Linea d'ombra - anno XI - n. 85 - settembre 1993

LA MEMORIA DEL SANGUE Note sulla letteratura indiana d'America Matteo Bellinelli Secondo lepiù accreditate teorie scientifiche, i cosiddetti "pellirosse", gli indiani d'America, sbarcarono sulle coste dell'Alaska, di quella che ora si chiama British Colombia e sulle coste dello stato di Washington (la cui capitale, Seattle, deve il proprio nome a un celebre Capo indiano di quelle terre) 15mila anni fa, provenienti-attraverso lo stretto di Bering - dall'Asia Settentrionale. Si diramarono poi nel grande continente americano e, 14 mila anni più tardi, furono "scoperti" da Cristoforo Colombo. Calcoli plausibili fanno supporre che nel 1492 i "nativi nordamericani" fossero 60-65 milioni. Cento anni dopo l'arrivo dei bianchi erano già ridotti a pochi milioni. Una strage; un genocidio continuato nei secoli. Ora gli indiani americani sono I milione e 900.000, suddivisi in oltre 200 tribù con lingue, abitudini, religioni, riti diversi; uniti però da un'unica visione del mondo, totalmente rispettosa della "madre terra". Di questi, solo 30.000 possono essere considerati purosangue e "tradizionalisti", ancora profondamente radicati nelle loro culture. Tra questi nativi purosangue, nessuno scrittore di talento (o perlomeno di fama). Non perché tra gli indiani americani gli scrittori e le scrittrici manchino, anzi; ma essi sono tutti, se non dei mezzo sangue, il frutto di secoli di violenze o, nella migliore delle ipotesi, di "fusioni" (come suggerisce l'idea, ormai fallimentare, del melting-pot) etniche e genetiche di varia natura. Quando si parla delle 200 riserve indiane, o dei ghetti urbani nei quali sono stati costretti a rinchiudersi i nativi (prima e dopo il famigerato relocation act, che ha smembrato famiglie e sradicato intere generazioni di indiani), dobbiamo tuttora pensare, senza illusioni né falsi pudori, a immagini riconducibili solo al terzo mondo; a una realtà nella quale 6 adulti su IO sono disoccupati, nella quale la mortalità infantile e l'analfabetismo sono elevatissimi. Nella quale si vive, in media, 20 anni in meno dei bianchi. Quanto alla definizione corretta del popolo indiano del Nord America, è utile segnalare che è in corso da tempo, negli Stati Uniti, un aspro dibattito sulla cosiddetta "politica! correctness", la correttezza politica; dibattito che invece di favorire la "fusione" sottolinea e rivendica l'autonomia e l'originalità delle etnie e delle culture minoritarie. Così i neri d'America ormai si chiamano solo AfricanAmericans, gli americani di origine orientale e latino-americana Asian Americans e Hispanics. E gli indiani, Native Americans; in subordine American lndians. Mai Redskins, pellirosse: i Redskins continuano ad essere, tra mille polemiche, solo i giocatori della squadra di football di Washington D.C... La letteratura dei nativi americani deve tutto (ispirazione, fonti, temi, forme, tecniche) alla tradizione orale, al racconto verbale. Per secoli la storia, i racconti, i miti sono stati tramandati, di generazione ingenerazione, solo attraverso la parola. Fondamentale era quindi il ruolo dello storyteller; di chi, uomo o donna, raccontava agli altri. Gli story-tellers esistono tuttora, e ogni tribù ha i suoi; si tratta, evidentemente, soprattutto di anziani che continuano a tramandare alle giovani generazioni racconti e storie ormai secolari, nella misura del possibile ancora nella lingua degli avi. E anche la letteratura indiana d'America contemporanea ha una finalità ultima inequivocabile; quella di ricordare. I canti, i racconti, le poesie erano un aspetto organico della vita quotidiana delle tribù, e non un fatto isolato, di e perun' élite. Erano cultura popolare, insomma; le storie sacre si consumavano solo nelle notti invernali, mentre i racconti "popolari" erano proprietà di un singolo, o di una famiglia. in genere la "poesia" indiana era fatta per essere cantata (o cantilenata): in essa, la sensibilità individuale era sempre messa al servizio della sensibilità comune e della sacralità del mondo indiano. Al centro di ogni racconto-poesia c'è sempre la filosofia di vita indiana, semplice ed assoluta, dettata da un valore unico e profondo; l'amore e il rispetto per la natura e per la terra, vissuto in una condizione di totale armonia e connessione tra tutti gli esseri viventi. Le canzoni indiane, osservò Mary Austin, "non sono vere canzoni, ma virtualità di canzoni; e sempre si deve sospettare in esse un significato occulto". I poeti Joy Harjo, Simon Ortiz e Lance Henson sono considerati dalla critica contemporanea gli eredi più qualificati di una "scuola" ormai secolare. La scrittura, cioè la ritrascrizione delle storie indiane, è una prassi relativamente recente, che data dalla seconda parte del secolo scorso. Oltre alle storie, ai canti, ai poemi indiani, composti nelle varie lingue per un pubblico esclusivamente tribale, furono ritrascritti alcuni dei più significativi discorsi tenuti dai grandi capi tribù dell'epoca. Discorsi fatti nella propria lingua alle autorità militari e politiche bianche, tradotti e ritrascritti più volte da interpreti indiani ed estensori bianchi. La letteratura dei nativi americani cominciò a manifestarsi per iscritto proprio attraverso l'eloquenza e l'arte oratoria di Capo Giuseppe (della tribù dei "Nasi forati"), di Tatanka Yotanka, detto Toro Seduto (capo dei Sioux), di Giacca Rossa (considerato il Seneca indiano) o di Piede Nero. I loro discorsi fanno ormai parte della leggenda indiana, testimonianza e in pari tempo testamento di un mondo che si pensava sepolto per sempre, e che scopriamo ogni giorno più vicino al nostro tempo e alle nostre follie. "Noi siamo due razze distinte con origini separate e separati destini. Per noi le ceneri dei nostri antenati sono sacre, e il luogo dove essi riposano è terra benedetta. Voi ve ne andate lontano dalle tombe dei vostri antenati e sembra che non ne proviate dispiacere. Ma perché dovrei piangere il destino precoce della mia gente? A tribù segue tribù, a nazione segue nazione, e il rimpianto è inutile ... Ma quando l'ultimo Pellerossa sarà diventato un mito fra i Bianchi ... quando i figli dei vostri figli si sentiranno soli, nei campi, nelle botteghe, sulle strade, o nel silenzio dei boschi senza sentieri, essi non saranno soli. Su tutta la terra non c'è luogo dedicato alla solitudine. Di notte, quando le strade delle vostre città sono silenziose e voi pensate che siano deserte, esse invece saranno affollate per il ritorno degli abitanti che un giorno le avevano riempite e che ancora amano questa bella terra. L'Uomo Bianco non sarà mai solo. Fate che egli sia giusto e che tratti amichevolmente con la mia gente, poiché i morti non sono senza potere. I morti, dico. Non c'è morte. Soltanto un cambiamento di mondi." Così si chiude un celebre discorso di Capo Seattle, un discorso abbastanza lungo e articolato, che in tempi recenti è stato adottato dai Verdi quale manifesto per la salvezza della terra, ispirandone le lotte in ogni angolo del mondo. La terra, dunque, entità sacra e insostituibile punto di riferimento naturale, culturale e spirituale, è una delle principali componenti della mistica e della filosofia dei nativi americani. Il problema, in questo e in altri casi, risiede nel fatto che non si sa bene chi, in realtà, abbia pronunciato le parole attribuite a Capo Seattle. Questo interrogativo accompagna la terza fase dello sviluppo della letteratura nativa americana: quella delle memorie, delle cosiddette autobiografie, delle biografie di personaggi indiani curate da estensori bianchi, dopo molteplici passaggi di traduzioni dalle lingue tribali all'inglese (che gli indiani hanno cominciato ad usare con una certa regolarità solo all'inizio del secolo). Una prima fioritura di biografie di indiani risale agli anni Trenta; ma la primissima (di Black Hawk) risale al 1834, e quella - celeberrima - di Charles Eastman, L'anima dell'indiano, è del 1911. Secondo rivelazioni recenti, però, parrebbe che l'ormai mitico discorso pre-ecologista di Capo Seattle in realtà sia stato messo a punto solo nel 1972 da Ted Perry, uno sceneggiatore di Hollywood, quale traccia per un film "ambientalista" intitolato Home, e 51

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