solidarietà tra famiglie: i tratti di una società di villaggio si perpetuano in una grande città con due milioni di abitanti, quale è Tashkent. Il makhallya possiede anche una struttura formale di potere che consiste in un comitato, i cui membri vengono nominati con elezioni, ovviamente previo accordo tra le famiglie che contano. Questo makhalinskij komitet serve, da una parte, da struttura di servizio rispetto al quartiere nell'organizzazione delle cerimonie, nella gestione della chajkhona, nella costruzione e cura delle moschee e in altre funzioni di questo tipo; dall'altra, svolge una funzione di mediazione o fiancheggiamento rispetto alle istituzioni dello stato. Fino a due anni fa, queste istituzioni erano il soviet locale e la sezione del partito comunista; ora, nel post-comunismo, esistono istituzioni analoghe ma con nomi diversi. Il partito è diventato "popolardemocratico" e gli uomini, segretario incluso, sono quelli di prima. Il makhallya era e continua ad essere il punto di riferimento fondamentale per i politici che, anche quando hanno raggiunto le più alte sfere del potere, continuano ad avere un ruolo attivo nelle famiglie e quindi nei quartieri da cui provengono. Un tempo Mosca, per avere un interlocutore autorevole nella repubblica, favoriva la prevalenza di un clan concedendogli il ruolo di principale mediatore dei flussi di denaro provenienti dal centro. Il sistema sovietico, dove i posti di responsabilità erano ricoperti per còoptazione e dove dominavano i signori della nomenklatura con i loro clienti, aveva infatti creato reti di 0 potere rispettose delle regole della società locale. Sono le regole che si incontrano ad ogni passo in questa società fatta di uomini, in cui le persone autorevoli sono tali per la loro capacità di aprire opportunità, in cui i debiti vengono rispettati e in cui l'onore è ben più importante della ricchezza. L'ordine esistente rimanda ad un sistema di valori che si tramanda nella famiglia, dove i figli rispettano i genitori e il padre comanda. Tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, questa unione di sovietic·o e di tradizionale aveva permesso a un segretario del partito comunista, Sharaf Rashidov, e al suo clan di fare da padroni nella repubblica. Soltanto dopo la morte di Rashidov, Mosca "scoprì" che il segretario uzbeco aveva truffato sistematicamente lo stato centrale e che era a capo di una vera e propria mafia. Fu un grandissimo scandalo (per gli ipocriti che fingevano di non sapere nulla) e un momento importante di quello scontro politico che, a Mosca, portò ad abbandonare il breznevismo. Seguirono anni difficili di inchieste ed epurazioni ordinate da Mosca; quando finì anche il gorba_cevismo, l'Uzbekistan si trovò ad essere una repubblica indipendente. Il passaggio ali' autonomia, che implicava la perdita dell'appoggio di Mosca ai governanti locali, provocò in altre repubbliche del!' Asia centrale l'avvio di una fase di scontri tra clan che si esprimevano anche attraverso la formazione di partiti politici diversi. In Uzbekistan il clan al potere, quello che si era insediato negli anni di Gorbachev, si è imposto su ogni potenziale rivale e ha instaurato una dittatura militarizzata, presentandola come unica via per evitare una guerra tra fazioni come quella in corso in Tadzhikistan. A capo della repubblica resta Islam Karimov, già segretario del partito comunista e formalmente primo dei sudditi di Mosca, ma ora leader dell'indipendenza nazionale. Apparentemente si tratta di un caso straordinario di trasformismo, ma la IL CONTESTO realtà è più complessa perché i dirigenti politici uzbechi da tempo erano qualcosa di diverso da sudditi. La vicenda di Rashidov, a cui abbiamo accennato, è emblematica: era un segretario corrotto se visto da Mosca, ma per l'élite politica uzbeca era un capo che difendeva con ogni mezzo gli interessi dei "suoi" e che gestiva il potere redistribuendo ricchezza ai danni dei russi. Facendo da mediatori tra i clan locali e Mosca, i leaders comunisti uzbechi giocavano in effetti un ruolo ambiguo: avevano esponenti nel comitato centrale a Mosca, ma mantenevano anche i loro legami personali di solidarietà in Uzbekistan; condivano i propri discorsi di citazioni di Lenin e del segretario generale in carica, ma facevano circoncidere i propri figli e rispettavano i riti della tradizione. Da Rashidov a Karimov, grazie ai comunisti locali, gli uzbechi avevano conquistato un ruolo preminente nell'amministrazione della repubblica contendendo spazi alla componente russa della popolazione. In tutte le cariche della nomenklatura gli uzbechi avevano ottenuto, già prima dell'indipendenza, una presenza maggioritaria, e questo anche nei settori economici tradizionalmente russi come le fabbriche, dove gli operai e i tecnici erano ancora russi, ma i dirigenti erano ormai in prevalenza uzbechi. Mosca continuava formalmente ad impartire ordini e gli uzbechi continuavano formalmente ad eseguirli. La creazione di uno strato di mediatori locali più o meno ampio è un fatto proprio di ogni colonialismo. Quello sovietico aveva attribuito un'importanza grandissima all'assimilazione culturale, mirando a russificare le popolazioni locali e ad emarginare le culture nazionali. Il caso di Tashkent è un esempio dei risultati contraddittori di questa politica: gli uzbechi non si sono fatti russi, ma hanno imparato il russo, se ne sono serviti per accedere a cariche di responsabilità e si sono dimostrati cattivi sudditi. In città la concentrazione di scuole e di uffici amministrativi, il contatto quotidiano con la popolazione russa (un terzo degli abitanti) e la consistente presenza di minoranze che ricorrono al russo come lingua comune, ha portato ad una tale diffusione della lingua sovietica per eccellenza, che è conosciuta da otto persone su dieci ed è considerata come lingua madre da quasi la metà degli abitanti. La situazione totalmente differente è riscontrabile nei villaggi di campagna, dove i contatti interetnici sono molto meno frequenti e non richiedono obbligatoriamente di passare attraverso il russo. Nel le campagne il russo è necessario soltanto a chi ha frequenti rapporti di lavoro con la città, ossia ai responsabili amministrativi, ai direttori delle aziende collettive, ai tecnici di buona specializzazione e in parte a chi commercia. Se consideriamo il contrasto tra le persone istruite di città che sanno obbligatoriamente il russo e i contadini che lo ignorano comprendiamo come la politica di assimilazione voluta da Mosca abbinasse istruzione, russificazione e modernità e ne facesse aspetti centrali della formazione ai valori sovietici. Diventata autonoma da Mosca, l'élite politica uzbeca non può che tentare di capovolgere questo paradigma e puntare sul nazionalismo come via per la ricerca di una nuova legittimazione, ma vuole anche fare in modo che il nazionalismo resti sotto controllo, ossia non assuma una radicalità tale da risultare minaccioso per gli ex mediatori con Mosca. La difficile situazione economica contribuisce intanto a creare tensioni sociali: · molte produzioni rivolte al mercato russo sono in crisi, la 11
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