LE TRACCE DELLA SCHIAVITÙ Incontro con Gloria Naylor a cura di Matteo Bellinelli Gloria Naylor, cinquantenne è nata a New York da una famjglia originaria del Mississippi. Si è affermata con il volume di racconti The Women of Brewster Piace (Vikjng Press 1982) cui hanno fatto seguito tre importanti romanzi, e quel Marna Day che le ha dato il successo e che dovrebbe presto diventare anche un film. Quello della Naylor, scrittrice di forte originalità che crede nell'incontro tra la cultura del femmjnismo e quella della comunità nera, è un nome di punta nel Black Movement dei nostri anni. Tra i primi anni Quaranta e lafine degli anni Sessanta più di cinque milioni di afro-americani lasciarono i campi e lefattorie del Sud degli Stati Uniti per dirigersi verso le grandi città industriali del Nord. Tra questi emigranti ci furono anche i suoi genitori, vero? Sono stata concepita a Robinsonville, nello Stato del Mississippi. I miei genitori giunsero a New York solo un mese prima della mia nascita, alla fine del 1949. Il motivo di quel lungo viaggio, benché mia madre fosse incinta, è molto semplice: mio padre stava mantenendo una promessa che le aveva fatto sposandola. Mia madre gli aveva fatto giurare che se avessero avuto dei figli, questi non sarebbero mai nati nel Mississippi. È a Harlem che sono finiti i miei. È qui che trovavano un tetto gran parte dei negri che lasciavano il Sud, attratti dal miraggio di New York. Non è che mia madre volesse a tutti i costi scappare dal Sud; no, il Nord l'attraeva perché sperava che i suoi figli potessero trovare le libertà che a lei erano state negate. Io penso di aver ereditato l'amore per i libri direttamente dai cromosomi di mia madre; da giovane era una lettrice insaziabile. La sua era una famiglia di braccianti; nonni, genitori, e nove figli. I libri erano un lusso non consentito dalle circostanze: impossibile comperarne. Inoltre, essendo nera, mia madre non poteva frequentare le biblioteche pubbliche; procurarsi la possibilità di qualche lettura le imponeva enormi sacrifici. Tutta la famiglia doveva lavorare, assieme, per cinque giorni; la domenica era riservata alla messa (non dimentichiamoci che stiamo parlando del profondo Sud, terra di battisti e metodisti). Ma il sabato ci si poteva permettere qualcosa; un bucato, una visita in città. Non mia madre: che di sabato si "affittava" a un altro padrone e lavorava nei campi, per racimolare qualche centesimo; arrivava alla bellezza di 50 cents al giorno. Alla fine del mese disponeva di due dollari, che "investiva" nel!' acquisto di libri per corrispondenza. Povera com'era, negra, persa nei campi del Mississippi (parliamo degli anni Trenta e Quaranta ...), riuscì ugualmente a soddisfare, almeno in parte, il proprio amore per la lettura. Pensava al Nord come a una terra che avrebbe offerto maggiori opportunità ai suoi figli. Una volta arrivati a New York, i miei genitori scoprirono che anche qui c'erano razzismo e segregazione, che però si manifestavano in modo più sottile. Ad esempio, furono costretti ad andare a abitare a Harlem; perché è lì che dovevano vivere i negri. Avevano qualche dollaro, ma non sarebbero mai bastati per gli altri "quartieri" della città, a noi inaccessibili. Più importante, per mia madre, fu la considerazione che almeno a scuola, a New York, ci potevamo andare; e che avevamo libero accesso alle biblioteche, che per lei erano la chiave per dar corpo ai propri sogni, e alla conquista del mondo. Lei è una scrittrice militante, peifettamente conscia di pregi e limiti della propria "negritudine". Da quando? Da quando la sua famiglia lasciò le miserie di Harlem per il più vivibile - e molto più razzista ... - quartiere bianco del Queens? Sì, fu allora che cominciai a capire che ero di versa, e che la mia diversità aveva un significato negativo. I miei genitori decisero di impegnarsi ancora di più nell'educazione mia e delle mie due sorelle (io sono la maggiore ...). Ci convinsero che non era necessario indirizzare lo sguardo sul mondo che ci circondava per cercare le tracce delle proprie qualità; bastava rivolgerlo ali' interno di noi stesse. Potevamo e dovevamo ambire a quanto di meglio c'è al mondo, senza porci nessun limite. Consigli saggi; perché, mio Dio, se ci fossimo rivolte al mondo esterno, ne avremmo ricevuto un solo messaggio: "Tu non sei niente!". In primo luogo, come donna, il nostro scopo avrebbe dovuto essere quello di cercare in fretta un uomo, il migliore possibile, e sposarlo al più presto. E la tua vita era bella tracciata; figli, casalinga, e chiuso. Inoltre, come donna di colore, avresti dovuto cercare di essere letteralmente invisibile. Per questo i miei genitori, per crescere giovani donne sane, privilegiarono la nostra educazione interiore. Ora, nella mia vita di adulta, mi è di grande conforto sapere chi sono. Negli anni Settanta i tempi ci suggerirono di andare all'Università; solo per differire di poco l'inevitabile: l'uomo, i figli, la casa. Così avremmo potuto avere tutto - ci dicevano-; e per "tutto" intendevano di nuovo un ideale "femminile" tradizionale. Per me fu molto importante poter ridefinire il limite dei miei orizzonti, capire perché desiderassi da sempre raggiungere certe libertà che, anche solo subliminalmente, mi erano sconsigliate. Io ho sempre voluto essere libera; ma non sapevo cosa significasse. In quegli anni libertà voleva dire che si sceglieva di rimanere nubili. Per me divenne a poco a poco chiaro che significava in realtà riuscire ad esprimere me stessa; libertà che ho definitivamente trovato attraverso la parola e la penna. Ecco a cosa mi è ervito il femminismo: a suggerirmi nuove definizioni di me stessa. Lei è cresciuta negli anni Sessanta, inAmerica. Sono gli anni del Black Power, dell'orgoglio negro, del celebre "black is beautiful "; delle rivendicazioni militanti - nello sport, in politica, in cultura, nella vita quotidiana. Il Black Power generò il Black Arts Movement, e anche il Black Cultura[ Nationalism, il nazionalismo culturale nero, "autonomista" e "afro-nazionalista "... Ho spesso sostenuto di essere una "nazionalista culturale". Con questo voglio dire che sono molto militante a proposito di chi e cosa sono, quale americana di colore, quale afro-americana. Penso che si debba celebrare con voracità quanto è tuo e ti appartiene. Comincia con qualcosa di semplice e profondo come il colore della nostra pelle, e si sviluppa attraverso il nostro passato, del tutto particolare; un passato modellato da una delle istituzioni americane più "curiose", la schiavitù. Dobbiamo cele47
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