Linea d'ombra - anno XI - n. 85 - settembre 1993

SETTEMBRE1993 - NUMERO85 LIRE9.000 ' mensile di storie, immagini, discussioni e spettacolo Ì' r. / .... r ,.~' .~ ,Ì' -;<L 'i- ,. \.._ ,, I 'r'· - - Y/ ( ,"(,, . \ ~ ........... / . /' '~· - - r /' /\ - SPED.IN ABB.POSTALEGR. 111· 70%· VIAGAFFURIO4 · 20124 MllANO

Gruppo redazionale: Alfonso Berardinelli, Gianfranco Bettin, Grazia Cherchi, Marcello Flores, Goffredo Fofi (direttore), Piergiorgio Giacchè, Gad Lerner, Luigi Manconi, Santina Mobiglia, Lia Sacerdote (direzione editoriale), Marino Sinibaldi. Collaboratori: Damiano D. Abeni, Adelina Aletti, Chiara Allegra, Enrico Alleva, Livia Apa, Guido Armellini, Giancarlo Ascari, Fabrizio Bagatti, Laura Balbo, Mario Barenghi, Alessandro Baricco, Matteo Bellinelli, Stefano Benni, Andrea Berrini, Giorgio Bert, Paolo Bertinetti, Francesco Binni, Lanfranco Binni, Luigi Bobbio, Norberto Bobbio, Marilla Boffito, Giacomo Barella, Franco Brioschi, Marisa Bulgheroni, Silvia Calamandrei, Isabella Camera d'Afflitto, Gianni Canova, Marisa Caramella, Rocco Carbone, Caterina Carpinato, Bruno Cartosio, Cesare Cases, Alberto Cavaglion, Roberto Cazzola, Francesco Ciafaloni, Luca Clerici, Pino Corrias, Vincenzo Consolo, Vincenzo Cottinelli, Alberto Cristofori, Mario Cuminetti, Peppo Delconte, Roberto Delera, Stefano De Matteis, Piera Detassis, Vittorio Dini, Carlo Donolo, Riccardo Duranti, Edoardo Esposito, Saverio Esposito, Bruno Falcetto, Giorgio Ferrari, Maria Ferretti, Ernesto Franco, Guido Franzinetti, Giancarlo Gaeta, Alberto Gallas, Nicola Gallerano, Fabio Gambaro, Roberto Gatti, Filippo Gentiloni, Gabriella Giannachi, Giovanni Giovannetti, Paolo Giovannetti, Giovanni Giudici, Bianca Guidetti Serra, Giovanni Jervis, Roberto Koch, Filippo La Porta, Stefano Levi della Torre, Mimmo Lombezzi, Marcello Lorrai, Maria Maderna, Maria Teresa Mandalari, Danilo Manera, Bruno Mari, Edoarda Masi, Roberta Mazzanti, Roberto Menin, Paolo Mereghetti, Diego Mormorio, Maria Nadotti, Antonello Negri, Grazia Neri, Marco Nifantani, Luisa Orelli, Maria Teresa Orsi, Pia Pera, Silvio Perrella, Cesare Pianciola, Guido Pigni, Giovanni Pillonca, Bruno Pischedda, Oreste Pivetta, Pietro Polito, Giuliano Pontara, Giuseppe Pontremoli, Sandro Portelli, Dario Puccini, Fabrizia Ramondino, Michele Ranchetti, Marco Restelli, Marco Revelli, Alessandra Riccio, Fabio Rodriguez Amaya, Paolo Rosa, Roberto Rossi, Gian Enrico Rusconi, Nanni Salio, Paolo Scarnecchia, Domenico Scarpa, Maria Schiavo, Franco Serra, Francesco Sisci, Joaqufn Sokolowicz, Piero Spila, Paola Splendore, Antonella Tarpino, Fabio Terragni, Alessandro Triulzi, Gianni Turchetta, Federico Varese, Bruno Ventavoli, Emanuele Vinassa de Regny, Tullio Vinay, Itala Vivan, Gianni Volpi. Progetto grafico: Andrea Rauch/Graphiti Ricerche redazionali: Natalia Delconte Pubblicità: Miriam Corradi Esteri: Pinuccia Ferrari Produzione: Emanuela Re Amministrazione: Patrizia Brogi Hanno contribuito alla preparazione di questo numero: Giovanna Busacca, Marco Capietti, Barbara Galla, Lieselotte Longato, Marco Antonio Sannella, Barbara Veduci, Radio e Televisione della Svizzera Italiana, Il Leuto libreria dello spettacolo di Roma, le agenzie fotografiche Contrasto, Effigie e Grazia Neri. LINEA D'OMBRA anno XI settembre] 993 numero 85 ILCONTESTO ________________________ .... 5 6 8 9 Goffredo Fofi Cesare Garbo/i Alfonso Berardinelli Marco Buttino CONFRONTI 18 Patrick Mayoux Nebbie d'autunno La morte in accappatoio Senza idee, senza sinistra Rashidov Street. Viaggio al Taschkent Georges Nave!, operaio e scrittore con una corrispondenza del '36 tra Nave/ e Groethuysen e un'intervista a Nave/ Giovanni Rizzani su Candido Nord di Oreste Pivetta (a p. 14), Mario Barenghi su Mozzi, Cerami e laPetrignani (a p. 15), Paola Splendore su Beryl Bainbridge (a p. 16) LetiziaPautasso su Amitav Ghosh (a p. 17). PERLESTRADEDEGLl__;;U;....;;...Sc;;;...;; •.c-.A_. _______ _ Poesia 26 58 Robert Lowell Weldon Kees Storie 30 49 58 62 Jim Harrison Bharati Mukherjee Weldon Kees Max Appie Incontri 36 Joyce Caro/ Oates 39 Alice Walker 47 54 68 Gloria Naylor Navarro Scott Momaday Ed McBain IENZA Pietà per il pianeta a cura di Damiano D. Abeni Aspetti di Robinson a cura di Francesco Binni Passeggiate notturne con una nota di Marisa Caramella Una donna di 400 anni La cerimonia Amore e verdura Gotico americano a cura di Maria Nadotti Womanist a cura di Matteo Belline/li Le tracce della schiavitù a cura di Matteo Belline/li Il ragazzo trasformato in orso a cura di Matteo Belline/li . ( O. BIBLIOTECA h1 ~ GINOBIANCO ;F con una Nota sulla letteratura degli indiani Usa 87° Distretto e dintorni a cura di Maria Nadotti Editore: Linea d'ombra Edizioni srl - Via Gaffurio 4 74 20124 Milano Tel.02/6691132. Fax: 6691299 Partha Dasgupta Alimentazione, sottosviluppo e politiche ridistributive Distrib. edicole Messaggerie Periodici SpA aderente A.D.N. - Via Famagosta 75 - Milano Tel. 02/8467545-8464950 Distrib. librerie PDE - Viale Manfredo Fanti 91, 50137 Firenze-Te!. 055/587242 Stampa Litouric sas - Via Rossini 30 Trezzano SIN - Tel. 02/48403085 LINEA D'OMBRA Iscritta al tribunale di Milano in data 18.5.87 al n. 393. Direttore responsabile: Goffredo Fofi Sped. Abb. Post. Gruppo III/70% Numero 85 - Lire 9.000 La copertina di questo numero è di Guido Scarabottolo (Arcoquattro). Abbonamento annuale: ITALIA L. 85.000, ESTERO L. 100.000a mezzo assegno bancario o c/c postale n. 54140207 intestato a Linea d'ombra. Linea d'ombra è stampata su carta ecologica Freelife Vellum white - Fedrigoni I manoscritti non vengono restituiti. Si pubblicano poesie solo su richiesta. Dei testi di cui non siamo in grado di rintracciare gli aventi diritto, ci dichiariamo pronti a ottemperare agli obblighi relativi.

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FINCHÉ SISCORGE INNANZI ANOIUNA Perquesto tichiedeiabbonarti. Perché, · ,

:\J \ IZI, \ I I\ \ Héctor Ag"ilar Camin Morire a Veracruz T raduzionc di Bianca Lazz.aro pp. 290, L. 28.000 J. M. Coetzee Deserto Traduzione di Paola Splendore pp. 160, L. 24.000 AnitaDesai Fuoco sulla montagna Traduzione di Marina Prcmoli pp. 160, L. 26 .000 i~IIIZ\lNII Goffredo Fofi Strana gente 1960. Un diario tra Sud e Nord pp. 148, L. 16.000 Claus Offe Il tunnel L'Europa dell'Est dopo il comunismo pp. 224, L. 16.000 N ,\RR.\ l'I\ ,\ Didier Daeninckx Off Limits T r.aduzionc di Fabio Gambaro pp. 176, L. 28.000 A. Becchi e M. T"ruani Proibito? Il mercato mondiale della droga pp. 2)0, L. 18.000 Bobbio, Bosetti, Dahrendorf, Glotz, Gorz, L"kes, R!)rty, Sartori, Veca, Walzer, Zincone, Sinistra punto zero pp. 168, L. 18.000 Angelo Bolaffi Il sogno tedesco La nuova Germania e la coscienza europea pp. 158, L. 16.000 !~KM• Piero Beuilacqua Breve storia dell'Italia meridionale dall'Ottocento a oggi pp. 176, L. 25.000 Salvatore L"po Storia della mafia dalle origini ai giorni nostri pp. 250, L. 28.000 Paolo Viola Il crollo dell'antico regime nella ~~~~~i ddi!i~~~ihi~ionc pp. 220, L. 32.000 Ma"rice Agulhon Il salotto, il circolo e il caffè I luoghi della aociabilità nella Francia borghcac A cura di Maria Malatesta pp. 146, L. 24,000 Ilvo Diamanti La Lega Gcograf~ storia e 10Ciologia di un nuovo ,oggetto politico pp. 128, L. 28.000 FrancescoAbbate La scultura napoletana del Cinquecento pp. 484, tavole 220, L. 95.000 FlorenceDupont Omero e Dallas Narrazione e convivialità dal canto epico alla aoap-opcra pp. 116, L. 28.000 EwaKuryluk Veronica Storie e simboli della c:vcra immagine• di Criato pp. 206, L. 42.000 i!! Carlo Cattaneo Le più belle pagine scelte da Gaetano Salvemini P09tfazionc di Luciano Cafagna pp. 250, L. 34.000 MaxWeber Storia-economica. Introduzione di Carlo Trigilia Traduzione di Sandro Barbera pp. 464, L. 60.000 Ernest Renan Che cos'è una nazione? lntroduzionc di Silvio Lanaro Traduzione di Gregorio Dc Paola pp. 180, L. 35.000 !iihhh•I «Meridiana,. «Parolechiave,. «Politica ed economia,. i!-~-- ambita e difficile. Il mondo storico del giornalismo italiano d'oggi. Emrys]ones Metropoli Le più grandi citta del mondo pp. 208, L. 34.000 Shmuel. N. Eisenstadt Civiltà ebraica L'esperienza storica degli Ebrei in una pr01pcttiva comparativa Tre appassionanti racconti d'azione sullo sfondo di una periferia metropolitarla scarna, crudele e poetica. Babilonia e Tokio, Costantinopoli e New York. Le ragioni, gli spazi, i modi di vita degli universi metropolitani. pp. )50, tavole 40, L. 70.000 Un popolo, una nazione, una religione, un'etnia? L'esperienza ebraica come storia di una civiltà. B.ertrand Visage Bambini Traduzione di Ma~ Baiocchi pp. 144, L. 28.000 Un topo in una scuola materna di Roma. La logica spiazzante dei bambini. La freschezza delle loro parole. Il rovesciamento delle prospettive. «Un miracolo di grazia e di equilibrio» («Le Monde»). }\;JlR\l\Jll Alberto Caracciolo I sindaci di Roma pp. 100, L. 15.000 Come è stata governata la «capitale»? E come la si potrebbe governare in futuro? Quale destino la attende, nel più generale sommovi~ mento italiano? . Augusto Placanica Storia dell'inquietudine Metafore del destino dall'OdiHca alla guerra del Golfo pp. 250, L. 45.000 Odissea, catastrofe, apocalisse; la storia di tre parole. Lo specchio del nostro collettivo turbamento. Fernande Olivier Picasso e i suoi amici pp. )50, tavole 20, L. )2.000 li colore di un'epoca leggendaria della cultura francese nella testimonianza preziosa e unica della compagna di Picasso. Alberto Papuzzi Manuale del e;iornalista Tecniche e regole~ un mestiere pp. 220, L. 32.000 I problemi, i codici, i doveri di una professione Bm1 l(Hl e,\ Leopoldo Franchetti Condizioni politiche e amministrative della Sicilia Introduzione di Paolo Pczzino pp. 250, L. 38.000 Alle origini della «questione meridionale». Un grande spaccato di indagine sociale. li primo grande libro sulla mafia. Galileo Galilei Lettere copernicane A cura di Giorgio Stabile pp. 256, L. 40.000 I testi e i contesti di una straordinaria controversia scientifica; il rapporto tra scienza e Scrittura, tra fede e ragione, tra linguaggio e verità.

Meglio poco che niente, meglio il movimento che la stasi, meglio nuove norme di rapporto tra i poteri che quelle passate, meglio facce nuove che vecchie. Questo si sente ripetere in giro da molti, ed è convincente, è giusto, è sensato. E tuttavia il momento che attraversiamo è pesante, incerto, confuso, preoccupante. Si ha spesso la sensazione che l'autunno (e poi l'inverno, e poi la primavera, e un'altra estate ...) e la "rivoluzione di centro" possano riservarci qualche amara sorpresa. Si ha la sensazione di poter venire assediati da una aggressiva e galoppante "nuova" corruzione armata di armi aggiornate ma figlia della vecchia e pronta a scendere a patti con essa, e che la Politica resti una cosa, come sempre, peggio che ambigua, retta più o meno dai meccanismi di sempre. Le regole verranno senza dubbio cambiate, anche se siamo ancora ben lungi dal vederle scritte, ma chi è che le cambia? E il nostro annoso problema, una classe dirigente perlopiù mascalzona, chi è che la cambia? E su che patto sociale convincente ci si assesterà? Stipulato tra chi, in nome di quali valori, di quale progetto collettivo? Ciò che più ci spaventa è per l'appunto questo: che la Società che dovrebbe esprimere questo "nuovo", nonché migliorare stia velocemente peggiorando, e stia incancrenendosi nei suoi vizi. Che si vada ampliando e non restringendo il varco, allargato da ultimo a dismisura dal decennio socialista, tra pratica e parola, tra comportamenti e ideologie, e insomma tra politica ed etica, e che ciò abbia finito con l'aprire la strada a ogni tipo di demagogia, congrue tutte al vastissimo e ultramaggioritario strato sociale che al Nord come al Centro e al Sud, con pratiche simili e immagini di sé diverse, chiede più potere per sé, senza sapere e voler definire questo sé in termini collettivi, pronto dunque a smembrarsi e contendere in sottogruppi, parti, clan, dialetti, campanili. Non si vede affatto - chi oserebbe smentirci?- un' ondata di nuovo senso della collettività, in giro; si vede un' infarinatura di moralismo nella quale si può sin d'ora verificare quasi sempre un tradizionalissimo opportunismo, quel tipo di lavacro ipocrita e rituale di cui così spesso la nostra cultura ha dato esempi in passato, reso però più spregiudicato da trasformazioni (queste sì, vere e profonde) recenti. Due soprattutNebbie d'autunno. Impressioni di un impolitico Goffredo Fofi to: il benessere, e le sue conseguenze nell'intimo di ciascuno; e la crisi o scomparsa di sistemi di valori che hanno operato in passato da super-io per le parti più consistenti della popolazione (un "sistema" del sacro e del trascendente; un'utopia di sinistra). La "presa di parola" collettiva, auspicata da noi per primi, trionfante in tutti gli strati della società dopo il '68, ha straripato. Tutti hanno avuto diritti da rivendicare e continuano ad averne oggi-singoli, egoistici, incuranti dell'insieme, sprezzanti i doveri verso l'insieme. Si ha l'impressione oggi che molti di coloro, spesso persone di valore e pulite, che giudicano confortante la presente situazione e fidano nel1' intelligenza delle masse, non si muovano e non vedano, non conoscano il paese e non abbiano idea di che pasta è fatta la sua gente- tra vecchie e nuove rivendicazioni, vecchi e nuovi egoismi, vecchia e nuova aggressività. Basterebbe peraltro la lettura attenta della cronaca, per un po' di giorni, per convincersi di una malattia che è del sociale quanto del politico, una malattia che temiamo possa essere inguaribile. Non possono darsi né riforme efficienti né rivoluzioni con materia umana del genere, si può al massimo ipotizzare un cammino di lunga durata per una minoranza salda nei suoi metodi e principi, chiara nellaaffermazionedi una diversità. Ma suquesto, tutto è da ridiscutere. Tante cose andrebbero ricordate, di questo momento, di questa buia estate, di questi mesi. Ma torniamo alla politica, e azzardiamo un elenco di impressioni "impolitiche", nell'ottica di uno che la politica continua a capir poco e che della politica dei politici continua a diffidare moltissimo: - Nel campo della politica più che in qualsiasi altro si ha l'impressione che si stia rapidamente ricostituendo una forma di continuità, nonostante ferite anche molto traumatiche. Scomparso il Psi, la Dc è alle corde (ma ha mille vite, perché mille facce ha il mondo cattolico, e perché l'Italia è un paese fondamentalmente cattolico: non più "credente", tutt'altro, ma culturalmente sempre e irrimediabilmente "cattolico"), e il loro "pubblico" è confluito altrove, a riciclarsi nei nuovi raggruppamenti. Il trasformismo è d'obbligo, la quantità di noti e ignoti che per esempio vanno alleandosi alla Lega ne è una lampante dimostrazione. L'Italia resta il paese dei girella, dei voltagabbana, dei travicelli. Come da copione. - C'è contraddizione transitoria tra un potere parlamentare in mano al vecchio mentre il cosiddetto nuovo va all'assalto dei poteri locali. Ma non è un caso se il governo è diretto dai maestri del- !' economia e della finanza, in nome dell'economia e della finanza. - La grande industria continua a fare più o meno quel che le aggrada, con qualche morto e ferito, con qualche dirompente battaglia interna (alle "famiglie" in senso stretto e allargate) provocata dagli interventi dei giudici. In una qualsiasi ondata di trasformazione morale collettiva, il primo a cadere in disgrazia agli occhi delle masse avrebbe dovuto essere un Agnelli, mettiamo, e la Fiat avrebbe dovuto venir messa sotto accusa, per esempio, per "crimini di pace" (produzione di armi improprie e proprie, inquinamento ecc.). Nessuno ci pensa, a cominciare dai Verdi, in ben altre faccende affacendati. - Il "sistema della mafia" - dell'occulto economico, gestito con metodi illegali e con metodi criminali - è certamente in crisi grazie a giudici eroici, ma esso rimane molto ramificato e sta cercando di riciclarsi, come tutti i poteri, attraverso l' individuazione di nuove vie della gestione. Può crollare? C'è da dubitarne, poiché il suo crollo, come quello della Fiat, farebbe saltar via una parte consistentissima dell'italico benessere (I' aureo "sistema della droga", per esempio). Hanno davvero voglia, gli italiani, di perdere questa parte della loro ricchezza? La mediazione tra il legale e l'illegale sta probabilmente già riaggiustandosi, è probabilmente già in atto, a fini politici ed economici (potere e benessere). - L'occulto continua ad agiIL CONTESTO re, le bombe continuano a scoppiare, gli intrighi e i ricatti a frenare, controllare, disordinare. Che i giudici non riescano a venirne a capo è segno di quanto ramificato e vasto sia questo modo di "governare". Un esempio della loro impotenza mi pare, tra tanti, che un tomo come l'ex presidente (eletto a suo tempo con i voti di tutti!) Cossiga possa continuare a sbraitare e minacciare. - Il "locale" continua ad avere un gran peso e a conquistarne di nuovo, leghe aiutando. Più che scompaginare un assetto, esso potrebbe acuire i vecchi difetti invece di combatterli, per esempio l'allegra gestione di un potere enorme da parte di regioni e province, sinora alleate tranquillamente con il centro nella spartizione e nello sperpero in una rete di complici interessi sulla quale nessuno, mi pare, ha voluto ragionare o vuol farlo oggi, nella finzione di una nuova, comune, interessata e parodistica ideologia neofederalista. - Il Pds, miracolato elettoralmente rispetto al generale disastro dei vecchi partiti, crede per questo di valere più degli altri, e che il premio di voti che la provvidenza gli manda corrisponda a una fiducia di lunga scadenza. Si sbaglia di grosso e, presumibilmente, combinerà nuove sciocchezze, ottuse e opportunistiche nella sostanza, pompose e ipocrite nella forma, per mano di burocrati vecchi e scialbi, aggrappati a vecchissimi modelli, e di una dirigenza incapace. La nostra sfiducia persiste, e anzi cresce; attenuata soltant.o dall'orrore per i demagoghi e i nostalgici cui la diaspora dell'ex Pci ha dato spazio. - Grande è la difficoltà di trovare facce nuove e credibili da proporre alle elezioni nei grandi comuni (vedi Milano, ma vedi anche Roma e Napoli e Palermo ecc.). Quando con fatica se ne trovano a giocarci al tiro a bersaglio è per prima quella parte della sinistra che si vorrebbe più dura o più nuova. - Le "facce nuove" portano vistosamente in faccia il marchio del vecchio. E si capisce. Da dove vengono? I modi di formazione e le combinazioni genetiche non sono cambiati. Con l'aggravante, oggi, di autocandidature senza controlli di gruppo, con l'unica capacità richiesta di saper gridare meglio, di saper rappresentare meglio i "bisogni delle masse". Alla loro irruenza sembrano in 5

IL CONTESTO grado di tener testa soltanto le più demagogiche delle "vecchie facce", invero spudoratissime. -C'è un "sistema dei media" che si è configurato infine, nonostante le liti e zuffe interne tra statalini, berlusconiani, debenedettiani ecc., come un sistema unico. Abbiamo un'ottantina di • quotidiani, in Italia, che sono un solo quotidiano, una mezza dozzina di telegiornali che sono un solo telegiornale, varie trasmissioni di attualità politica che sono una sola trasmissione ... Il segno più vistoso di un regime, e che non ci siano chances per cambiamenti non superficiali, è probabilmente questo. [ discorsi sono contigui, intercambiabili come le firme; come i toni delle opinioni e le stesse opinioni, come la monotonia della predica intimidatoria che scorre limacciosa da una pagina ali' altra, da una testata all'altra. Pur nel gioco delle rivaJità e dei ricatti (anche osceno, ma qui ancora non micidiale) abbiamo un solo giornale e un solo telegiomaJe, con titoli diversi e uguale sostanza. Comandato o servito da uno stesso "giornalista-massa". C'è infine da parlare di noi. I sostenitori del "ritorno alla politica", tra i vicini e gli amici, si guardano di fatto dal "tornarci". C'è da constatare al contrario la miserabile presenza in coda al nuovo trasformismo di tanti della ex nuova sinistra, tutta una generazione che ha perduto pudore e aJibi tra gli anni del terrorismo, di cui ha subito o compiaciuto il ricatto, e quelli del socialismo craxiano. Molti di coloro che parlano del ritorno alla politica preferiscono oggi, nella loro vita, dedicarsi a un qualche aspetto del. sociale, a una qualche piccola lunga marcia. E nei vicini come nei lontani, c'è soprattutto da constatare I' assenza totale, marchiana, macroscopica, assoluta di un progetto, dell'idea di una possibile, concreta alterità. Non ci sono grandi politici in giro, da nessuna parte, che sembrino avere in testa qualcosa, o almeno qualcosa di più, di più chiaro orizzonte, di quello che uno qualsiasi di noi può avere in testa. Che è ben poco. Chi dice di averlo, poi, sa benissimo di mentire, e basta leggere i suoi proclami, basta studiare le sue pratiche. La malafede può essere ora maggiore e ora minore, ma di malafede si tratta. Ed è impossibile distinguere, in questo senso, tra Verdi e 6 Rete, Pds e Rifondazione, Alleanza e nuova Dc. Abbiamo invece in molti, io credo, un'idea dell'Italia un po' più precisa di quella che si poteva avere tre o quattro anni. Un po' di conoscenza migliore del Nord e del Sud e del Centro come essi realmente sono, fuori dalle fossilizzate letture degli anni Sessanta-Ottanta, dalle barzellette deritiane, dagli schemini manifestini, l'abbiamo, io credo, acquisita; molti studi, tra tanti inutili e chiassosi, hanno contribuito a farci un poco più "laici". Ma un piano, una visione, un progetto, una carta, una strategia nessuno sembra averla, e tantomeno sembra riuscire, in politica, a far tesoro delle conoscenze laicamente acquisibili. All'assenza di progetto supplisce, e si direbbe davvero che questo finisca per riguardare tutti coloro che fanno oggi politica, la demagogia. Il segno caratteristico di questa stagione della politica e della cultura è la demagogia. A tutto questo va aggiunto - ed è fondamentale-uno scenario internazionale tutt'altro che rasserenante. LaJugoslaviaè più vicina di quanto pensiamo, e si avvicina, in molti modi si avvicina. Come l'Albania. Come l'Islam degli integralisti. Come un Est allo sbando. Come un'Europa che ha dimostrato ancora una volta di quanta viltà possa essere capace e maestra, né più né meno che, in passato, all'approssimarsi di due guerre mondiali frutto del suo seno. E va aggiunta una politica italiana, europea, internazionale nei confronti dei Sud del mondo incerta e furba, che mette noi ora alla coda di un impero peraltro isterico e frastornato (l'ultimo rimasto alla fine del secolo) e ora ci porta a improvvisi e spesso incongrui contrasti, in assenza anche qui di analisi e di piano, di scelta precisa di una funzior:iee dunque di una politica. A tutto questo va aggiunta una congiuntura, anche effetto della crisi politica ma certamente non solo, che potrebbe ben presto provocare nel paese tensìoni forti, lotte corporative brutali. La disoccupazione giovanile (e però, "in famiglia") renderà presumibilmente vieppiù violento e amorale il nostro paese e la sua gioventù, e non mi pare ci sia chi se ne preoccupi. Le vittime predilette della nostra delinquenza quotidiana, allucinata, spietata, sono sempre di più donne e bambini, barboni ed extracomunitari e diversi (e naturaJmente la natura), cioè la parte più debole e indifesa del paese. (La nostra delinquenza è perlopiù razzista, sessista, fascista.) Di fronte a tutto questo, "tornare alla politica" è certamente un dovere, ed è giusto che ci sia chi lo affermi e lo predichi. Ma se ci si crede davvero, si dia aJlora seguito aJle parole e alle dichiarazioni e non ci si limiti aJlo studio e ali' opinione, nelle nostre nicchie protet.:' te. E chi nella politica non crede e ha tutto il diritto di non credere, dimostri di esistere in altro modo. Per esempio, affermando una minoranza che non si vergogni di essere tale, cercando di uscire dalla frammentazione e dall'isolamento secondo una logica di minoranza e di opposizione attiva, di estraneità attiva alla logica dominante. Smettendola di considerare le attività di minoranza come anticamere tattiche alla conquista della maggioranza (che in un sociale così baJordo risulta per forza moralmente, intimamente corrotta) o alla scalata di qualche potere. Affermando una cultura decisamente e orgogliosamente minoritaria, una presenza determinata e utile, fiduciosa nelle virtù dell'esempio e del contagio, e non pronta ad abbandonare se il contagio non ci sarà. Durante leferie sono usciti, il primo su "La Repubblica" del 28 lug/io, il secondo su "L'unità" del -7 agosto, due articoli "contingenti", che ci sono sembrati ben diversi da quelli che ci ammanniscono quotidianamente i quotidiani e settimanalmente i settimanali. Presumibilmente non tutti i nostri lettori- causa vacanze - li hanno letti. Li ripubblichiamo con l'autorizzazione dei loro autori, perché ci sembra importante farli conoscere, e che ne resti traccia. Il primo, di Cesare Garbo/i, riflette sui suicidi di Cagliari e Cardini e sulla nostra classe dirigente; il secondo, di Alfonso Berardinelli, è la risposta a un intervento del "Corriere" su un saggio di Berardinelli apparso nell'ultimo, bellissimo numero di "Diario". La morte in accappatoio Cesare Garbali Se si deve affrontare l'argomento sotto il profilo della disciplina letteraria, come suggerisce Enzo Biagi, pubblicando su "Panorama" le "poesie dal carcere" di Gabriele Cagliari, salta agli occhi che tra i due suicidi Enimont c'è un rapporto speculare che chiama in causa due opposte tradizioni stilistiche. "Dobbiamo tutti meditare", dice il Capo dello Stato con la sua larga e aguzza faccia che dà forza al buonsenso in mezzo a tanto bailamme e a tanti sciagurati, mentre la cricca dei politici si arrocca in Parlamento come gli uomini della Spectre nei film di 007, assediati nella centrale blindata in fondo al mare. Io sono un critico, e medito come posso. Che cosa mi dicono i miei poveri strumenti di letterato? Che il suicidio "termale" di Raul Gardini, quasi ai bordi del la vasca da bagno, può essere letto come un'espressione di stoicismo di marca romana, unito al "disprezzo della vita" di un eroe sportivo che vive il suo giorno di sole alla Hem'.ingway, al mare e al vento, il sorriso sempre splendente e quasi spudorato, i denti scintillanti tra le labbra tagli ate come una ferita, la bocca dal segno così perfetto e invitante da sembrare inverecondo.- Il trionfo della morte in accappatoio evoca sensazioni di un secolo fa. Il piacere del rischio, l'ebbrezza dell'emozione, i1gusto alcibiadeo di provocare lo stupore e l'invidia portano da noi il nome di D'Annunzio. Non abbiamo altro in casa nostra, che ci aiuti a connotare letterariamente il gusto panico della vita.L'ultimo gesto di Gardini s'iscrive dentro uno schema letterario di moderna classicità eroica da campione che taglia sempre per primo il

traguardo. La morte viene vissuta e voluta da protagonista, delegata a rappresentare e a esaltare, contro ogni logica, l'eterna giovinezza e la gioia di vincere. "Non mi vedrete mai nella polvere", è il messaggio della Ppk di Gardini. Di fronte all'etica della morte come sfida, come eroico rifiuto delle manette, si può capire che passi in secondo piano l'interesse verso gli oscuri trascorsi finanziari di questo bel capofamiglia "carismatico". Di fronte alle suggestioni che si raccolgono nel silenzio creato da un colpo di pistola, che cosa diventa il buco di miliardi dell'affare Enimont, di cui Gardini e Cagliari sono stati i principali negoziatori, e che i cittadini italiani, tanto per cambiare, sono chiamati a rifondere? La letterat~ra, l'arte, il teatro si esaltano nella sordità a tutto ciò che nella realtà ci sembra così importante. Lo spettacolo uccide la riflessione. Lo stesso avviene per il sacchetto di plastica di Cagliari, contrapposto speculare del principesco colpo di pistola di Gardini. Il salto di stile lascia interdetti: da D'Annunzio a De Marchi, a De Amicis. Il suicidio di San Vittore è un suicidio opaco, plumbeo; suicidio verista, senza nessuna redenzione. Ma quali antefatti, quali misteri non sa inghiottire lo squallore di quel sacchetto di plastica! "Dopo il gelo degli anni di piombo", si leggeva fino a poco fa sopra un muro, "godiamoci il calduccio di questi anni di merda". Bella sintesi del socialismo craxiano; ma intanto il calduccio si è fatto rovente. Il paese di Pulcinella è diventato più corrusco del teatro di Shakespeare, il rogo che ~i sta consumando sotto i nostri occhi increduli brucia senza che ne abbiano alcuna coscienza proprio coloro che ne sono stati i responsabili. Una catena di suicidi occupa quella coscienza. È il primo dei pensieri che nasce dalle poesie di Cagliari. Chi ha scritto quelle poesie? Esse dicono una sola cosa terribile; il loro autore non ha identità e non l'ha mai avuta. Non sa chi è. Le sue parole parlano di dolore e di rabbia, ma sono parole in prestito dal vocabolario, appiattite su ciò che dovrebbero esprimere e non esprimono. A regalare loro ad ogni costo qualcosa, si direbbe che l'esperienza di poeta di Cagliari fornisca una spiegazione ali' arte astratta e le dia un fondamento: queste poesie dal carcere potrebbero essere le poesie inespressive graffite da un manichino sui muri di un Sironi. II tono più personale, più sincero di Cagliari non è l'angoscia del carcere, espressa in un linguaggio di maniera, ma un che di banditesco, un istinto di vita refrattario a rapporti civili con il mondo. Non so se si possa attribuire questa radice eversiva alla condizione di carcerato.Una poesia è dedicata a un certo Tom che si è preso 25 anni di galera. La trascrivo nella sua integrità: "Tom dell'allegria, della vita!/fom dell'ottimismo, della fede!/ Oggi hanno scritto 25 anni/Sulla loro carta bollata, a tuo carico./ Un altro processo a pesi obliqui/ sulla bilancia folle della loro giustizia. Questa angoscia ci fa piangere/ Tom, non ti posso guardare./ Ore d'aria, cortili vuoti,/ muri altissimi di cemento e di ferro./ Ogni giorno, ogni ora accucciato/ nell'ultimo angolo, Tom, a cercare/ nuovo spazio per la speranza tua/ per non morire./ Voglio dimenticare San Vittore!/ Tom, non ti voglio vedere!/ Tom, non ti voglio sentire!/Ma non potrò più dimenticarti. Mai!". È una poesia datata "Aprile", e non sembra la poesia di uno che sceglierà il suicidio. Ignoro chi sia questo Tom: forse la vittima di un errore giudiziario? Ma possibile che un funzionario dello Stato al vertice di un'azienda come l'Eni pensasse seriamente che servire la giustizia è un compito "folle"? E c'è bisogno di San Vittore per provare pietà di un condannato? Quando era presidente dell 'Eni e di carta bollata ne vedeva tanta, Cagliari IL CONTESTO Facce nuove (foto di Carlo Cerchioli/Contrasto). aveva uguali sentimenti? Aveva queste stesse idee da suor Teresa di Calcutta? Sembra che l'autore di questa poesia sia nato ieri insieme all'innocenza del mondo. Si pensa a un'improvvisa crisi di annientamento, a una regressione. Ecco, dice un re famoso, "sono un re, viene Bolingbroke, e non sono più niente". Ecco, dice Cagliari, ero presidente dell 'Eni, viene Di Pietro e non sono più niente. Ma non è così. La sindrome è molto più spaventosa. Nella coscienza di questo uomo non c'è nessuna continuità. C'è un salto da una mancanza d'identità a un'altra. Quest'uomo non sa chi è. Si presume che quando ebbe la presidenza dell 'Eni, egli conoscesse e accettasse le regole di un gioco. Perché non le ha accettate anche dopo? Cagliari aveva buoni avvocati, aveva maneggiato e negoziato migliaia di miliardi. Ma il Cagliari che scrive in carcere le sue poesie sembra persino ignorare che i miliardi esistono. La sola spiegazione è che le regole erano appunto regole di un gioco, regole di una vita spensieratamente praticabile in tutto il suo privilegio. Il potere e il privilegio non erano neppure una realtà. Erano un bel letto, il rossetto, l'ombretto sotto i quali la faccia, una volta struccata, non solo diventa uno straccio, ma non esiste più. Nel suo famoso monologo, tra le buone ragioni che dovrebbero spingere a preferire la morte alla vita, Amleto enumera due mali che, di fronte ad altre più vistose calamità, passano spesso e ingiustamente inosservate. Chi - dice Amleto - se non fosse la paura di un aldilà sconosciuto, sopporterebbe "the law's delay" e "the insolence of office" - i ritardi della legge, e l'arroganza dei pubblici ufficiali? Si tratta, si sa, di due mali ben noti al cittadino italiano, il quale ne è seviziato quasi quotidianamente. Solo il Capo dello Stato, forse, solo i parlamentari, solo l'avvocato Agnelli, solo gli altissimi funzionari di Stato ignorano questa tortura. E quando l'ex presidente dell' Eni ne ha sentito il pungolo - un mese di attesa - e non ha retto, il governo, tempo 24 ore, ha cambiato la legge. Non sono argomenti che competono a un critico letterario, ma egli esclamerebbe volentieri: oh potere del privilegio anche post-mortem! Se la mia analisi ha qualche fondamento, ci si può chiedere: ci saranno ancora molti poeti? Quanti erano a dividere i poteri e i privilegi di Cagliari? E quanti saranno simili a lui? Non è una domanda oziosa. Molte cose si possono pensare e immaginare intorno al nostro parlamento e ai suoi attuali e irriducibili membri. C'è chi lo ha definito una tetra associazione; e chi lo dice una terza liceo dove si trova di tutto: la studentessa sussiegosa che si crede 7

IL CONTESTO granduchessa di tutte le Russie; il giovane appassionato di storia del Risorgimento; il buffone che fa casino sui banchi durante la ricreazione per difendere i diritti dei compagni e poi fa la spia al preside, ecc. ecc. Terribile sarebbe se nessuna di queste ipotesi fosse vera. Ce n'è infatti una peggiore. E se questi impagabili rappresentanti del nostro paese fossero gente sincera? Un po' ribalda ma non troppo? Gente che non sa niente di sé, che non ha nessuna idea di se stessa? Gente ottusa e stordita da una trentennale, manicomiale coabitazione col privilegio e con la politica? Che mestiere potrebbe fare tutta questa gente? Dove metterla? Come sostituirla? Non è un problema da poco essere rappresentati da chi non c'è. Senza idee, senza sinistra Alfonso Berardinelli Sull'ultimo numero di "Diario" ho cercato di esaminare criticamente, a volte in termini un po' "satirici", quattro "stili dell'estremismo" scegliendo, per esemplificare, altrettanti saggisti italiani di oggi: Franco Fortini, Roberto Calasso, Elémire Zolla e Mario Tronti. Sul "Corriere della sera" del primo agosto scorso, Giovanni Raboni si mostra assai poco informato e poco interessato sia ai fatti che alle idee quando sostiene che io, osando criticare lo stile di Fortini, avrei scritto una sorta di requiem per la Nuova Sinistra. In realtà, la Nuova Sinistra nata negli anni Sessanta è stata sconfitta e si è esaurita circa quindici anni fa, anche se Raboni non se ne è accorto. La critica alla cultura dell'estremismo e dell'avanguardia, sia in senso letterario-artistico che in senso politico, provai a formularla già alla fine degli anni Settanta, se devo proprio esibire il mio curriculum. Fra le diverse ragioni di quell'esaurimento e di quella sconfitta credo che ci fosse appunto una certa gestualità estremistica e ricattatoria: che portava al bisogno di "scavalcarsi a sinistra", mostrandosi sempre più duri e più conseguenziali di chiunque altro, fino alle più grottesche caricature. Le due più tipiche forme dell'estremismo ricattatorio si potrebbero riassumere in due frasi: 1)"se dici questo fai il gioco del nemico", e 2) "bisogna andare oltre, bisogna arrivare coerentemente fino in fondo". Purtroppo queste due formule non erano nate con la Nuova Sinistra, avevano una lunga storia ed erano ben radicate in tutta la tradizione rivoluzionaria precedente. Erano gli imperativi di una coerenza ideologica nello stesso tempo formalistica e settaria, che vedeva l'organizzazione politica come un nucleo di fedeli, che credono e non tradiscono. Se si trattasse solo di questo, comunque, non ci sarebbe da scoprire molto. Il fatto è che esiste in tutta la cultura del Novecento, anche al di fuori della tradizione comunista e di sinistra, un estremismo più generale e diffuso che ha toccato i più diversi ambiti culturali: dalle avanguardie artistiche alla filosofia. È un estremismo che potrebbe essere definito formalistico e gestuale, nel quale spesso il rigore teorico si trasforma in retorica, che mira anzitutto alla conseguenzialità, alla pura coerenza formale, alla terribilità delle formule e delle ipotesi estreme. È un estremismo sia estetico che politico, a volte attratto dai rigori della logica a formale e a volte affascinato dal misticismo, che lavora a volte con la categoria della "totalità" e a volta con quella di "limite". Guarda costantemente, ossessivamente, al Tutto e ali' Oltre, spesso trascurando i dettagli, le situazioni di fatto, le vicende biografiche, il rapporto fra ciò che si pensa e ciò che si fa. Al di là delle affermazioni e delle idee espresse, la caratteristica maggiore di questo estremismo sono proprio le sue strutture di linguaggio, le sue figure retoriche, il suo stile. Con la seconda metà del Novecento, queste tendenze estremistiche esplose nei primi decenni del secolo sono diventate una maniera, un'accademia, un gergo culturale tanto diffuso e doveroso quanto inoffensivo. L'estremismo si è trasformato in un apparato dj copertura,'nel gergo preferito dell'industria culturale, E ha permesso alla nuova, vasta, vorace Classe Media di non vedere e capire se stessa, di cancellare la propria identità sociale e morale sublimandola in gesti eroici e maschere mitologiche. In Italia, poi, paese in cui si fa sempre una gran fatica a riferire onestamente ciò che realmente si è fatto e ciò che veramente è avvenuto, l'estremismo stilistico si trasforma più facilmente in retorica. L'Italia è il paese degli esteti e dei politici, è il paese della più abile e inventiva manipolazione dei fatti. Non abbiamo avuto né una forte cultura narrativa né una tradizione teatrale: l'esercizio dell'autocoscienza e del confronto tra parole e azioni non ci interessa. In una cultura del genere, le neo-avanguardie informali e astratte, i marxismi duri e puri, le teorie formalistiche della letteratura, la moda di Nietzsche e di Heidegger hanno solo incrementato una specie di narcosi culturale collettiva, un clima beatamente carnevalesco, dove neppure le tragedie reali riescono a creare una coscienza adeguata. Come ha cercato di spiegare Cesare Garboli in un articolo su "la Repubblica" in cui analizzava lo stile dei suicidi di Gabriele Cagliari e di Raul Gardini, i nostri massimi imprenditori, manager e politici non riescono a capire chi sono realmente e che cosa hanno veramente fatto. In questo, forse, sono molto simili ai terroristi degli anni Settanta. Che oggi aspirano a condurre una vita del tutto "normale" (e ricevere qualche riconoscimento pubblico non gli sembrerebbe affatto assurdo). La Nuova Sinistra è finita con gli anni Settanta. Ma da allora si può dire che esista ancora una cultura di sinistra in Italia? E, se esiste, per quali caratteristiche si distingue? Domande elementari, quasi disarmanti, che ormai raramente vengono poste. Si sospetta Foto di Luigi Baldelli (Contrasto)

infatti, giustamente, che nessuno sia più in grado, con tutta la buona volontà, di rispondere. Inoltre, credo che domande del genere vengano evitate anche perché metterebbero molto in imbarazzo anzitutto chi si crede e si dichiara di sinistra. Se il discorso sulla presenza e sulla consistenza di una cultura di sinistra venisse aperto, nascerebbero, infatti, molte contrapposizioni, la controversia si mostrerebbe assai più impegnativa di quanto comunemente si creda. Alcuni aut-aut, alcune scelte tra una forma di pensiero e un'altra, fra un comportamento sociale e un altro si rivelerebbero inevitabili, e questo, per chi vuole tenersi buono un elettorato.fluttuante, generico, in gran parte qualunquistico e amante delle proprie abitudini, potrebbe risultare assai pericoloso. La grande Classe Media alla quale tutte le formazioni politiche devono ormai attingere largamente, ha una fisionomia culturale modellata non dalle ideologie, dalle cosiddette "visioni del mondo" di qualche tempo fa, ma dalle comunicazioni di massa. E nella cultura dei mass-media è difficile se non impossibile distinguere "destra" e "sinistra", scegliere fra cose che hanno un certo valore e cose che non valgono nulla. La critica dei massmedia, l'idea stessa che esista qualche cosa come una "ideologia dominante" che tende a nascondere e a confondere pur di mantenere salda la fiducia di massa nei confronti di questo sistema sociale, tutto ciò è stato messo prudentemente da parte. La sinistra politica non vuole più rischiare di avere delle idee e dei valori di riferimento. La sinistra politica ha creduto per parecchio tempo di poter fare a meno di una cultura di sinistra: per mostrarsi intelligente e liberarsi dalla vergogna del proprio provincialismo, ha aperto la bocca e ha ingoiato qualunque merce di massa o di élite che avesse un'apparenza di modernità e di sofisticatezza. Così la vergogna delle ideologie è diventata vergogna delle idee, fastidio e paura per qualunque discussione culturale di ampio respiro che implicasse la revisione critica dei modelli e degli stili culturali della modernità. Uno dei guai maggiori, credo, dell'attuale momento di conflitto in Italia è proprio qui: il conflitto non viene mai formulato in termini culturali. Non produce idee nuove, né nuovi comportamenti sociali. Il che dimostra quanto il tritatutto dell'industria culturale e della Politica abbiano fatto teITabruciata distruggendo i presupposti minimi per una qualunque discussione e polemica. La degradazione, l'instupidimento delle polemiche in Italia, che cercano di insaporire e pepare cibi insipidi e andati a male, è il risultato di questa indifferenza alle idee e di questa mancanza di idee. Credere che una politica e un'iniziativa sociale "di sinistra" possano nascere e svilupparsi nell'immediato futuro in Italia senza fare distinzioni fra un'idea e un'altra, fra un linguaggio e un altro, è però un'illusione da. sonnambuli, nella quale solo degli incalliti politici di professione possono cadere. Dove non c'è il senso delle forti polemiche e controversie culturali, ciò che è in pericolo è proprio la democrazia. Non in quanto insieme di istituzioni e di regole formali, ma come sensibilità e comportamento diffusi. Oggi che si crede di poter esportare e trapiantare nei più diversi paesi del mondo il modello democrati'co, bisogna anzitutto chiedersi a quali condizioni, su quale tessuto culturale e sociale un simile progetto è realizzabile. Non va dimenticato che i paesi che hanno inventato la democrazia e si sono battuti per realizzarla e difenderla nel corso di una lunga storia non sono molti: anzitutto gli inglesi, gli americani, i francesi. Ma altrove? Nella stessa Europa parecchi fra i paesi culturalmente più influenti hanno inventato il fascismo, il nazismo, Io stalinismo, il franchismo. È davvero solida in Europa una cultura della democrazia? E (se ci interessa) in che consiste? Rashidov street. Viaggio a Tashkent Marco Buttino IL CONTESTO Marco Buttino (Torino 1947) insegna Storia dell'Europa orientale e si occupa in particolare della storia dei russi e delle relazioni interetniche nell'ex Unione Sovietica. Ha soggiornato più volte in Asia centrale. Ultimamente ha curato la pubblicazione di In a Collapsing Empire, per gli Annali della Fondazione Feltrinelli. Un amico arabo sosteneva, non so se a ragione, che la parola italiana mafia derivi da mafe che nella sua lingua significa non c'è. Eravamo a tavola e mi spiegava che mafe era affermare che quel bicchiere, che avevo davanti agli occhi, non ci fosse. Nel suo discorso mafe indicava dunque la possibilità di negare l'evidente. E voleva parlarmi di una cultura in cui il vero e il falso sono possibilità che non si escludono obbligatoriamente e in cui i rapporti interpersonali modellano la realtà. Ho ripensato a questo discorso quando ho telefonato a miei conoscenti di Tashkent per organizzare un viaggio in alcune città dell'Asia centrale e per sapere se era stato aperto al pubblico un archivio molto riservato, in cui volevo lavorare. Ad ogni mia domanda, la risposta immancabilmente era "vieni e vedremo". Nulla era garantito ed era facile intuire che non avrei potuto ottenere nulla se non all'interno di rapporti che implicassero favori e debiti di riconoscenza. Andai a Tashkent. E mi fu detto che avrei avuto risposte precise alle domande, ma non subito, forse domani. Cominciai a rimpiangere l'odiato archivio del partito comunista di Mosca, dove avevo lavorato nei mesi precedenti. Là c'erano abbondanti materiali (anche se moltissimi restavano nelle cantine) e facevano fotocopie. Erano carte pregiate, dicevano, e quindi si doveva dare loro qualcosa di analogo: ben due dollari per foglio. A Tashkent i dollari non avevano quello straordinario potere. I miei ospiti, comprendendo la mia ansia, mi spiegavano che chi ha fretta non ottiene nulla.Nell'attesa (ma non credo sia giusto chiamarla attesa) ero invitato a varie cerimonie, dove si mangiava e beveva in abbondanza. È noto che la popolazione locale di Tashkent è islamica, ma è improbabile che chi legge abbia un'idea concreta della quantità mostruosa di vodka con cui questa religione antialcoolica è costretta a convivere in questa città. Della vodka avevo una viva memoria dai viaggi precedenti, e di nuovo non potevo che accettarla per non offendere chi mi invitava. Seguitemi, stiamo muovendoci sul filo di due grandi tradizioni, quella russa e quella islamica. A Tashkent si beve tutte le volte che si è in compagnia 'ed è praticamente impossibile stare soli. La mia condizione di straniero ed ospite mi portava a una socialità particolarmente intensa, ma non tale da eguagliare quella dei miei conoscenti locali, che parevano continuamente affaccendati in attività conviviali. Sto parlando ovviamente soltanto degli uomini. I loro frequenti incontri hanno però poco in comune con quanto noi intendiamo per "tempo libero", sono parte di un darsi da fare seguendo diverse attività in un gioco di mediazione che non ha sosta. È una continua contrattazione che ha regole di comportamento rigide, 9

IL CONTESTO che si sviluppa lentamente nel tempo e che non si chiude mai. Uno dei luoghi importanti dellasocialitàèlachajkhona. Si tratta di un luogo di ritrovo per i membri della comunità di quartiere e i loro ospiti, dove è possibile cenare e passare ore a discutere con gli amici. L'occasione è in genere una riunione del gyap, ossia di un gruppo di una decina di persone (uomini) che si riconoscono in un patto di solidarietà e reciproco aiuto. Un amico ci invita e questo è per noi grande onore. Qualcuno del gruppo prepara il plov (l'immancabile riso con carne di montone), si beve tè e vodka. I commensali ci vengono presentati da chi ci ha invitato e di ognuno viene detto quale sia il lavoro, quali le conoscenze importanti e in quali campi ci potrà essere di aiuto. Siamo stati accolti, come membri provvisori ed esotici, in una rete di solidarietà. In futuro potremo rivolgerci a queste persone che ci tratteranno con un riguardo dovuto non a noi, ma alla persona che ci ha introdotto. Io mi sento più vicino a quell'archivio riservatissimo (non scandalizzatevi). Per i nostri commensali quello non era l'unico gyap. Molto probabilmente ognuno di loro ne aveva almeno quattro o cinque: uno con vecchi amici di gioventù, uno di quartiere e altri per le proprie varie attività di lavoro. Dato che ogni gyap si riunisce almeno una volta al mese, le persone influenti con molte attività si trovano ad avere più di una sera alla settimana impegnata con uno dei propri gruppi. Gli obblighi sociali non si riducono però a questi incontri: le persone che abbiamo incontrato nel gyap frequentano infatti molte altre tavole imbandite, quelle delle frequenti cerimonie a cui devono prendere parte. Si tratta di matrimoni, feste per la circoncisione di un figlio, funerali e anniversari. Il numero degli ospiti 10 in queste occasioni è molto grande, dato che le famiglie del vicinato e quelle unite da rapporti di lavoro devono mandare almeno un proprio rappresentante. Così anche noi siamo costretti a seguire i nostri ospiti, ad esempio, al plov e vodka delle sette di mattino (riservato agli uomini), o più felicemente alla cena con musiche e danze (le donne sono ammesse). I matrimoni, dove di regola si avvicendano alcune centinaia di invitati, costituiscono un investimento tale da richiedere ad una famiglia media anni di risparmio. Si mangia, si beve e si parla, e soprattutto si fa mostra di sé come parte della comunità. Tra i presenti vi sono persone che ricoprono un arco molto ampio di posizioni sociali, possiamo infatti incontrare nello stesso luogo uomini politici e amministratori, autorità religiose, e anche persone che svolgono lavori molto umili. L'ambiente è eterogeneo, ma non vi è alcuna confusione riguardo alle differenze di status degli invitati; questo infatti non vuole essere un mondo di eguali, ma una società che attribuisce valore alla differenza e in cui le persone con più potere sono anche le più rispettabili. Nelle feste il tavolo delle persone più autorevoli (a cui sediamo anche noi, imbarazzati di tanto onore) indica la rete degli uomini di riguardo su cui può contare la famiglia. Dato che le assenze e le presenze non sono mai casuali, il nostro tavolo rappresenta pubblicamente la posizione dei padroni di casa nel1'ordine sociale. Il quartiere uzbeco, il makhallya, costituisce un importante riferimento territoriale delle reti sociali e favorisce il mantenimento di un sistema di potere basato sui rapporti di vicinato e sulla Foto di Roberto Koch (Contrasto).

solidarietà tra famiglie: i tratti di una società di villaggio si perpetuano in una grande città con due milioni di abitanti, quale è Tashkent. Il makhallya possiede anche una struttura formale di potere che consiste in un comitato, i cui membri vengono nominati con elezioni, ovviamente previo accordo tra le famiglie che contano. Questo makhalinskij komitet serve, da una parte, da struttura di servizio rispetto al quartiere nell'organizzazione delle cerimonie, nella gestione della chajkhona, nella costruzione e cura delle moschee e in altre funzioni di questo tipo; dall'altra, svolge una funzione di mediazione o fiancheggiamento rispetto alle istituzioni dello stato. Fino a due anni fa, queste istituzioni erano il soviet locale e la sezione del partito comunista; ora, nel post-comunismo, esistono istituzioni analoghe ma con nomi diversi. Il partito è diventato "popolardemocratico" e gli uomini, segretario incluso, sono quelli di prima. Il makhallya era e continua ad essere il punto di riferimento fondamentale per i politici che, anche quando hanno raggiunto le più alte sfere del potere, continuano ad avere un ruolo attivo nelle famiglie e quindi nei quartieri da cui provengono. Un tempo Mosca, per avere un interlocutore autorevole nella repubblica, favoriva la prevalenza di un clan concedendogli il ruolo di principale mediatore dei flussi di denaro provenienti dal centro. Il sistema sovietico, dove i posti di responsabilità erano ricoperti per còoptazione e dove dominavano i signori della nomenklatura con i loro clienti, aveva infatti creato reti di 0 potere rispettose delle regole della società locale. Sono le regole che si incontrano ad ogni passo in questa società fatta di uomini, in cui le persone autorevoli sono tali per la loro capacità di aprire opportunità, in cui i debiti vengono rispettati e in cui l'onore è ben più importante della ricchezza. L'ordine esistente rimanda ad un sistema di valori che si tramanda nella famiglia, dove i figli rispettano i genitori e il padre comanda. Tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta, questa unione di sovietic·o e di tradizionale aveva permesso a un segretario del partito comunista, Sharaf Rashidov, e al suo clan di fare da padroni nella repubblica. Soltanto dopo la morte di Rashidov, Mosca "scoprì" che il segretario uzbeco aveva truffato sistematicamente lo stato centrale e che era a capo di una vera e propria mafia. Fu un grandissimo scandalo (per gli ipocriti che fingevano di non sapere nulla) e un momento importante di quello scontro politico che, a Mosca, portò ad abbandonare il breznevismo. Seguirono anni difficili di inchieste ed epurazioni ordinate da Mosca; quando finì anche il gorba_cevismo, l'Uzbekistan si trovò ad essere una repubblica indipendente. Il passaggio ali' autonomia, che implicava la perdita dell'appoggio di Mosca ai governanti locali, provocò in altre repubbliche del!' Asia centrale l'avvio di una fase di scontri tra clan che si esprimevano anche attraverso la formazione di partiti politici diversi. In Uzbekistan il clan al potere, quello che si era insediato negli anni di Gorbachev, si è imposto su ogni potenziale rivale e ha instaurato una dittatura militarizzata, presentandola come unica via per evitare una guerra tra fazioni come quella in corso in Tadzhikistan. A capo della repubblica resta Islam Karimov, già segretario del partito comunista e formalmente primo dei sudditi di Mosca, ma ora leader dell'indipendenza nazionale. Apparentemente si tratta di un caso straordinario di trasformismo, ma la IL CONTESTO realtà è più complessa perché i dirigenti politici uzbechi da tempo erano qualcosa di diverso da sudditi. La vicenda di Rashidov, a cui abbiamo accennato, è emblematica: era un segretario corrotto se visto da Mosca, ma per l'élite politica uzbeca era un capo che difendeva con ogni mezzo gli interessi dei "suoi" e che gestiva il potere redistribuendo ricchezza ai danni dei russi. Facendo da mediatori tra i clan locali e Mosca, i leaders comunisti uzbechi giocavano in effetti un ruolo ambiguo: avevano esponenti nel comitato centrale a Mosca, ma mantenevano anche i loro legami personali di solidarietà in Uzbekistan; condivano i propri discorsi di citazioni di Lenin e del segretario generale in carica, ma facevano circoncidere i propri figli e rispettavano i riti della tradizione. Da Rashidov a Karimov, grazie ai comunisti locali, gli uzbechi avevano conquistato un ruolo preminente nell'amministrazione della repubblica contendendo spazi alla componente russa della popolazione. In tutte le cariche della nomenklatura gli uzbechi avevano ottenuto, già prima dell'indipendenza, una presenza maggioritaria, e questo anche nei settori economici tradizionalmente russi come le fabbriche, dove gli operai e i tecnici erano ancora russi, ma i dirigenti erano ormai in prevalenza uzbechi. Mosca continuava formalmente ad impartire ordini e gli uzbechi continuavano formalmente ad eseguirli. La creazione di uno strato di mediatori locali più o meno ampio è un fatto proprio di ogni colonialismo. Quello sovietico aveva attribuito un'importanza grandissima all'assimilazione culturale, mirando a russificare le popolazioni locali e ad emarginare le culture nazionali. Il caso di Tashkent è un esempio dei risultati contraddittori di questa politica: gli uzbechi non si sono fatti russi, ma hanno imparato il russo, se ne sono serviti per accedere a cariche di responsabilità e si sono dimostrati cattivi sudditi. In città la concentrazione di scuole e di uffici amministrativi, il contatto quotidiano con la popolazione russa (un terzo degli abitanti) e la consistente presenza di minoranze che ricorrono al russo come lingua comune, ha portato ad una tale diffusione della lingua sovietica per eccellenza, che è conosciuta da otto persone su dieci ed è considerata come lingua madre da quasi la metà degli abitanti. La situazione totalmente differente è riscontrabile nei villaggi di campagna, dove i contatti interetnici sono molto meno frequenti e non richiedono obbligatoriamente di passare attraverso il russo. Nel le campagne il russo è necessario soltanto a chi ha frequenti rapporti di lavoro con la città, ossia ai responsabili amministrativi, ai direttori delle aziende collettive, ai tecnici di buona specializzazione e in parte a chi commercia. Se consideriamo il contrasto tra le persone istruite di città che sanno obbligatoriamente il russo e i contadini che lo ignorano comprendiamo come la politica di assimilazione voluta da Mosca abbinasse istruzione, russificazione e modernità e ne facesse aspetti centrali della formazione ai valori sovietici. Diventata autonoma da Mosca, l'élite politica uzbeca non può che tentare di capovolgere questo paradigma e puntare sul nazionalismo come via per la ricerca di una nuova legittimazione, ma vuole anche fare in modo che il nazionalismo resti sotto controllo, ossia non assuma una radicalità tale da risultare minaccioso per gli ex mediatori con Mosca. La difficile situazione economica contribuisce intanto a creare tensioni sociali: · molte produzioni rivolte al mercato russo sono in crisi, la 11

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