Linea d'ombra - anno XI - n. 85 - settembre 1993

UNA DONNA DI 400 ANNI Bharati Mukherjee traduzione di Paola Splendore Bharati Mukherjee. ora cittadina americana, è nata a Calcutta nel 1940 e vive attualmente a New York. Ha pubblicato tre romanzi e due raccolte di racconti, una delle quali è apparsa in italiano con il titolo Episodi isolati da Feltrinelli ( 1992) che pubblicherà anche il romanzo Jasmine. I titoli delle opere e altre notizie biografiche sono incluse nel saggio autobiografico che pubblichiamo. Sono nata tra gente che non era destinata a crescere parlando la lingua materna. Sono nata in una città che temeva il futuro e mi ha preparato all'emigrazione. Ho frequentato una scuola tenuta da suore irlandesi, che consideravano il territorio recintato della scuola a Calcutta un angolo d'Inghilte1Ta sempre verde e tropicale. Non ho mai visto il mio "paese" - un termine che corrisponde in bengali a desh, e fa pensare alla patria piuttosto che alla nazione cui si appartiene. È la patria ancestrale di mio padre che si trova ora in Bangladesh. Parlo tuttavia il suo dialetto bengali, e sento di "appartenere" anch'io a Faridpur, il minuscolo villaggio verdeoro in cui è nato mio padre. Appartengo per nascita a una religione che mi ha posto, in quanto bramina, in cima alla scala gerarchica, ma in quanto donna mi ha condannato a un ruolo di subordinazione. L'entità politica superiore cui per prima ho giurato fedeltà assoluta - l'India - non era neppure una nazione sovrana quando sono nata. L'oroscopo, che mi fu fatto quando avevo una sola settimana da un vicino di casa astrologo, predisse che sarei diventata scrittrice, avrei vinto dei premi e avrei attraversato "le acque nere" degli oceani per stabilirmi tra stranieri. Cresciuta in una cultura che ripone una grande fede negli oroscopi, non ho mai pensato di dubitarne. L'astrologo mi offriva un malinconico futuro; essere destinata a lasciare l'India era come trovar i bandita dalla fonte della vera cultura. Le suore a scuola, d'altro canto, insinuavano che l'India era ormai sopravvissuta alla sua gloria e che se volevamo diventare donne moderne e istruite e realizzare qualcosa nella vita, avremmo fatto bene a trasferirci in Occidente. Per tutta l'adolescenza sono stata sull'altalena della contraddizione. Bilayat, che significava la spaventosa ignota "terra straniera", rappresentava allo stesso tempo una benedizione e una perdita disperata. Sono arrivata negli Stati Uniti dopo molti luoghi di passaggio. Il fantasma mai visto di Faridpur e la troppo reale Manhattan si sono fusi in un unico "desh". Sono americana. Sono una scrittrice americana e seguo fa tradizione cercando di ampliarla. Questa è per me una dichiarazione della massima importanza: non sono una scrittrice indiana, né un'esiliata, né un'espatriata. Sono un'emigrante. Il mio investimento è nella realtà americana, non in quella indiana. Considero la ghettizzazione- sia quella di una bengalese in India che quella di un'indiana-americana in Nord America - come una tentazione cui resistere. Mi ci sono voluti dieci dolorosi anni-dai primi anni Settanta ai primi anni Ottanta - per soffocare la tirannia della nostalgia. Ma dovrò lottare perché il pubblico dei lettori e l'industria editoriale americana se ne rendano conto. (Come mostra la ricezione di film come Gandhi e Passaggio in India, Padiglioni lontani e I gioielli della corona, la nostalgia è una strada a doppio senso. Gli americani riescono a sentire nostalgia anche per un mondo che non hanno mai visto.) L'emigrante del terzo mondo, nato all'estero, dall'aspetto non europeo e educato in maniera esotica secondo religioni non occidentali e che parla una lingua non europea, può rivelarsi altrettanto americano di un qualsiasi passeggero di terza classe irlandese, italiano o del ghetto russo. Come ho scritto in altra sede (un articolo sulle opere di Studs Terkel e Al Santoli pubblicato su "The Nation"), non ci vorrà molto prima che appaiano un What Makes Choon-Li Run coreano [riferimento al romanzo di Budd Schulberg What Makes Sammy Run? ndt] e un Chiamalo sonno Hmong [riferimento al romanzo di Henry Roth]. In altre parole, il mio programma letterario comincia con l'ammissione che l'America mi ha trasformato, ma non finirà prima che io (e altre centinaia di migliaia come me) sia riuscita a mostrare in che modo ho trasformato l'America. Il programma è semplice da formulare, ma è in ultima analisi rivoluzionario. Rendere ciò che è consueto esotico, ciò che è esotico familiare. Mi sono dovuta creare un pubblico. Non posso basarmi su riferimenti troppo brevi alla mia comunità, alla mia religione, classe, regione, o vecchia scuola. Ho dovuto sensibilizzare gli editori oltre che i lettori nei confronti della ricchezza delle vite di cui scrivo. Il complimento che più mi commuove da parte dei lettori può sintetizzarsi in tre parole: Non avrei mai immaginato. Vale a dire: mi vedo continuamente intorno queste persone (indiani, filippini, coreani, cinesi) e non avrei mai immaginato che avessero una vita interiore. Non sapevo che avessero trame losche, che fossero degli imbroglioni, che soffrissero, che potessero sentirsi coinvolti, che amassero con passione. Quando persino le forme di lode sono così poco sofisticate, lo scrittore sa di avere a disposizione una riserva infinita di personaggi. Si potrebbe parlare di missione, per usare una buona parola coloniale. Ho ricevuto in dono una quantità enorme di materiale. Posso scegli ere se essere cekoviana o tolstoiana-adottare una prospettiva malinconica e filosofica sui cuori infranti o sulla caduta delle civiltà - oppure un rauco ed esuberante colono, Huck Finn e la Donna Guerriero, sulle pianure non reclamate della letteratura americana. Il mio materiale, ridotto ai dati di copertina, è la rapida e drammatica trasformazione degli Stati Uniti dall'inizio degli anni Settanta. All'interno di questo spazio delimitato spero tutta- ·via di tirar fuori delle sorprese. E tuttavia (sono un'autrice che usa troppo spesso "tuttavia") 49

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