Linea d'ombra - anno XI - n. 83 - giugno 1993

sembra uscito dalla penna di Flaiano: la sinistra è chiamata a raccogliere i frutti della propria sconfitta. Come questo sia accaduto, è complicato da spiegare perché dipende da un aggrovigliato intreccio di elementi e coincidenze: dalla caduta del Muro all'esplosione di Tangentopoli, dalla singolarità del comunismo italiano alla mancanza di un partito democratico-borghese, dalla peculiarità del nostro sistema istituzionale a quella dell'economia nazionale e altro ancora. Sta di fatto che siamo di fronte a una stravaganza della storia: la sconfitta sociale della sinistra coincide con una opportunità politica senza precedenti nell'Italia del dopoguerra. Sarebbe un paradosso da approfondire. Ma qui basta, credo, accennare alla profondità della sconfitta segnata da una lunga serie di sintomi lungo un arco di cui citerei almeno i due estremi: da un lato la diminuzione dei salari reali, ossia il fatto che i ceti più deboli cominciano a pagare il prezzo della crisi economica; all'altra estremità il nitido emergere, nelle cronache non solo giudiziarie di Tangentopoli, di alcuni tratti fondamentali e ormai consolidati del nostro carattere nazionale. La prima conseguenza del paradosso sta dunque in questo: bene. che vada, la sinistra dovrebbe governare un paese in cui il senso pubblico è debolissimo, la responsabilità individuale misconosciuta o derisa, diffusissima l'inclinazione alla corruzione attiva e passiva. Del resto questo è il frutto di un secolo che ha cambiato gli italiani attraverso tre grandi trasformazioni (chiamiamole pure modernizzazioni): la prima sotto il fascismo, la seconda in pieno regime democristiano, la terza in un decennio dominato, come stile culturale profondo e pervasivo, dal craxismo. Anche a lasciar perdere la mancata Riforma e il cattolicesimo, le rivoluzioni passive e l'Unità incompleta, il trasformismo dilagante e l'identità nazionale assente, basterebbero questi 50-60 anni a spiegare cosa siamo, noi italiani. Deve la sinistra provare a governare un sistema politico che, al di là di più o meno contorte riforme istituzionali, nasce da questa storia e da questo retroterra morale? Dipende da cosa si propone. Se davanti alla sconfitta sociale il suo obiettivo è la difesa, anche con le migliori intenzioni e inclinazioni, di un patrimonio di valori, esperienze e bandiere, non c'è motivo di tentare, naturalmente. Se il problema è la conservazione del proprio spazio, delle proprie più o meno piccole strutture, del proprio potere, ogni movimento è dannoso, come dal suo punto di vista ha ben capito la sinistra rossa e verde del No al referendum di aprile, ma come dimostra anche la vicenda del Pds, dove ogni passo in qualunque direzione rischia di far crollare la complicata architettura che lo regge. E così accade che chi ha votato disciplinatamente e perfino con qualche entusiasmo per Andreotti e Cossiga, si ritragga sdegnosamente piuttosto che votare per Ciampi. Ma se la sinistra è altra cosa, se è figlia non solo del 1789 ma anche del 1989, non può ritrarsi né porre condizioni ad altri che a se stessa. È infatti esclusivamente nella sua capacità di elaborare programmi, idee, soluzioni ai problemi di oggi che si gioca non tanto la sopravvivenza - che può essere parissitariamente affidata alla rappresentanza, più o meno radicale, di quel 10, 20 o 30% di insoddisfatti ed esclusi - quanto il senso della sinistra, il significato reale di quella parola. Per un compito del genere, le difficoltà sono enormi. La maggiore sta nel fatto che i tempi della società e quelli delle istituzioni non coincidono, come quasi sempre, ma la contraddizione si presenta oggi in maniera particolarmente grave. E le scelte concrete non possono riso!vere quella contraddizione ma devono per il momento accettarla. Così nelle istituzioni va evitata una precipitazione conservatrice o reazionaria, assumendosi le responsabilità che l'urgenza della situazione richiede. Invece nella società, dove la sconfitta ha IL CONTESTO scavato solchi profondi, trasformazioni e novità avanzano molto lentamente e procedono a tentoni, prive come sono di riferimenti culturali e organizzativi. Per ora le culture politiche che vi dominano sono repliche opache, riprese aggressive o ripetizioni grottesche di vecchie esperienze da un lato; dall'altro - ma gli intrecci sono numerosi - populismi rabbiosi e dall'incerto destino. Gli indizi di innovazione sono poco più che tracce confuse, enigmatiche, aurorali. L'effetto è che qui occorre pazienza, attrezzarsi per un lavoro di interpretazione e trasformazionè che ha tempi più lunghi; mentre nelle istituzioni, probabilmente, bisognerà scegliere e in fretta. Se oggi una sinistra c'è, non può che essere leggermente e provvisoriamente strabica. Sarà costretta a governare l'esistente, se vorrà evitare che la crisi economica e istituzionale precipiti o approdi a esiti di ricomposizione conservatrice. Ma deve soprattutto scommettere sulla novità delle esperienze e delle culture politiche nella società, per quanto lento e incerto sia il loro affermarsi. Perché se c'è una speranza di trasformazione reale degli uomini e della politica in questo paese sta in quei processi. Che compirebbero il tratto di rivoluzione che ci manca, e ridarebbero senso alla parola Sinistra. Una vastissima periferia Piergiorgio Giacchè Quanto sta succedendo ha uno strano effetto rincuorante su tutti, ma non sembra galvanizzare nessuno. Forse questa tanto celebrata rivoluzione soft àll'italiana è proprio una prima, vera "riforma" (dopo tanto promettere e parlare). Forse le "riforme" fanno proprio questo effetto di scarsa emozione e di nessuna commozione. Forse per questo piace o piaceva di più sentirsi "rivoluzionari" ... E non si tratta davvero di nostalgia, ma soltanto di comparare piccole sensazioni e brevi differenze: ad esempio, se la verità si diceva rivoluzionaria, si vede bene invece come la riforma incoraggi l'ipocrisia. Nessuno (dei comuni mortali, s'intende) può dire di partecipare dall'interno a questo Cambiamento, eppure tutti si dichiarano attivi; nessuno può dire di averne tratto fin qui un qualche giovamento, eppure ci si dichiara soddisfatti. L'opinione sembra diventata l'unica attività per davvero pubblica, ma questo non si sta trasformando in impegno, in comprensione dei problemi e in azione libera e responsabile. La traduzione di ogni comportamento in immagine è ormai compiuta e consapevole: qualcuno magari scende in piazza, ma sa già che sta facendo tv. Forse è soltanto una mutazione antropologica, ma può darsi che sia l'ennesima violazione politica della vita sociale e culturale. È certo che, davanti al miracoloso e improvviso auto da fe delle fregature e delle prepotenze di ieri, si è meno vigili o più confusi su quelle che, invisibili, ne stanno prendendo il posto in questo momento. Stanno mutando le condizioni materiali e i condizionamenti ideologici; si avvertono soprattutto le prime e magari talvolta anche i secondi, ma non sembra esserci tempo né modo per un'utile e accorta riflessione. La caduta dei muri prosegue incessante: cose grosse, una valanga dietro l'altra, davanti alle quali il giusto senso di sollievo e il pensiero di sincero ringraziamento non sembrano compensati da gravi ansie e serie preghiere per un futuro oggi davvero imperscrutabile. Ci si 7

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