SCIENZA/BERRY Quanta forza può esercitare un individuo e qual è la giusta misura di energia che può consumare? Quali sono i limiti opportuni dell'iniziativa umana? care e integrare questo implacabile principio delle "forze naturali". Forse possiamo farlo solo riaffermando un tipo inferiore di naturalità, quella dell'egoismo. L'egoismo umano ha certo molte malvagità di cui rispondere, e, giustamente, lo temiamo; ciononostante, dobbiamo cercare di non condannarlo completamente. Dopotutto, noi apprezziamo questa fugace opera della natura che chiamiamo "il mondo naturale", con la sua piacevole abbondanza di animali e piante, proprio pe~chéne abbiamo bisogno, l'amiamo e lo vogliamo come dimora. Noi siamo _ovviamente creature subordinate alla natura, dipendenti da un mondo selvatico che non abbiamo creato. E tuttavia siamo connessi con quella natura più vasta tramite la nostra natura, parte della quale è costituita dal nostro egoismo. Una lagnanza generalizzata oggigiorno è che gli esseri umani credono che il mondo sia "antropocentrico", ovvero centrato sull'uomo. Capisco la lamentela; le convinzioni del cosiddetto antropocentrismo sfociano spesso in imperdonabili e pericolose insubordinazioni. E tuttavia non so proprio come la specie umana possa evitare certe manifestazioni di egocentrismo; non so neanche come tutte le specie possano evitarle. Il lombrico, suppongo, vive in un mondo lombrico-centrico; il tordo che mangia il lombrico vive in un mondo tordo-centrico; il falco che mangia il tordo vive in un mondo falco-centrico. Tutte le creature, vale a dire, fanno ciò che è necessario nel loro interesse, e sono domestiche nell'ambito della loro domus ovvero del proprio ambiente. Gli esseri umani sono differenti dai lombrichi, dai tordi e dai falchi per la capacità di far di più - al giorno d'oggi molto di più - nel loro interesse di quanto sia necessario. Anzi, la maggior parte degli esseri umani che vivono nei paesi industrializzati è colpevole di questa eccessiva capacità. Una delle dispute umane più antiche riguarda la questione di quanto sia necessario. Fin dove devono spingersi gli esseri umani nel perseguire il proprio interesse, per essere pienamente uomini? Il numero e la varietà di risposte che sono state date a queste domande dovrebbero fugare ogni dubbio sul fatto che non l'abbiamo mai saputo con sicurezza, e tuttavia abbiamo l'inquietante sospetto che, quasi sempre, la risposta sincera sia stata "di meno". Non abbiamo modo per ragionare su questo problema, mi pare, ameno che non comprendiamo che, per possedere il mondo, dobbiamo condividerlo, sia tra noi che con le altre creature, cosa resa subito complicata dall'ulteriore percezione che, per vivere nel mondo, dobbiamo utilizzarlo, almeno in parte, a spese di altri esseri. Dobbiamo riconoscere sia la centralità che i limiti del nostro egoismo. Si può a stento immaginare una situazione più spinosa. Tuttavia nel ravvisare la difficoltà della situazione proviamo anche un senso di sollievo, poiché essa ci fa rinunciare alla speranza di poter trovare una soluzione nella semplice preferenza accordata all'umanità piuttosto che alla natura o alla natura piuttosto che all'umanità. Le uniche soluzioni che ci si prospettano avranno bisogno di essere elaborate e sviluppate con un certo sforzo. Dovranno essere soluzioni pratiche, che portino ad una buona applicazione pratica a livello locale. C'è molto lavoro da svolgere ed è un lavoro che può essere fatto. Nell'intraprendere questa impresa, forse il pericolo maggiore consiste nel rischio di sviluppare un'antipatia nei confronti di noi stessi come specie. Si tratta di un sentimento comprensibile - abbiamo giustamente paura di noi stessi - ma, nonostante tutto, siamo obbligati a pensare e ad agire in base a un vero e proprio egoismo e a un sincero rispetto per noi stessi in quanto esseri umani. In caso contrario permetteremmo all'odio e alla paura per noi stessi di giustificare ulteriori abusi verso gli altri e verso il mondo. Dobbiamo accettare il fatto che non è naturale essere sleali verso la propria specie. Per queste ragioni, il concetto che "ci sono troppe persone nel mondo", per quanto vero possa essere, presenta un grave rischio, poiché questa è la premessa da cui è fin troppo probabile che qualcuno, prima o poi, andrà avanti per determinare chi è in eccesso. Se concludiamo che ci sono troppe persone, sarà dura evitare la conclusione- successiva, vale a dire che ce ne sono alcune che non ci occorrono. E di quanti abbiamo bisogno, e di chi? Chi, al momento apparentemente non necessario, può risultare indispensabile più tardi? Non lo sappiamo; è parte del nostro mistero, del nostro stato selvatico, non esserne a conoscenza. lo sostengo, almeno per noi negli Stati Uniti, che è prematuro concludere che "ci sono troppe persone", non già perché penso non sia vero, ma perché non credo che siamo ancora pronti a pervenire a una tale conclusione. Riconosco che bisogna porsi delle domande sulla dimensione della popolazione, ma non sono certo le prime domande da porsi. Il "problema demografico" dovrebbe essere esaminato, inizialmente, come un problema strutturale, non quantitativo. Prima di concludere che abbiamo troppa gente, dobbiamo chiederci se abbiamo individui male utilizzati, persone che si trovano al posto sbagliato, o che utilizzano male il posto in cui vivono o fanno un cattivo uso dei luoghi che possiedono. L'importanza più immediata può essere rappresentata non da quanti siamo,-ma dove siamo e cosa facciamo. Ad ogni modo, il tentativo di risolvere i nostri problemi riducendoci di numero può essere una distrazione dal dato statistico-demografico di maggior effetto del nostro tempo: che un singolo essere umano con·una bomba nucleare e la volontà di usarla è assolutamente di troppo. Direi che non è tanto la prolificità umana che sta sovraffollando il mondo quanto i moltiplicatori tecnologici del potere di singoli individui. La peggiore malattia attuale della terra è rappresentata probabilmente dall'ideologia dell'eroismo tecnologico, secondo la quale sempre più gente causa deliberatamente effetti su vasta scala che non è in grado né di prevedere né di controllare. Questa è l'ideologia della classe professionista dei paesi industriali, una classe la cui lealtà alle comunità e ai luoghi è stata annientata da ragioni economiche e dall'istruzione ricevuta. Questa è gente disposta ad andare dovunque a mettere in pericolo qualsiasi cosa per assicurarsi il successo. Noi possiamo o non possiamo avere spazio per altra gente, ma è certo che non lo abbiamo per altre esagerazioni tecnologiche. Non abbiamo bisogno di soluzioni da mille dollari a problemi che ne valgono dieci o soluzione da un milione di dollari a problemi che ne valgono mille, o, ancora, soluzioni da svariati miliardi lì dove non c'è mai stato un problema. Non abbiamo modo di 77
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==