Harriet e la narratrice sono amiche per la pelle. La loro è un'intensa amicizia adolescenziale fatta di desideri e segreti condivisi ma anche di invidia e dipendenza, come quelle che si stabiliscono tra vittima e carnefice. Nell'estate di cui si racconta, per ammazzare la noia e il tran-tran piccolo-borghese della vita in famiglia, le due ragazzine si mettono disperatamente "a caccia di esperienze". Siamo in Inghilterra, negli anni Cinquanta, in un'epoca che sa ancora di "austerity": un'epoca che appare lontanissima dalla nostra anche per I' assenza della cosiddetta cultura giovanile. Le vacanze estive di Harriet e della sua amica sono destinate a consumarsi senza eccitazioni, a cercare girini negli stagni della pineta o in passeggiate lungo il mare nella speranza di trovare rane morte o addirittura, se saranno fortunate, un feto ancora chiuso nel suo sacco. Perché di questa natura sono i desideri del le due tredicenni, che ricordano di essersi divertite già anni prima con dei prigionieri italiani che le chiamavano "angioletti sporcaccioni". Lo dice Harriet, proposto da Anaba i in una curata veste editoriale e nella traduzione di Massimo Bocchiola (pp. 192, L. 20.000; il romanzo però aveva già visto una traduzione presso Mondadori nel 1975, dal titolo Harriet disse ... , che sembra non aver lasciato traccia), èil primo romanzo di Beryl Bainbridge, prolifica romanziera inglese che ha spesso scelto per le sue trame il mondo turbato dell'adolescenza e il confronto con gli adulti. Nella sua vena migliore ha scritto farse macabre e grottesche come The Bottle-Factory Outing, ambientato tra i lavoratori immigrati di una fabbrica di Londra, Young Adoif intorno a un giovane Hitler in visita a una zia di Liverpool, The Dressmaker su due zitelle proletarie del tempo di guerra che nel film che ne venne tratto, La sarta, venuto anche in Italia, erano mirabilmente interpretate da Joan Plowright e Billie Whitelaw, e più recentemente An Awfully Big Adventure sulla messa in scena di Peter Pan in un teatro di provincia che finisce nel sangue. Lo dice Harriet è la cronaca della fine di un'estate, delle esperienze vissute e di quelle da consumare in fretta prima del ritorno a scuola. Le due ragazze hanno un quaderno segreto, scritto in terza persona, in cui a turno registrano le proprie impressioni sugli adulti, le fantasie e i desideri di un'adolescenza precoce. Ma è soprattutto Harriet a dettare all'altra ciò che bisogna scrivere sul diario. Gli eventi dell'estate ruotano tutti intorno alla scoperta del sesso.L'esperienza più sensazionale l'ha fatta Harriet: "È stata in Galles ... ha fatto una scoperta straordinaria ... Ha conosciuto un ragazzo di diciannove anni ... Ha un labbro gonfio. C'è un li,vido, di una strana tinta bruna, ed è gonfio all'interno, dove lui l'ha baciata. Le ha lasciato anche altri lividi sul viso". Nel frattempo, l'altraèdiventata "intima" del signor Biggs, detto lo Zar, un amjco dei genitori e vicino di casa, un uomo di mezza età, infelicemente sposato, grassoccio e con una facile propensione al pianto - quasi una parodia del personaggio di Humbert Humbert di Lolita. È con lui che le toccherà condividere il tanto atteso "momento magico" che si rivelerà quasi "una visita medica". Ma la trama ha in I CONFRONTI I serbo un finale truculento in cui le due amiche, sorprese in casa dello zar dal ritorno inatteso di sua moglie, decidono di ammazzarla a colpi di bastone, lasciando la responsabilità del tutto all'imbelle signor Biggs. In Lo dice Harriet le ragazzine molto si interrogano sull'innocenza e la perversione, e le due cose sembrano a tratti non avere confini, anzi quasi confondersi e diventare tutt'uno. È bravissima Beryl Bainbridge a esprimere le squallide atmosfere di periferia in un realismo dimesso che riesce tuttavia a dirci qualcosa anche sull'inconscio dei personaggi. Lo dice Harriet può leggersi in effetti come un gioco di sdoppiamenti e proiezioni, a cominciare dall' intreccio che drammatizza una situazione edipica, mentre la scatenata HaJTiet altro non è che la parte perversa o instintuale della più ingenua narratrice. Il signor Biggs, spesso descritto come figura paterna, è il doppio del padre come la signora Biggs lo è della madre, una figura patetica che ascolta alla radio i programmi dei più piccini, e i cui tristi accoppiamenti con il marito vengono spiati dalle ragazzine da una finestra del giardino. Non sappiamo, e poco importa, se l'uccisione della signora Biggs avvenga veramente alla fine del romanzo o se si sia trattato solo di una fantasia proibita. Beryl Bainbridge, come la Angela Carter delle prime opere (i racconti de La camera di sangue, Mondadori, o The Magie Toyshop) riesce a rendere la perdita dell'innocenza e i riti di passaggio dell'età con una miscela esplosiva di semplicità e perversione. Altri romanzi vengono alla mente, come Il giardino di cemento di Ian McEwan (Einaudi) e Il paese dell'acqua di Graham Swift (Garzanti), che esplorano gli stessi territori, storie di adolescenza e riti di crescita, all'interno di trame che hanno fatto parlare di revival del gotico per la narrativa inglese degli anni Settanta. Una narrativa che mette in scena le paure e i tabù sociali e lo fa adoperando in maniera smaliziata e autoironica la psicanalisi. Ma il ljnguaggio di Beryl Brunbridge è diverso da tutti gli altri, lontano dal realismo magico di Swift come dalle esuberanze fantastiche della Carter: è conciso, antisentimentale e con un'alta tenuta della tensione narrativa. Nessuno come lei riesce a comunicare tanta inquietudine per i giochi crudeli dell'adolescenza che rendono così trasparenti i desideri inconsci e gli orrori della psiche. È tutta da tradurre. Inuna terra antica. Ghoshin Egitto Letizia Pautasso . In un'intervista di qualche tempo fa, pubblicata in Un linguaggio universale (Linea d'ombra Edizioni, 1991), Amitav Ghosh dichiarava che il suo problema era "sempre stato quello di riuscire a scrivere in maniera non violenta anche quando parlava della violenza del mondo". In Le linee d'ombra, che rimane il suo romanzo più bello, un aspetto centrale era dato dal rilievo e dal modo con cui affrontava il problema della violenza nel suo paese, quell'India che nonostante tutti gli stereotipi occidentali "è forse il paese più violento della terra", anche se "la mitologia della violenza non appartiene affatto alla tradizione indiana, ma è stata importata dall'Occidenle". Il romanzo si chiude con un episodio terribile, l'uccisione da parte di una folla fanatica di musulmani, a Dacca, dell'indifeso Tridib, la figura centrale nella formazione del protagonista; ma il racconto vi giunge in modo quasi sommesso, senza urla né odio, come se la morte dell'innocente purificasse la barbarie dei suoi assassini. La contrapposizione tra indù e musulmani, che la divisione tra India e Palcistan ha sancito e non risolto (come di nuovo le cronache dei mesi recenti drammaticamente confermano), si affaccia di continuo nelle pagine del romanzo, per le strade di Dacca e Calcutta come nel ristorantino londinese di Clapham. E trova il suo .suggello nella morte di Tridib; ma Ghosh, intanto, è riuscito nel suo intento. Ci ha mostrato la cecità dell'odio e le ragioni delle vittime e dei carnefici. Ci ha fatto scorgere gli abissi del fanatismo e la consolazione della pietà. Ci ha comunicato, con gli occhi del presente, ancor pieni dell'orrore del passato, l' accettazione di ciò che è stato: non per rassegnazione impotente, ma per la convinzione che la salvezza non può stare che nella tolleranza. Questo tema ritorna con peso ancora maggiore nell'ultimo romanzo di Ghosh, Lo schiavo del manoscritto (trad. di Anna Nadotti, Einaudi 1993, pp. 326, L. 32.000). Così come ritorna, seppure in modo più contenuto, quel procedere affabulatorio che costituisce uno dei pregi maggiori di Le linee d'ombra, con il suo continuo andirivieni tra passato e presente, le costanti aperture da un episodio all'altro, la pirotecnica concatenazione di momenti e luoghi lontani attraverso rimandi, abbandoni e riprese del filo del racconto. In Lo Schiavo del ·manoscritto il naJTatore Ghosh si fa storico, al modo in cui storici come Carlo Ginzburg, o Nathalie Zemon Davis nel Ritorno diMartin Guerre, si sono fatti narratori. La vicenda che Ghosh ricostruisce è quella di Ben Yiju, mercante ebreo del dodicesimo secolo, "originario della Tunisia, recatosi in India dove era rimasto per diciassette anni, attraverso l'Egitto". Dopo aver accumulato grandi ricchezze nella città di Mangalore si era poi stabilito al Cairo, dove aveva trascorso gli ultimi anni della stia vita. E nella sinagoga Ben Ezra del Cairo per secoli erano stati conservati i suoi documenti. Ben Yiju aveva uno "schiavo", o meglio, un servitore e uomo di fiducia indiano, che viene citato nel la sua corrispondenza con un mercante di Aden, tradotta e pubblicata, nel 1973, in una raccolta curata da Solomon Goitein. Cinque anni dopo il giovane Ghosh, indiano di Calcutta, dottorando in antropologia a 17
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