Linea d'ombra - anno XI - n. 83 - giugno 1993

SCIENll/BERRY cupasse delle cose materiali sarebbe un'epoca davvero spirituale. Dalle mie parti negli Stati Uniti, gli Shakers, "spirituali" com'erano, erano autentici materialisti, poiché apprezzavano realmente i materiali. E li valutavano nell'unico modo possibile·nella pratica: lavorandoli bene, con eleganza e cura. Al contrario, il cosiddetto materialismo del nostro tempo è indifferente alle preoccupazioni spirituali e insieme voracemente distruttivo del mondo materiale. E la nostra economia la definirei non già materialistica, bensì astratta, intenta alla sovversione tanto dello spirito che della materia attraverso astrazioni di valore e di potere. In un'economia del genere, è impossibile valutare qualunque cosa di cui si è in possesso. Ciò che si possiede (la casa o il lavoro, il coniuge o l'automobile) ha valore solo se può essere scambiato con ciò che si crede di volere: un processo economico illimitato basato su una insoddisfazione perenne. Ora che i processi reali della civiltà industriale sono diventati così aggressivi verso l'umanità e la natura, è facile per noi o per alcuni di noi, capire che la praticità deve essere soggetta ai valori e alle misure spirituali. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che la spiritualità deve anche fornire delle risposte alle questioni pratiche. Per gli esseri umani la sfera spirituale e la sfera pratica sono, e devono essere, inseparabili. Da sola la praticità diventa pericolosa; la spiritualità, da sola, diventa debole e inutile. Da sole entrambe divengono insignificanti. L'una è la disciplina dell'altra, in un certo senso, e in un buon lavoro le due sono connesse. "La dignità del duro lavoro è insidiata quando la sua necessità viene a mancare", dice Kathleen Raine, e ha pienamente ragione. È un'intuizione che non osiamo ignorare, e sottolineerei che si applica a tutti i tipi di duro lavoro. Ciò di cui non si ha bisogno è frivolo. Tutto dipende dal giusto rapporto con la necessità, e dunque da una corretta definizione di necessità. Nel definire le nostre esigenze, dobbiamo stare attenti a detrarre i sussidi, i prestiti non restituiti, dalla natura che ha finora retto la civiltà industriale: i combustibili fossili e i minerali "a buon mercato"; le foreste abbattute e non ripiantate; i terreni vergine della maggior parte del mondo, la cui fertilità non è stata reintegrata. E così, sebbene stia tentando di squalificare l'idea e l'azione delle riserve naturali, non sono contro la conservazione della natura. Faccio solo notare, come ha già fatto l'amministrazione Reagan del resto, che la natura che stiamo cercando di conservare è un ostacolo sul percorso della nostra attuale economia, e, aggiungerei, non può sopravvivere se quest'ultima non cambia. La ragione per preservare la natura è che ne abbiamo bisogno. Ci occorrono distese naturali di tutti i tipi, grandi e piccole, pubbliche e private. Abbiamo bisogno, di tanto in tanto, di andare in luoghi in cui le nostre preoccupazioni non sono ammesse, in cui le nostre speranze e progetti non hanno limite. Abbiamo bisogno di incontrare la forma incontaminata e misteriosa della Creazione. E concorderei con Edward Abbey nel dire che abbiamo inoltre bisogno di alcune distese di ciò che egli chiama "natura assoluta" in cui "per comune accordo nessuno di noi entra affatto". Queste oasi incontaminate ci occorrono anche perché lo stato selvatico- la natura-rappresenta uno dei nostri indispensabili oggetti di studio. È necessario considerarla come la casa da cui 76 .J abbiamo origine e sostentamento, come l'essenziale elemento regolatore della nostra storia e del nostro comportamento e come ciò che fondamentalmente definisce le nostre possibilità. Ci sono, credo, tre domande che occorre porsi in relazione a un'economia umana in un dato luogo: 1. Che cos'è questo luogo? 2. Che cosa ci permetterà di fare qui la natura? 3. Che cosa ci aiuterà a fare qui la natura? La seconda e la terza domanda sono ovviamente quelle che definirebbero le cose da fare nella ricerca pratica e nel lavoro. Se non operiamo secondo ed entro certi limiti di tolleranza, non ci sarà concesso di lavorare per molto. È abbastanza chiaro, per esempio, che se utilizziamo la fertilità del suolo inmodo più veloce di quanto la natura possa reintegrarla, ci stiamo ponendo un obiettivo che non desideriamo. E ignorare che la natura ci può aiutare rende l'agricoltura, per esempio, troppo costosa per i coltivatori, come del resto vediamo spesso. Può addirittura rendere la vita troppo costosa per gli uomini. Ciò non di meno, la seconda e la terza domanda sono subordinate alla prima. Non possono trovare risposta - non possono neanche venire intelligentemente poste - fino a che non venga data una risposta alla prima. E tuttavia la prima domanda non ha ancora trovato né risposta né espressione per quanto ne so, nella storia dell'economia amèricana. Tutti i grandi cambiamenti (dalle guerre indiane e dall'apertura delle frontiere agricole agli esordi dell'ingegneria genetica) sono stati effettuati senza guardarsi indietro e nell'ignoranza dei luoghi in cui ci si trovava. La nostra reazione alla foresta e alla prateria che ricoprivano gli attuali campi è stata di toglierli di mezzo al più presto possibile. E le popolazioni indiane che rappresentavano un ostacolo e gli "inefficienti" agricoltori su piccola scala sono stati eliminati in base allo stesso principio. Non abbiamo mai saputo cosa stavamo facendo perché non abbiamo mai saputo cosa stavamo disfacendo. Non possiamo sapere quello che facciamo fino a che non scopriamo quello che la natura farebbe se noi non facessimo nulla. Ed è questo il motivo per il quale abbiamo bisogno di piccoli tratti di natura incontaminata e primitiva disseminati per la campagna, come anche di tratti più grandi in luoghi spettacolari. Tuttavia, dire che la natura e i territori allo stato selvatico sono indispensabili e inseparabili da noi non vuol dire che possiamo trovare nella natura modelli sufficienti per la nostra vita e per il nostro lavoro nella natura. Suggerire che, per gli esseri umani, esiste una semplice equazione tra "naturale" e "buono" significa cadere immediatamente nella trappola dei cinici che amano far notare come, in fin dei conti, "tutto è naturale". Naturalmente hanno ragione. La natura provvede in maniera generosa ai bisogni dei suoi figli, ma, come diremmo adesso, è anche troppo permissiva. Se i suoi figli si vogliono distruggere completamente l'un l'altro o vogliono suicidarsi, le sta benissimo. Dopotutto, non c'è niente di più naturale dell'estinzione delle specie; dobbiamo dedurre, quindi, che perfino l'estinzione di tutte le specie sarebbe perfettamente naturale. È ovvio che, se vogliamo difendere l' esistynza del mondo come noi lo conosciamo, dobbiamo trovare un modo per modifi-

RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==