Linea d'ombra - anno XI - n. 85 - settembre 1993

infatti, giustamente, che nessuno sia più in grado, con tutta la buona volontà, di rispondere. Inoltre, credo che domande del genere vengano evitate anche perché metterebbero molto in imbarazzo anzitutto chi si crede e si dichiara di sinistra. Se il discorso sulla presenza e sulla consistenza di una cultura di sinistra venisse aperto, nascerebbero, infatti, molte contrapposizioni, la controversia si mostrerebbe assai più impegnativa di quanto comunemente si creda. Alcuni aut-aut, alcune scelte tra una forma di pensiero e un'altra, fra un comportamento sociale e un altro si rivelerebbero inevitabili, e questo, per chi vuole tenersi buono un elettorato.fluttuante, generico, in gran parte qualunquistico e amante delle proprie abitudini, potrebbe risultare assai pericoloso. La grande Classe Media alla quale tutte le formazioni politiche devono ormai attingere largamente, ha una fisionomia culturale modellata non dalle ideologie, dalle cosiddette "visioni del mondo" di qualche tempo fa, ma dalle comunicazioni di massa. E nella cultura dei mass-media è difficile se non impossibile distinguere "destra" e "sinistra", scegliere fra cose che hanno un certo valore e cose che non valgono nulla. La critica dei massmedia, l'idea stessa che esista qualche cosa come una "ideologia dominante" che tende a nascondere e a confondere pur di mantenere salda la fiducia di massa nei confronti di questo sistema sociale, tutto ciò è stato messo prudentemente da parte. La sinistra politica non vuole più rischiare di avere delle idee e dei valori di riferimento. La sinistra politica ha creduto per parecchio tempo di poter fare a meno di una cultura di sinistra: per mostrarsi intelligente e liberarsi dalla vergogna del proprio provincialismo, ha aperto la bocca e ha ingoiato qualunque merce di massa o di élite che avesse un'apparenza di modernità e di sofisticatezza. Così la vergogna delle ideologie è diventata vergogna delle idee, fastidio e paura per qualunque discussione culturale di ampio respiro che implicasse la revisione critica dei modelli e degli stili culturali della modernità. Uno dei guai maggiori, credo, dell'attuale momento di conflitto in Italia è proprio qui: il conflitto non viene mai formulato in termini culturali. Non produce idee nuove, né nuovi comportamenti sociali. Il che dimostra quanto il tritatutto dell'industria culturale e della Politica abbiano fatto teITabruciata distruggendo i presupposti minimi per una qualunque discussione e polemica. La degradazione, l'instupidimento delle polemiche in Italia, che cercano di insaporire e pepare cibi insipidi e andati a male, è il risultato di questa indifferenza alle idee e di questa mancanza di idee. Credere che una politica e un'iniziativa sociale "di sinistra" possano nascere e svilupparsi nell'immediato futuro in Italia senza fare distinzioni fra un'idea e un'altra, fra un linguaggio e un altro, è però un'illusione da. sonnambuli, nella quale solo degli incalliti politici di professione possono cadere. Dove non c'è il senso delle forti polemiche e controversie culturali, ciò che è in pericolo è proprio la democrazia. Non in quanto insieme di istituzioni e di regole formali, ma come sensibilità e comportamento diffusi. Oggi che si crede di poter esportare e trapiantare nei più diversi paesi del mondo il modello democrati'co, bisogna anzitutto chiedersi a quali condizioni, su quale tessuto culturale e sociale un simile progetto è realizzabile. Non va dimenticato che i paesi che hanno inventato la democrazia e si sono battuti per realizzarla e difenderla nel corso di una lunga storia non sono molti: anzitutto gli inglesi, gli americani, i francesi. Ma altrove? Nella stessa Europa parecchi fra i paesi culturalmente più influenti hanno inventato il fascismo, il nazismo, Io stalinismo, il franchismo. È davvero solida in Europa una cultura della democrazia? E (se ci interessa) in che consiste? Rashidov street. Viaggio a Tashkent Marco Buttino IL CONTESTO Marco Buttino (Torino 1947) insegna Storia dell'Europa orientale e si occupa in particolare della storia dei russi e delle relazioni interetniche nell'ex Unione Sovietica. Ha soggiornato più volte in Asia centrale. Ultimamente ha curato la pubblicazione di In a Collapsing Empire, per gli Annali della Fondazione Feltrinelli. Un amico arabo sosteneva, non so se a ragione, che la parola italiana mafia derivi da mafe che nella sua lingua significa non c'è. Eravamo a tavola e mi spiegava che mafe era affermare che quel bicchiere, che avevo davanti agli occhi, non ci fosse. Nel suo discorso mafe indicava dunque la possibilità di negare l'evidente. E voleva parlarmi di una cultura in cui il vero e il falso sono possibilità che non si escludono obbligatoriamente e in cui i rapporti interpersonali modellano la realtà. Ho ripensato a questo discorso quando ho telefonato a miei conoscenti di Tashkent per organizzare un viaggio in alcune città dell'Asia centrale e per sapere se era stato aperto al pubblico un archivio molto riservato, in cui volevo lavorare. Ad ogni mia domanda, la risposta immancabilmente era "vieni e vedremo". Nulla era garantito ed era facile intuire che non avrei potuto ottenere nulla se non all'interno di rapporti che implicassero favori e debiti di riconoscenza. Andai a Tashkent. E mi fu detto che avrei avuto risposte precise alle domande, ma non subito, forse domani. Cominciai a rimpiangere l'odiato archivio del partito comunista di Mosca, dove avevo lavorato nei mesi precedenti. Là c'erano abbondanti materiali (anche se moltissimi restavano nelle cantine) e facevano fotocopie. Erano carte pregiate, dicevano, e quindi si doveva dare loro qualcosa di analogo: ben due dollari per foglio. A Tashkent i dollari non avevano quello straordinario potere. I miei ospiti, comprendendo la mia ansia, mi spiegavano che chi ha fretta non ottiene nulla.Nell'attesa (ma non credo sia giusto chiamarla attesa) ero invitato a varie cerimonie, dove si mangiava e beveva in abbondanza. È noto che la popolazione locale di Tashkent è islamica, ma è improbabile che chi legge abbia un'idea concreta della quantità mostruosa di vodka con cui questa religione antialcoolica è costretta a convivere in questa città. Della vodka avevo una viva memoria dai viaggi precedenti, e di nuovo non potevo che accettarla per non offendere chi mi invitava. Seguitemi, stiamo muovendoci sul filo di due grandi tradizioni, quella russa e quella islamica. A Tashkent si beve tutte le volte che si è in compagnia 'ed è praticamente impossibile stare soli. La mia condizione di straniero ed ospite mi portava a una socialità particolarmente intensa, ma non tale da eguagliare quella dei miei conoscenti locali, che parevano continuamente affaccendati in attività conviviali. Sto parlando ovviamente soltanto degli uomini. I loro frequenti incontri hanno però poco in comune con quanto noi intendiamo per "tempo libero", sono parte di un darsi da fare seguendo diverse attività in un gioco di mediazione che non ha sosta. È una continua contrattazione che ha regole di comportamento rigide, 9

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