Linea d'ombra - anno XI - n. 85 - settembre 1993

Viaggio in provincia. Pivetta a Pordenone Giovanni Rizzani Foto di Giovanni Giovonnetti. La provincia del nostro paese, specie quella del Nord, è, si sa, una vittima predestinata di luoghi comuni, nel bene e nel male. Se la contendono infatti stereotipi di segno opposto che la vogliono, da una parte, idillica ansa del fiume, lontana dall'alienazione urbana e patria della "qualità della vita" (si pensi ai rapporti del Censis o alle classifiche tra le città del "Sole 24 Ore"), dal!' altra, teatro, non meno della capitale, di vizio e corruzione, con l'aggravante però dell'ipocrisia e del perbenismo (quante volte i media ci presentano, in relazione a singoli fatti di cronaca, ritratti di province padane alla Twin Peaks...). Un recente libro di Oreste Pivetta (Candido Nord. Agi e disagi di una provincia perbene, Feltrinelli 1993, pp. 128, L. 16.000) fa giustizia delle convenzioni per darci il ritratto di una provincia poco nota alle cronache nazionali, quella del Nord-est del nostro paese, ma che offre lo spunto per riflettere da una angolatura insolita sulla situazione italiana in generale e su questa confusa fase (di transizione?) che stiamo vivendo in un misto di angosce e aspettative. li libro è la descrizione tra realtà e finzione di un'inchiesta giornalistica. Più precisamente è il taccuino delle impressioni ricavate da un giornalista catapultato in una piccola città della provincia friulana (in cui si riconosce facilmente Pordenone) con l'incarico di scrivere un articolo su un misterioso delitto consumato nel luogo: l'assassinio di una giovane segretaria avvenuto nello studio di un noto professionista. Il riferimento è a un fatto realmente accaduto qualche 14 CONFRONTI tempo fa nella città friulana e balzato agli onori della cronaca nazionale per alcuni elementi particolarmente "piccanti" che avevano caratterizzato il delitto (la vittima era una ragazza "perbene" e apparentemente del tutto normale, sul conto della quale le indagini avevano però messo in luce una serie di elementi inquietanti: il legame con una setta religiosa, subito definita "satanica", l'insospettabile rete di relazioni con personaggi di alto bordo del luogo ecc.). Nel ricostruire il delitto, Pivetta ci fa entrare nelle case della famiglia e degli amici della vittima come in quella dei possibili complici del!' assassinio, nel le stanze del potere politico e economico come nei bar e nelle discoteche del luogo. Abbiamo modo di conoscere come la pensa questa gente, quali siano i desideri e le angosce diffuse, il modo di considerare "fattacci" come il delitto in questione e la vita quotidiana in generale. Il libro ci dà così, con maggiore concretezza di qualsiasi "piazza" televisiva, un'immagine convincente di un Nord "visto da vicino", che non può non interessarci: non è forse da qui che è iniziato da qualche tempo a spirare un vento che sembra foriero di grandi novità per noi tutti? Meglio allora farsi un'idea più precisa sui misteriosi recessi dai quali questo vento spira. C'è da chiedersi in primo luogo sedai ritratto al plurale tentato da Pivetta esca l'implicita descrizione di qualcosa che assomigli ad una visione del mondo condivisa, ad un ethos in qualche modo collettivo. L'autore si guarda bene dal rispondere a questa domanda con pedanti analisi sociologiche come dal dare giudizi, ma ci fa tuttavia intuire molte cose. Questa parte del "profondo Nord" è quella che forse con maggiore accelerazione rispetto ad ogni altra ha vissuto il passaggio da una economia agraria ad una industriale. La grande trasformazione non sembra però avere prodotto una nuova visione del mondo, un nuovo universo etico. Non che questa gente non creda a nulla. La costellazione di valori generalmente accolta è anzi abbastanza b~n determinata. Il fatto è che non sembra trattarsi di valori "nuovi", ma, per così dire, dei "vecchi" valori agrari che, perduta ogni radice in un determinato assetto sociale, si presentano oggi, in luogo di virtù, come "vizi assurdi", incomprensibili coazioni a ripetere. Pivetta ci mostra ad esempio le case di questi friulani, trasformate in lustri e intoccabili santuari del benessere raggiunto, mentre la vita quotidiana si svolge negli scantinati o nel retro delle attrezzatissime cucine; descrive l'ossessione per il lavoro o il gusto per l'accumulazione fine a se stessa. Si ha insomma l'impressione di trovarci di fronte non ad una "nuova civiltà", ma ai resti di un precedente modo di vita che, sciolti dai loro legami con un connettivo si deformano e ipertrofizzano svuotandosi al contempo di giustificazione, di senso ... Di qui, accanto agli agi, i disagi di questa provincia perbene. Comprensibile quindi come I' Unbehagen friulano si manifesti nella ricerca da parte di questa gente di sostitutivi ai legami sociali del passato. Ne è un segnale la grande fortuna che da queste parti conoscono le sette religiose di varia ispirazione, fenomeno che non ha nulla di satanico, ma che rivela piuttosto una grande povertà, un bisogno inappagato di solidarietà e di comunità. Ma il disagio per questa civiltà dai contorni ancora piuttosto incerti si manifesta anche in forme assai più drammatiche: nel tasso di alcolismo più alto d'Italia, nella percentuale di suicidi addirittura più alta d'Europa, nella diffusione della malattia mentale (particolarmente impressionante la scena descritta dal libro e anch'essa riferita ad un fatto realmente accaduto, dello squilibrato omicida rifugiatosi in un campo di granoturco, da qui stanato a colpi di mietitrebbia e quindi abbattuto dalla polizia). Se dal "privato" ci volgiamo alla vita pubblica, lo scenario non diviene meno desolato. Anche da queste parti la corruzione è dilagante: il potere nei grandi come nei piccoli centri è in mano a camarillas locali di cui fanno parte l'assessore, lo stimato professionista, il pretore ecc. La differenza tra queste piccole "cupole" e quelle del Centro-sud è che qui esse funzionano meglio: gli affari sono spartiti quasi sempre in modo tale da non scontentare nessuno degli appartenenti al circolo buono. Questo anche grazie alla grande disponibilità di risorse pubbliche distribuite dalla Regione a statuto speciale che ha permesso la creazione di una fitta rete di clientele e sottoclientele: il terremoto del 1976 non ha fatto altro che incrementare le opportunità in questo campo. Tra i faccendieri friulani prevale inoltre, come nota quasi divertito Pivetta, una sorta di apollineo medèn àgan: affari e mazzette sì, ma senza esagerare, senza dare troppo scandalo. Anche per via di questo giudizioso self-restraint, il sistema tutto sommato funziona e un delitto come quello descritto dal libro è un fatto assolutamente eccezionale. Drammi privati e pubblica corruzione non impediscono a questa società di essere in definitiva solidamente soddisfatta di se stessa. Prevale anzi da queste parti una sorta di orgoglio nazionalistico che si potrebbe definire di tipo "texano": in una terra ridotta ad una totale tabula rasa dal processo di omologazione, la gente è egualmente convinta di vivere nel migliore dei luoghi possibili, o quasi. Di qui la ricerca di identità sostitutive e di improbabili genii taci. Ecco ad esempio le stesse amministrazioni comunali cbe hanno distrutto, con il consenso della stragrande maggioranza della popolazione, ogni identitàdell' ambiente friulano (deturpando centri storici, consentendo l'avvelenamento di acquee fiumi ecc.), prodursi nell'impeccabile restauro di qualche edicola trecentesca o pubblicare patinati opuscoli sui siti di nidificazione di uccelli da tempo scomparsi o sui lemmi di un dialetto che ormai nessuno parla più. Al fondo di questo strano connubio tra orgoglio "nazionalistico" e consenso per la distruzione di ogni reale identità c'è, come nota Pivetta, non l'apertura verso il "nuovo", ma la grande paura di dover tornare indietro. È questo

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