IL CONTESTO Italia '93: politica/sinistra Una rivoluzione di centro? Meglio di niente · Luigi Robbio Nel giro di un anno è successo in Italia quello che avevamo atteso da sempre, ma che non avevamo osato sperare. È crollato un regime durato mezzo secolo, che ha dispensato benessere e democrazia, ma anche clericalismo, stragi, arroganza e corruzione. È finito nella polvere l'arrembaggio socialista degli anni Ottanta. È perfino arrivata quella "fine di Andreotti" che per anni, nella classifica di "Cuore", ha conteso i primi posti a desideri ben più universali come l'amore e l'amicizia. Fino a due o tre anni fa, nessuno di noi avrebbe scommesso su un tale rovescio. Eppure tra noi, "popolo di sinistra", non vedo sprizzare quella gioia che sarebbe legittimo attendersi. Storciamo il naso. Siamo perplessi, talvolta ostili verso gli alfieri del nuovo. L'unanimismo della "gente" ci insospettisce. Un mio carissimo amico che il sabato era deciso a votare "sì", mi ha confessato il lunedì di aver scelto il "no" all'ultimo momento per contrastare la probabile ondata plebiscitaria. D'altra parte il fronte che si è costituito a sinistra per il "no" al referendum, non si è unito solo su ragioni tattiche (elezioni subito) o su ragioni di merito (la difesa del sistema proporzionale), ma su un rifiuto più generale e strategico del nuovo corso. È come dire: il passato non ci piace, ma il futuro ci piace ancora meno. Se gli anni Ottanta sono stati simili agli anni Trenta, per via del massimo consenso al regime, come suggerisce Goffredo Fofi, il 1993 non sembra assomigliare per nulla al 1945. Altro che vento del nord! Oggi - è sempre Fofi che scrive-,- "non vedo un vero ricambio di facce nella politica ...Dei Mascalzoni continueranno a reggere le reti del potere e della finanza ... Degli Imbecilli (...) continueranno a sostenerli per ioro comodo o interesse". Ci sono naturalmente ottime ragioni per dubitare. Ma non dovremmo spingere il nostro scetticismo fino al punto di non riconoscer~ il carattere epocale della svolta. E dovremmo evitare di giudicarla sulla base di criteri impropri. Il fatto che il cambiamento non avvenga secondo canoni previsti e accettati non significa che non sia uri vero cambiamento e che non dia qualche opportunità in più a tutti noi. Una rivoluzione politica In Italia è in corso una vera e propria rivoluzione politica, nel senso che è in gioco il ricambio della classe politica e la completa ridefinizione del sistema dei partiti uscito dalla resistenza (non è una rivoluzione sociale anche se qualcuno potrebbe osservare che i ceti medi vi hanno un ruolo preponderante). Si tratta di una rivoluzione anomala rispetto agli esempi del passato (e quindi poco riconoscibile), ma niente affatto anomala rispetto alle rivoluzioni contemporanee. Assomiglia infatti molto da vicino agli 4 sconquassi che hanno seguito il crollo del comunismo in Russia e nei paesi dell'Europa orientale. È stato notato spesso negli ultimi tempi che il sistema politico italiano era - tra i sistemi politici occidentali - quello più segnato dalla guerra fredda e quello più imparentato (con tutte le debite differenze) con i regimi dell'Est: basti pensare alla fissità del potere, alla diffusione delle imprese statali, all'esistenza di una nomenklatura e al ruolo essenziale del sostegno di una superpotenza. Non abbiamo detto per tanti anni che l'Italia era la Bulgaria della Nato? Ebbene il regime italiano è crollato, come i regimi dell'Est, più per autoconsunzione interna o per il venir meno dei consueti puntelli (come quello americano), che sotto una spinta rivoluzionaria. Si è afflosciato senza opporre una vera resistenza. Non è caduto come un argine travolto dall'onda di piena, ma piuttosto come la torre di Pavia che dà un giorno all'altro è rovinata al suolo per conto suo. È una rivoluzione senza un soggetto rivoluzionario. Un 25 aprile senza partigiani. O, potremmo dire, un 25 luglio (ma senza i drammi della guerra). Il vecchio regime è caduto, ma non c'è un nuovo regime che sia pronto a sostituirlo. Non c'è una nuova classe politica, forgiata dall'opposizione e dalla resistenza. Il vecchio è noto ma debole, il nuovo è forte ma sbiadito. Una rivoluzione di centro Negli anni Settanta avevamo pensato che il regime sarebbe caduto da sinistra (il governo delle sinistre) o da destra (il golpe). Nel primo caso ci saremmo rallegrati, nel secondo saremmo rimasti terrorizzati, ma in entrambi i casi avremmo capito quello che stava succedendo. Avremmo avuto strumenti concettuali per aderire o combattere. E invece il regime è caduto dal centro. E la cosa ci ha colto impreparati. Mentre le rivoluzioni di sinistra e quelle di destra sono state ampiamente studiate e se ne conoscono più o meno le dinamiche, poco si sa delle rivoluzioni di centro. Ma questo è se mai un motivo in più per interrogarci sul significato degli avvenimenti e cercare di comprenderne il senso, prima di giudicare. E per chiederci se ci sono buoni motivi perché le cose siano andate proprio così. Il processo in corso in questi mesi ricalca da vicino e in modo speculare (e forse non poteva essere altrimenti) una tipica caratteristica del sistema politico italiano: la sua gravitazione attorno a un grande centro. Una volta svanito il periodo più duro della guerra fredda e la conseguente polarizzazione Dc-sinistra (corrispondente alla po_larizzazioneinternazionale Ovest-Est), il sistema politico italiano si era progressivamente configurato in modo centripeto, come aveva visto Paolo Fameti. Invece di strutturarsi su due poli in competizione tra dt loro, come la maggior parte delle altre democrazie europee, aveva finito per organizzarsi in cerchi concentrici, tutti gravitanti attorno al grande attrattore: la Democrazia cristiana. Le ali si erano indebolite ed erano state indotte a pratiche consociative. Gli anni Ottanta avevano poi segnato il trionfo del modello centripeto con quella sorta di osmosi-competizione sul medesimo terreno tra Psi e Dc che
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