sui generis? È vero, tanto nei romanzi di Evan Hunter quanto nella serie dell'87simo distretto, il tempo gioca un ruolo molto importante. Credo dipenda dal fatto che per me le stagioni sono fondamenta! i. Amo il senso di cambiamento che comportano. Abbiamo vissuto a lungo in Florida e ti assicuro che laggiù mi mancava da morire quella differenza netta, brusca, tra estate e autunno, tra inverno e primavera. Personalmente torno in vita in autunno e sono fermamente convinto che chi vive in posti dove il passaggio delle stagioni non si nota sia deprivato di qualcosa di molto grosso. È per questo che hai deciso di vivere in campagna e nona New York? Quando abbiamo lasciato la Florida, ci siamo trasferiti a New York in un piccolo appartamento che abbiamo tuttora. Continuiamo a passarci parecchio tempo, pendolando traDarien eManhattan. Mia moglie è del Sud degli Stati Uniti, mentre io sono nato a New York. Deve essere per questo che io non sono eccitato dalla città tanto quanto lei. Sarebbe disposta a mollare questa casa e a trasferirsi stabilmente a New York in questo esatto secondo. Credo che non le importerebbe affatto neppure rinunciare allo spazio o all'aria aperta di cui disponiamo qui in Connecticut. Ogni volta che andiamo in città per lavoro o per vedere uno spettacolo, mi tocca portarla indietro a forza. Devo ammettere però che ogni volta che torno a New York sento anch'io la stessa meravigliosa canzone, come se le strade mi cantassero sotto i piedi e mi sentissi più fresco, più vivo. Come se tutti i miei succhi creativi, in città, si rimettessero a scorrere. Elinor Rigby UN'AMERICANA A PARIGI Ironia e umorismo al femminile nei racconti di Sarah Blumenfield: un ritratto dissacrante della Parigi degli anni Venti e dei suoi protagonisti Pagine 186, Lire 18.000 Baldini&Castaldi 73

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