Linea d'ombra - anno XI - n. 83 - giugno 1993

FIABA DALLE COLLINE DEI RIFIUTI Latife Tekin a cura di Sema Postacioglu Latife Tekin, nata nel 1957 in un villaggio della provincia di Kayseri,vive a Istanbul e scrive romanzi e sceneggiature. I suoi quattro romanzi finora usciti, Sevgili Arsiz Olum (1983), pubblicato anche in italiano ( Cara spudorata morte, Giunti 1988), Berci Kristin çop Masaliari ( 1984,di cui pubblichiamo qui alcune pagine), Gece Dersleri (Prediche notturne, 1986) e Buzdan Kiliçlar (Spade di ghiaccio, 1989), hanno riferimenti abbastanza precisi alle varie fasi della sua vita. Il primo, un romanzo autobiografico, attraverso gli occhi e le fantasie di una ragazzina con la quale la voce narrante si identifica, ripercorre l'infanzia al villaggio e la prima adolescenza bruscamente spezzata dall'immigrazione nella metropoli. Il secondo, avvolto in un mondo immaginario e fiabesco, non·ha più come soggetto una singola famiglia o persona appena trapiantata incittà, ma racconta la nascitae il fiorire dal nulladi una baraccopoli che diventa in breve tempo parte integrante della metropoli stessa. I personaggi, veri e propri artisti di sopravvivenza, variano da una fiaba all'altra per accentuare l'evoluzione energica e frenetica del quartiere come un organismo. Qui non c'è tempo per perdersi nelle spiegazioni o nelle analisi. La vita travolge sentimenti e ogni forma di sentimentalismo. Tutto diventa AZIONE. E la lingua non è che il mezzo per accelerare la spinta a conquistare un'esistenza tanto precaria quanto improvvisata. Nel terzo romanzo assistiamo invece alle confessioni, ai giudizi, e alle critiche di una ex-rivoluzionaria militante, che conclude la fase più strettamente autobiografica dell'opera di Latife Tekin. Nel suo ultimo romanzo, infatti, pur riprendendo il tema della povertà, al quale l'autrice è stata sempre particolarmente sensibile, sembra più distaccata da ciò che scrive. Sparisce la ragazzina dei primi romanzi che osservava il processo d'inurbazione. Sparisce la narratrice in prima persona del terzo romanzo. Non deve sorprendere se sin dalla prima opera, che le ha portato con un immediato successo internazionale anche molte critiche, Tekin non ha lasciato indifferente nessuno. D'altro canto occorre ricordare che la "diversità" della Tekin non è fine a se stessa, non segue alcuna norma, o alcun trend letterario, ed è priva di retorica. Il suo linguaggio è secco, senza drammaticità, stupore e timidezza. Canti, canzoni, barzellette, ritornelli e risate sono gli elementi indispensabili della stessa esistenza improvvisata, la cui rappresentazione letteraria serve adar voce a chi non è in grado di farsi sentire, a chi esiste come mera moltitudine. Questa precisa scelta tematica e stilistica della Tekin deriva dalla ricerca di una sorta di semplicità disarmante, che si concretizza nel non dare niente per scontato, nel non azzardarsi a rappresentare ciò che non si sa, e soprattutto nel non pretendere di conoscere, di sapere e di comunicare senza memoria. STORIE/TEKIN Una notte d'inverno, sulla collina dove di giorno enormi carri scaricavano i rifiuti della città, alla luce delle lanterne, sorsero otto baracche poco distanti dal mucchio d'immondizia. In mattinata cadde la prima neve. Gli accattoni, giunti di buonora per frugare nei rifiuti, furono i primi a scorgere le baracche rappezzate con cartoni catramati, pali d'impalcatura comprati a credito e scaglie di mattoni portate dal mattonificio su carretti trascinati da cavalli. Senza neppure togliersi dalla schiena cesti e borsoni, si affrettarono verso le baracche e cominciarono a parlare animatamente con i primi fondatori che vegliavano sulle loro casupole. Le voci erano di continuo tagliate da un forte vento gelido che sembrava volersi portar via le baracche. Gli accattoni dissero che con muri storti e tetti provvisori non avrebbero retto alla furia del vento. I primi fondatori decisero allora di rafforzare tetti e pareti con corde e pali di sostegno. Già al primo viaggio dei camion dei rifiuti, i venditori ambulanti di simit ali' imbocco della Via Rifiuti vennero a sapere delle otto baracche sulla cima della collina e dalle loro bocche la notizia si propagò ai caffè, alle officine di riparazioni e alle botteghe del circondario. Non era ancora mezzogiorno quando una folla fitta come la neve cominciò a ricoprire la collina. Fattorini e venditori ambulanti di tutti generi giunsero con i loro picconi seguiti dai tanti che, lasciato il proprio villaggio, si erano sistemati presso qualche parente e vagavano per le colline attorno alla città in cerca di un posto dove metter su casa. Donne e uomini di ogni età si sparpagliarono ovunque e, ora in ginocchio ora in piedi, iniziarono a prendere le misure servendosi di braccia e gambe. Poi con ipicconi tracciarono per terra basi sbilenche. Al tramonto Via Rifiuti era ormai trasformata in Via dei mattoni, cocci e cartoni catramati. Durante la notte, alla luce delle lanterne, sotto la neve, sorsero altre cento baracche. Il giorno dopo, attorno alla collina, sotto le fabbriche di lampadine e medicinali e di fronte a quella di porcellana, nacque, in grembo ai rifiuti chimici e al fango, un intero quartiere con tetti di bacinelle di plastica, porte fatte di vecchi kilim, tele cerate al posto dei vetri e muri di umidi cocci. In quello stesso giorno le abitazioni si riempirono di oggetti di ogni tipo, bambini del quartiere e donne con sacchi sulle spalle e neonati tra le braccia. Si srotolarono i materassi, si distesero i kilim sui pavimenti di terra. Sui muri fradici si appesero fotografie ingiallite e palline azzurre portafortuna intrecciate a rametti di saggina presi dalle scope. Le culle furono appese tra i pali del tetto e venne aperto un foro sulla parete laterale per la canna fumaria. Ammassati dietro le finestre, gli operai delle fabbriche osservavano ridendo il viavai della gente e dei carretti pieni delle loro povere cose. Per l'intera giornata continuarono le grida di scherno, i fischi e i litigi. Al tramonto, con la stanchezza un pesante torpore calò sulla gente sotto i tetti che sbattevano ad ogni colpo di vento. Prima che gli operai del turno di notte lasciassero le fabbriche, i fondatori del quartiere erano immersi nel sonno. Le macchine delle officine cessarono e le luci si spensero. Tutta la collina sprofondò in un buio pesto. Il vento, dopo la mezzanotte, lambiva le pareti delle baracche; i tetti si slegarono e batterono le ali. Nel sonno anche i bambini nelle culle appese tra i pali dei tetti presero il volo. La gente fu svegliata dai fiocchi di neve che le cadevano sulle 41

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