Linea d'ombra - anno XI - n. 83 - giugno 1993

salute. Nel 1963 è il primo greco a ricevere il Premio Nobel per la letteratura: "Appartengo ad un piccolo Paese, -dice a Stoccolma. - Un promontorio petroso nel Mediterraneo che non ha nessun altro bene se non la lotta del suo popolo, il mare e la luce del sole [...] Il suo tratto distintivo è l'amore per l'umanità e la sua regola la giustizia ... Quando sulle strade di Tebe Edipo incontrò la Sfinge-e questa gli pose il suo enigma, la sua risposta fu 'l'uomo'. Questa semplice risposta distrusse il mostro. Noi abbiamo ancora molti mostri da annientare". Nel 1965 pubblica la traduzione del Cantico dei Cantici eAntigrafès (Copie), dove sono raccolte sue traduzioni da vari poeti di lingua inglese e francese. L'anno dopo segue Tria kryfà piìmata (Tre poesie segrete). Il titolo ha fatto pensare a un riferimento alla "Ode secrète" di Valéry; ma sono comunque poesie in cui si ritrovano, in una forma non più discorsiva, narrativa, ma piuttosto essenziale ed ellittica, i temi più cari - sebbene i messaggeri non siano più "lerci ed ansimanti" ma "riposati e vestiti di fresco", ed ugualmente annunzino messaggi incomprensibili, i pleniluni diventino artificiali, le metropoli decadute "a pascolo di capre" siano mutate "in un bordello", mentre intanto "la neve copre il mondo": il poeta che aspettava l'approdo di Ulisse è ormai rassegnato ad attendere sia pure "un relitto, una zattera". Con il colpo di Stato dei colonnelli (1967) si chiude per protesta nel silenzio, interrotto solo l'anno dopo con una coraggiosa dichiarazione alla BBC in cui condanna pubblicamente la dittatura: diviene simbolo di alta dignità morale per la Resistenza greca.· Il 20 settembre 1971, muore per complicazioni post-operatorie: più di diecimila persone seguono i suoi funerali, e non cert6 sommessamente, ma al grido unisono e disperato, sotto gli occhi impotenti delle milizie, di athànatos, che in greco non significa semplicemente "immortale", ma molto di più, "colui la cui fama non conoscerà la morte". Il diarioMeres (Giorni), di cui qui pubblichiamo alcune pagine, è una sorta di diario di bordo - come è anche il titolo di tre raccolte poetiche di Ghiorgos Seferis - , in cui non mancano allusioni a figure e situazioni non sol.odeUa sua vita privata, e quindi interiore, ma anche della vita politica, sociale e letteraria della sua epoca. Inoltre, come in un diario di bordo vengono registrate le varie tappe del peUegrinaggio di Seferis ali' estero, del percorso della sua anima, in un mondo alieno e distante dal doloroso sentimento di grecità che egli ovunque e sempre avverte: "Dovunque viaggio, la Grecia mi ferisce ...". Egli, d'altronde, considerava un diario non solo un'opera teatrale ma un "laboratorio" che permette di prendere una nuova coscienza del reale svolgendo una funzione di esplorazione: è, quindi, "una catena del pensiero, un modo / di cominciare a dire cose che mal si confessano / quando non reggi più/ ... / e bisogna affrettarsi ad aprire il cuore/ prima che l'estero lo muti". Oggi l'uomo non sa più chi è, e Seferis, presentando se stesso, presenta anche l'immagine dell'uomo del XX secolo, il suo moderno antico esilio, il senso del cui destino Seferis tenta di cercare, interrogandosi, con una scrittura intemporale è maieutica. Meres è proprio per questo l'essenza di una vita, e per il solo fatto di registrare in un certo modo il succedersi dei suoi sentimenti e dei suoi pensieri, è già il grafico della vicenda di un'anima; è già un modo di farla parlare direttamente, di esprimerla in battute pronunciate dalla sua voce, sia pure una voce trascritta in appunti diaristici, sia pure nella riduzione del dialogo a semplice dialogo del personaggio con se stesso, a un semplice monologo "davanti allo specchio". Il rapporto tra Seferis e il suo diario è infatti un rapportodi specularità; è la posizione dell'uomo dissociato difronte al proprio destino; come uno specchio dell'anima ("Sai chi era Narciso? Un uomo che vedeva se stesso affogare senza poter muoversi per salvarlo"), esso porta l'anima stessa di chi scrive in superficie, la "epifanizza". Ed è così che Seferis ci racconta, a bordo di una nave fantasma alla deriva - la terra greca - , i giorni di uno scrittore bloccato, perduto di fronte al problema e alla necessità di scrivere: "La nostra sensibilità per SAGGI/PAPATHEU Seferis nel 1953, ambasciatore a Beirut. creare qual.cosa ha bisogno di un dialogo". Sa che la vita si mostra agendo, perché la sua è una sostanza fluida, il panta rei di Eraclito; e l'atto della parola diviene una forma di confessione e riscatto: egli crea allora, consapevole di essere prigioniero della propria vita interiore, il personaggio di Stratis per non conversare con se stesso. Gli "altri", dunque, prenderanno posto nella sua autobiografia anche come provocatori di quella sofferenza esistenziale fatta di dubbi e nostalgie, che è una nota fondamentale di quest'opera. Il tempo diventa, quindi, un enorme deposito di oggetti, di apparizioni, di atti di presenze, volto a significare nient'altro se non la molteplicità simultanea della nostra vita. Le apparizioni di questo mondo concreto sono le famose ombre proiettate sul fondo della caverna platonica; compito dell'arte è quello di rendere sensibili, attraverso la rappresentazione di quelle ombre, le idee di cui esse non sono che le immagini insignificanti. La stessa arte di Seferis, d'altra parte, è qualcosa che esprime delle simultaneità confluenti nell'attimo vivo, e gli attimi vivi sono tutti della stessa materia vivente che fluisce nella durata interna, sebbene non li si possa cogliere che in discontinuità. Infatti, qui il dramma di Seferis sembra quello di non arrivare a conoscere, a collegare le cose, le rappresentazioni: la sua esistenza si atomizza n!!isingoli momenti, nei singoli giorni; e il modo stesso di prenderne atto fa capire che fra quei giorni non c'è legame, nesso, appunto "continuità"; che il loro susseguirsi, nel tempo e nello spazio, non è una conseguenza, una deduzione, una maturazione del prima. L'uomo si inventa e si scopre paclando; e l'eroe di Seferis, come l'eroe di Sofocle, sostiene il peso del proprio destino che si abbatte su di lui, e ci riesce, anche se talvolta solo in parte, senza ribellarsi. Sofocle e Seferis vedono il mondo pieno di infelicità, di profondo pessimismo e solitudine: e solo in sé, nella propria dignità, l'uomo può trovare l'unico conforto. Nelle loro pagine leggiamo la tragedia umana che aspetta, come quella antica, l'arrivo di un Nunzio che con le notizie che porta può capovolgere la nostra esistenza, perché "noi non sappiamo nulla, non sappiamo d'essere tutti, tutti quanti noi, solo marittimi in disarmo/ non sappiamo l'amaro del porto, quando tutte le navi sono in viaggio / ... / Intanto la Grecia viaggia, viaggia sempre/ e se 'fiorire vediamo l'Egeo di morti'/ sono/ .../ quelli stanchi di attendere le navi che non salpano". 51

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