SAGGI/SERENI NOTA su IL11 TORD0 11 Vittorio Sereni Se dovessi dare un consiglio al lettore che si avvicina per la prima volta a Giorgio Seferis, gli direi di leggersi anzitutto Il Tordo, quindi le pagine del Diario '46 che ne accompagnano la genesi, successivamente la Lettera sul "Tordo"; e infine clirileggersi Il Tordo (e così via, perché in realtà una poesia non si legge, si convive con essa). Lo suggerisco sulla base di un'esperienza che io stesso ho fatto, non perché con Seferis abbia cominciato di qui, ma perché è raro disporre di un ausilio così completo ad opera della stessa mano; e lo suggerisco ponendomi come lettore medio perché difficilmente può"essere qualcosa di diverso uno che non legge nell'originale o non può cogliervi altro che il barlume disceso dalla reminiscenza del greco antico imparato a scuola e troppo presto abbandonato. Lettore medio ma interessato in modo non generico, cioè facente parte cliun uditorio che si suppone avere "dati sentimentali comuni" con l'autore e col testo: cioè lettore "idoneo", nella misura in cui è disposto a porsi nel "mutuo, illimitato rapporto fiduciario" che secondo Seferis caratterizza il mondo dell'arte e il suo dinamismo nel sempre rinnovato confronto col tempo e con le generazioni. Per tornare ai versi del Tordo, non è che l'operazione consigliata sia in se stessa risolutiva e conclusiva: serve ad avviare il rapporto cli cui sopra o ha qualche probabilità di avviarlo, per la sua peculiarità di occasione rara,. anche presso chi non vi sia vocato o sia portato a confonderlo con la buona volontà di tipo nozionistico. Chissà che un qualche spiraglio non si faccia strada in lui a intendere che "Io scopo ultimo di un poeta non è descrivere le cose bensì crearle nominandole" (dove "crearle" significa piuttosto "farle esistere" che non evocarle magicamente). Mentre sta scrivendo Il Tordo Seferis si domanda: "Perché si scrivono poesie? Perché, per quanto siano così arcane (per chi le scrive), si stimano più importanti d'ogni altra cosa nella vita? Questo bisogno vitale". Così poste, le due domande possono in parte sviare l'attenzione dalla convinzione di fondo (il "bisogno vitale"); e la seconda, solo in apparenza però, sembra rispondere alla prima con l'aria di mettere la poesia al di sopra di ogni valore - in realtà aggrava il primo interrogativo, il precedente perché. Credo che Seferis, se interrogato su questo punto, converrebbe sullo spostamento del "perché" il più vicino possibile al "bisogno vitale" e al suo soddisfacimento. Il che porta l'ascolto più a monte, non tanto cioè sullo "seri vere una poesia" e insomma sull'operazione poetica quanto invece sul sentimento, abbastanza misterioso e inesplicabile tuttora, di ineluttabilità che la origina e la accompagna. Detto in altri termini: si è (uno è) alle prese con qualcosa che si è impresso in noi imponendosi dall'esterno. Questo qualcosa che diventa oggetto vorrei dire misterioso a partire dal momento in cui ci si impone a preferenza di altri, ci stimola o anche ci provoca, vogliamo farlo nostro: può concedersi di colpo dopo averci resistito per anni oppure è già in noi prima ancora che ci si sia resi conto che è entrato nella sfera dei nostri interessi espressivi. È difficile fissare il momento in cui è scattata la decisione di farne oggetto di una poesia: sappiamo solo che la strada, una delle strade, di una tale (illusoria) appropriazione passa attraverso l'operazione poetica: "questo bisogno vitale", non di scrivere versi ma di fare i conti in questo modo con alcuni oggetti e figure in cui ci 62 imbattiamo, con alcune vicende che attraversiamo o che ci attraversano. Ecco dunque "fra l'isoletta e la costa [di Poros] sommerso il 'Tordo'. Solo il fumaiolo emerge di poche dita dall'acqua.L'affondarono per non farlo prendere dai tedeschi. L'acqua, appena increspata, e il gioco del sole hanno fatto sì che il vascello sommerso, coi suoi alberi rotti... fluttui ora come un vessillo, o un'immagine opaca dentro il cervello". È un'annotazione del Diario '46. Non è assurdo ravvisare tra il fumaiolo emergente e l'immagine opaca dentro il cervello il primo movimento, o stimolo o vibrazione, attorno al quale si è poi formata la volontà (il bisogno) di costruire la poesia, il poemetto, che ha poi preso il titolo dal nome dell'imbarcazione affondata. Che sia stata affondata per sottrarla ai tedeschi e che ne abbiano poi fatto scempio i borsari neri - come precisa il barcaiolo a Seferis - sono dati accessori, rimasti inutilizzati dal poeta. Questa fluttuazione come di vessillo accennava ad altro. A che cosa? Sarebbe stato scritto, Il Tordo, per dire quella cosa, quella fluttuazione? Evidentemente no, a meno di non affermare che l'origine di una poesia è quella poesia stessa. Il Tordo è ben altro - e non importa affermarlo in senso quantitativo. Vbglio dire che è addirittura irrilevante stabilire che è infinitamente di più. Occorre tuttavia intendersi su questo dipiù: "Il mio lavoro" dice Seferis "non consiste nel seguire idee astratte, ma nell'udire cosa mi dicono le cose del mondo, nel guardare come s'intrecdano col mio spirito e col mio corpo, e nell'esprimerle". C'è sempre a questo punto qualcuno pronto a domandare di quali cose si tratti e di quale mondo; e quale sia la portata di "cosa dicono" quelle cose. Normalmente, di fronte a tali domande, da qualunque parte vengano, formalista o contenutista, la poesia, l'oggetto poetico vengono messi bellamente da parte e su essa prevale il "discorso" - che è un modo di rendersi (lo ripeterò fino alla noia) ciechi e sorcli di fronte alla poesia o, se si preferisce, alle poesle che si scrivono. Continuo a pensare che il poeta non dice la verità, anche se può concorrere a dirla o può sembrare, magari per coincidenza storica, a volte per divinazione anticipante, che sia toccato a lui di dirla. La verità sui generis che viene da lui è in stretta connessione con l'oggetto misterioso, dicevo, che gli si è imposto tanto da farsi scegliere dalla sua attenzione, o che ha scelto lui, il poeta, per palesarsi ed esistere, per arricchire il mondo di sé, della sua presenza prima non percepita o percepita nella luce normale del dato del tutto ovvio. Occorre dunque, anzitutto, stabilire la cosa, tenere lo sguardo su questa, sapere che ·intorno a essa si è formata una tensione, la quale non può non implicare un lavoro di accentuazioni, riduzioni, selezioni, scarti e ancora accentuazioni. "Ogni spiegazione d'una poesia è, credo, folle" cliceancora Seferis; e lo dice, si badi, proprio nel cercare di portare luci alla lettura del Tordo. "Lo sa bene chi abbia una pallida idea di come lavora l'artista. Può essere vissuto molto, avere imparato molto, può aver fatto i salti mortali. Quando arriva il momento di creare qualche cosa, la bussola che lo governa è l'istinto, che sa, prima di tutto, trarre alla luce e sommergere nella penombra della coscienza le cose, i toni (direi meglio) che occorrono o non occorrono, o che occorrono solo perché nasca quel qualche cosa: la poesia. A quei materiali non pensa più: li palpa, li soppesa, ne tasta il polso. Quando l'istinto è maturo a mostrare la via, il sentimento più ardente può diventare rovinoso e inutile come il pensiero raggelato: può dare balbettamenti. La poesia, dal punto di vista tecnico, la definirei "logo armonico" ponendo l'accento pili forte sull'epiteto, inteso nel senso del nesso, della concatenazione, della corrispondenza, dell' opposizione fra un'idea e l'altra, fra l'uno e l'altro suono, l'una e l'altra immagine, l'una e l'altra emozione. Una volta ho parlato di orecchio poetico: intendevo l'orecchio capace di distinguere tutto ciò". Un preciso corollario può aggiungersi a queste dichiarazioni: un poeta non è poeta una volta per tutte, nel senso che non ha avuto una volta per tutte il cosiddetto dono della poesia. Non lo è nemmeno nel modo di
RkJQdWJsaXNoZXIy MTExMDY2NQ==