Linea d'ombra - anno XI - n. 83 - giugno 1993

CONFRONTI seconda metà degli anni Settanta, in parte dischiusa dalla Storia della Morante e da Porci con le ali, poi alimentata dai movimenti giovanili (il '77) e dal fiorire di una letteratura "selvaggia" o "spiazzata" (volantini, lettere a "Lotta continua", poesie d'occasione) e dall'esplosione di un bisogno di narratività a lungo e silenziosamente compresso, dopo un decennio di "impegni" ricattatori, di strapotere della saggistica e di teorie letterarie intimidatorie. I romanzi di quegli anni scritti da autori giovani appartengono a universi culturali (generi, stili, pubblici, mercati, e anchebisogni conoscitivi) troppo lontani da quellodel Nome della rosa. Forse questa vistosa ripresa narrativa potrà apparire per molti aspetti deludente in rapporto alle aspettative (ovvero: raccontare le trasformazioni della sensibilità- o dell'insensibilità - le nuove forme di rifiuto, di utopia, di conformismo, le mutate condizioni dell'esperienza, i comportamenti delle giovani generazioni, nel momento in cui nessuno sembrava in grado di farlo), ma questo è un altro discorso, e non deve farci dimenticare appunto il tipo di aspettative (e pròmesse) che presiedono alla genesi del fenomeno. 3) In questo senso alle vecchie totalità e visioni del mondo, troppo ideologiche, rassicuranti, ma prive ormai di ogni presa conoscitiva, è subentrata in quegli anni non la mitologia del mercato ma la voglia di raccontare, di testimoniare il vissuto individuale, l'esperienza personale (magari con sbracamenti sentimentali, autobiografismi incontenibili, mitologie della devianza, ecc.: voglio dire però che alla Militanza, spesso volontaristica e coatta, si contrappone in quegli anni non solo il cosiddetto Riflusso, ma un impegno diverso e forse più autentico). 4) Sul presunto feticcio della Leggibilità, del Mercato, della Circolazione. Innanzitutto vorrei ricordare, anche qui, che nel deprecato mercato culturale ci siamo tutti, ciascuno alla ricerca ansiosa di autovalorizzazione (il punto è vedere quanto sia dominante questa preoccupazione). E poi contro stanche remore neoàvanguardistiche bisogna ricordare che la leggibilità non è in sé un disvalore. Forse Spinazzola esagera a parlare trionfalmente di espansione della democrazia letteraria, dando un segno unicamente positivo a fenomeni assai ambigui (come l'acculturazione e alfabetizzazione di massa). Sappiamo come in questa alfabetizzazione forzata (peraltro irreversibile) si fa strada un prepotente bisogno consumistico e nevrotico di cultura (e insomma la "democrazia letteraria" è più una difficile scommessa - contro analfabetismi di ritorno, contro lo svuotamento della cultura a ornamento e citazione - che un processo in corso). Ma tutto questo non dovrebbe diminuire il valore di una ritrovata comunicatività, di una discorsività narrativa, che nel nostro paese dai tempi del "frammentismo" è sempre stata guardata con sospetto. Certo, la produzione pletorica, sovrabbondante, dei giovani autori rappresenta qualcosa di anomalo, dipendente da logiche mercantili. Ed è altresì vero che una certa assenza di sperimentazione, un "tasso di artifici retorici sempre alquanto modesto" caratterizza la narrativa contemporanea ed è segno di impoverimento (la "ricerca" o manipolazione riguarda perlopiù le strutture macronarrative e non lessico o sintassi). Non isolerei però il problema del linguaggio da tutto il resto, soprattutto in una letteratura come la nostra in cui, come è stato detto, gli autori hanno sempre molto da "scrivere" e poco da raccontare (è anche perché da noi mancano i Ballard e Crichton che la "leggibilità" diventa banalizzazione). 5) Soprattutto vorrei dire che il fantasma, o stella polare o mitologia più influente per questa nuova leva di narratori, è stato (ed è) quello della Letteratura, dell'Arte, e non del Mercato: si pensa cioè ingenuamente di "salvarsi" (dalla mediocrità, dall'omologazione, dal non-senso) attraverso una tempestiva coop22 tazione nell'empireo dorato delle Lettere, a fianco a fianco con i grandi del passato. 6) Sembra che Giovanardi voglia rimproverare agli scrittori la eccessiva passività o debolezza quasi "oggettuale" dei protagonisti (Lodoli, Veronesi): insomma torna l'antica accusa di tiepidezza, di assenza di motivazioni profonde, di anemia, di pseudotrasgressività, di un eccesso di prudenza e di consapevolezza letteraria ("un'architettura pensata e rifinita nei dettagli") curiosamente intrecciata ad una "mancanza di controllo del materiale linguistico". Ma il punto è proprio quello di riuscire a rappresentare quella passività, quella indeterminatezza, in tutti i suoi molteplici effetti, senza inventarsi narrative "forti", identità estremiste posticce o muse improbabili (ad esempio i modelli, molto popolari tra questi autori, di Pasolini e Celine). Insomma i nostri scrittorinon dovrebbero apparire troppo diversi da quello che sono, ma anzi mostrarsi "onestamente" e senza intingimenti, perfino nell'italianissima vocazione al mimetismo e alla clownerie, al melodramma e al manierismo (non è un caso che sempre più spesso si indichi in Fellini uno dei nostri grandi narratori di questo secolo). Non stigmatizzerei dunque la "natura proteiforme della fisionomia letteraria di De Carlo", proprio perché rappresenta, mi pare, la sua cifra più vera e vitale (mentre quando fa il moralista, credendoci troppo, risulta meno convincente). E, in questo senso, è a mio avviso criticabile Busi non tanto per la sua incontinenza narcisistica, ma per il suo desiderio di dissimulare stanchezza di ispirazione e perdita di vitalità con storie troppo "piene" e troppo rumorose; ed è al riguardo istruttiva la parabola della Capriolo, che fa entrare e uscire i suoi personaggi da alberghi mitteleuropei sontuosi e fatiscenti, tra Mann e Kafka, e scopre alla fine, come per un'attrazione fatale, il fascino discreto dell'opera verista di · Puccini ... Anche l'enfasi posta da Giovanardi sull'assenza (in questa narrativa) di "nemici da combattere" o di "ostacoli da superare", andrebbe forse riformulata: ho l'impressione che i giovani scrittori italiani di questi anni possono essere caratterizzati proprio per un imbrigliamento-addomesticamento di conflitti e problemi, per una morbida esorcizzazione di nemici e scelte irrevocabili (che è poi, ripeto, una attitudine tipicamente e squisitamente italiana, prima ancora di essere una insufficienza diciamo "etica"). 7) In definitiva il limite principale dell'argomentazione di Giovanardi consiste nel distanzi.are troppo l'oggetto della sua meditazione critica. No, non si tratta di una galassia, lontana anniluce, o di una popolazione primitiva da studiare con scrupolosità etnologica. A quella sorda "condanna ad esserci" (ripetuta letteralmente negli slogan e nei manifesti pubblicitari delle nostre città non siamo estranei. Dico non siamo estranei tutti noi, generazione narcisistica, così fragili, privi di centro e di radici: non possiamo e non sappiamo più "essere", e allora vogliamo disperatamente "esserci", riconosciuti e certificati dagli altri. Invisibilità e solitudine non sono più tollerate. Tutto questo può sembrarci (ed anzi è) terribile, desolante, ecc; non dobbiamo però fingere che non ci interessi da vicino e magari contare su interiorità insondabili, su piccole comunità e solidi nuclei affettivi che ci restituiscano un'identità meno precaria, sulla quiete silenziosa e protettiva di coni d'ombra, su interstizi letterari suggestivi (l'elogio dell'appartatezza di un Salinger o di un Pynchon fatto dall'accanito presenzialista è ogg1una delle figure più tristemente diffuse ...). Possiamo legittimamente provare nostalgia per quei "coni d'ombra", ma il solo farne oggetto di discussione dà la misura della nostra posizione di epigoni. In fondo sarebbe già un bel risultato, per i nostri scrittori, mostrare tutta l'irrealtà di questo "esserci" e insieme la sua ineluttabilità, senza occultarlo e senza nobilitarlo.

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