Linea d'ombra - anno XI - n. 85 - settembre 1993

il sentimento assolutamente prevalente: I' angoscia di perdere quello che si è tanto faticosamente conquistato in termini di benessere e di allontanamento dal precedente modo di vita. I sommovimenti che anche in queste terre si stanno registrando sul piano degli equilibri politici sembrano allora non l'indice di una volontà di cambiamento, quanto l'espressione della sfiducia della gente verso le tradizionali forze politiche, non ritenute più in grado di garantire in modo credibile la conservazione dello status quo. E infatti uno dei valori centrali della ideologia con cui i nuovi movimenti politici stanno conquistando un sempre maggiore spazio elettorale è proprio quello della buona amministrazione, amministrazione appunto dell'esistente. Questa voglia di conservazione si può permettere di trovare per ora espressione in un misoneismo quasi bonario, in un più generale atteggiamento di refrattarietà verso qualsiasi tentativo di porre in discussione convinzioni e valori sui quali sembra esservi un solidissimo, anche se passivo consenso. È tuttavia legittimo chiedersi quale risposta un simile universo sociale sarebbe in grado di dare a sviluppi storici (oggi purtroppo quanto mai possibili) che lo ponessero veramente sotto pressione, che minacciassero seriamente stili e standard di vita dati per acquisiti. Il libro di Pivetta lascia purRaccontitaliani '93 Mario Barenghi Vincenzo Ceromi in uno foto di G. Giovannetti. La narrativa italiana ha proposto quest'anno, oltre ad alcuni romanzi •di grande valore, anche svariate raccolte di racconti di notevole interesse. Su Poche storie di Sandra Petrignani, edito da Theoria, è già intervenuta su queste pagine Maria Nadotti. Per parte mia non saprei aggiungere se non che la narrativa della Petrignani conferma la validità di espressioni come letteratura "al femminile", o simili: ferme restando ovviamente sia la partecipazione, anche in Italia acquisita da tempo, delle donne all'attività letteraria (le scrittrici anzi si direbbero ormai più numerose dei loro colleghi maschi), sia la non-sovrapponibilità con l'inCONFRONTI troppo poche speranze in proposito: è verosimile che questa società si sveglierebbe dal proprio candido torpore brutalmente reazionaria. Rispetto a queste prospettive non si può fare a meno di constatare con quale rapidità, nel giro di un paio di generazioni, si sia consumata qui come altrove la scomparsa di un mondo etico. Certo, ci è impossibile guardare alla civiltà precedente, qu~lla contadina, senza provare un senso di illibertà e oppressione per i valori e i q1odi di vita che la informavano. Si tratta tuttavia di un mondo che pur sempre è stato in grado di ispirare miti letterari o almeno qualche sentimento dì nostalgia in chi lo ha conosciuto. Pensiamo non solo al Pasolini "friulano", ma ad esempio a Hans Jonas che si deci e qualche tempo fa a rompere il voto di non varcare più l'Oceano (decisione che, com'è noto, gli fu fatale) proprio per ritornare in Friuli in omaggio al ricordo che questa terra gli aveva lasciato in gioventù, durante la guerra, per la solidarietà dimostrata dai suoi abitanti verso gli ebrei perseguitati dal nazismo (si veda la testimonianza in proposito nell'ultimo libro di Jonas, Il concetto di Dio dopo Auschwitz). E una sorta di alone positivo lasciato sul Friuli da questa scomparsa civiltà deve essere evidentemente all'origine di un certo genere letterario che si è creato su questa regione, sul suo passato e sul suo sieme delle donne che scrivono: una cifra "femminile" di scrittura può essere marcata e importante, tenue o trascurabile, ovvero del tutto inesistente. Nel caso della Petrignani essa consiste non solo nella tendenza a dar voce a punti di vista femminili sulle vicende narrate, ma soprattutto in un certo tipo di psicologismo: in una sorta di fiducia nella piena rappresentabilità della psicologia dei personaggi, immersi nella concretezza del l'esperienza quotidiana. E infatti i risultati più convincenti mi pare prendano corpo nel segno di un minimalismo non lezioso, venato di acredine, aperto (ma senza ostentazioni) all'insorgere del perturbante. Sempre a Theoria si deve il promettente esordio di Giulio Mozzi, Questo è il giardino (pp. 138, L. 24000), insignito del premio Mondello opera prima. Degli otto racconti che compongono il volume il più pesso citato è l'ultimo, F., ricostruzione degli ultimi momenti della vita di un magistrato che misure di sicurezza severe ai limiti della-umana sopportabilità non sottraggono a un tragico destino. Ispirato con ogni evidenza alla figura di Giovanni Falcone, il racconto unisce all'immagine di un'esistenza sacrificata al dovere, e immolata al servizio d'uno Stato forse irredimibile, i lineamenti di una vera, commovente storia d'amore. Un bel racconto, senza dubbio alcuno. Però, dovendo esprimere una preferenza, sceglierei un altro presente, e che viene tuttora più o meno maldestramente sfruttato (si pensi ai libri di Sgorlon o a un successo di questa stagione, La casa a nordest di Maldini). Il libro di Pivetta ci toglie qualsiasi illusione, non solo sul Friuli, ma, direi, sulla società del nostro paese in generale, sulla credibilità della sua ansia per il nuovo e della sua capacità di evolvere realmente anche in termini di libertà politica. In questo il libro mi ha ricordato un film di qualche anno fa, Notte italiana, di Carlo Mazzacurati. Si trattava di una specie di remake de Il grido di Antonioni, forse lontano da questo quanto a valori estetici, ma che dava un ritratto credibile per disincanto e realismo di una certa provincia italiana. Anche il libro di Pivetta non ha la pretesa di porsi su un piano "alto" dal punto di vista estetico. Forse per aspirare a questo sarebbero necessarie proprio quelle "illusioni" leopardiane o francofortesi di cui un Pasolini o un Antonioni pur si nutrivano e delle quali il libro implicitamente registra la consumazione. Rispetto all'intruglio un po' rivoltante a base di nuovismo e di apologia della ci vii society che ci propinano i media, la cronaca-finzione di Candido Nord ha tuttavia il merito di riportarci ad un principio di realtà che, per quanto difficile da sopportare, può essere anche un principio di liberazione. brano, il secondo della raccolta, intitolato L'apprendista. Si tratta della storia di un aspirante operaio che, dopo avere svolto per mesi con scrupolosa abilità le funzioni di fattorino, vede un ragazzo arrivato di bel nuovo passare direttamente alle macchine. Sorpreso e amareggiato, si rende tuttavia conto di non provare vera invidia, perché sa quanto il lavoro degli operai sia faticoso, ripetitivo, ingrato, e quindi pochissimo desiderabile. Certo, il suo zelo non è stato premiato; ma il vero insegnamento che emerge dalla vicenda è un altro. La sua sorte e quella del nuovo arrivato contengono in realtà due complementari privazioni, due mutilazioni simmetriche, egualmente connaturate ad un certo tipo di organizzazione del lavoro. "La velocità con la quale il ragazzo nuovo è diventato uno degli operai, indistinguibile dagli altri, fa impressione ali' apprendista e gli fa pensare che ci sia qualcosa di misterioso, di invisibile nel mestiere di operaio, che riduce la portata del cervello e mantiene la persona all'interno di un preciso e piccolo numero di azioni agibili e di pensieri pensabili; veramente l'apprendista si rende conto che al ragazzo nuovo è stato ottratto il periodo dell'apprendistato, cioè il periodo durante il quale si dovrebbe sollecitare la persona con e ercizi, prove e suggerimenti, per vedere che cosa ne viene fuori e che cosa se ne può fare; mentre a me, pensa l'apprendista, è stato sottratto quello che viene dopo l'apprendistato, la realizzazione di qualcuna di queste potenzialità. La mia condizione è quella di un apprendistato senza futuro, di una scuola senza esami né diplomi, di una contemplazione senza posseso" (p. 53). Il racconto è interessante per due motivi. Innanzi tutto perché parla non solo della dimensione materiale o economica della vita, ma, specificamente, di lavoro (cosa che la narrativa, 15

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