Linea d'ombra - anno XI - n. 83 - giugno 1993

di fatto la possibilità di trasformare la realtà attraverso il potere del linguaggio, cui si allude nel romanzo, abortisce tragicamente nel racconto della zitella sudafricana che si limita, come i suoi connazionali bianchi, a "sognare allegorie di desideri frustrati che fortunatamente noi;isiamo in grado di comprendere". Se Magda è l'io bloccato del Sudafrica, incapace di cambiare la propria storia, allora le storie che compongono il suo lungo monologo possono essere lette come un'allegoria della situazione sudafricana. È pur vero, tuttavia, che Coetzee non disgiunge mai i problemi del suo paese da un discorso più ampio sulla natura dell'oppressione e del potere, che non a caso trova qui espressione in una voce che è intimamente, sorprendentemente, e quasi paranoicamente, femminile. Il problema fondamentale dell'io narrante del romanzo è la comunicazione. Dal profondo del suo isolamento, Magda muore dalla voglia di comunicare con suo padre, con il loro servo nero e con la giovane moglie di lui, ma qon sa e non può farlo, perché i mezzi a sua disposizione sono inadeguati. La donna è consapevole del fatto che lo scambio comunicativo con chi le sta vicino dipende dalla creazione di un linguaggio nuovo (e quindi di una nuova realtà) che si sostituisca a quello antico del colono bianco: CONFRONTI "La lingua che dovrebbe intercorrere tra me e questa gente è stata sconvolta da mio padre e non può più essere recuperata. Quella che ci scambiamo ora è una parodia. Sono nata nella lingua della gerarchia, della distanza e della prospettiva. Era la mia lingua-padre ... Non ci sono più parole di cui mi fidi". Tuttavia, l'io desiderante di Magda non riesce a trovare parole nuove, né interlocutori disposti ad ascoltarla; il suo discorso resta un monologo, gli altri rimangono tanto lontani quanto enigmatici. Nemmeno la Storia, quella che lei chiama "arte della memoria", le può venire in soccorso, perché l'unico segno del passato che le è rimasto addosso è quello del rapporto con il deserto, con la solitudine e l'assenza; e anche la sua cultura, che puzza di carta stampata e non ha la fragranza della voce umana che racconta storie (come nella tradizione africana), è inutile e inutilizzabile. Tagliata fuori dalla comunità degli uomini e dalla storia, la bianca della fattoria sudafricana si narra (o si immagina) in una serie di rapporti sessuali, caratterizzati da masochismo e insoddisfazione, che simboleggiano il suo tentativo fallimentare di entrare in contatto con gli altri. Il rapporto incestuoso con il padre denota fin dal!' inizio un'incapacità di instaura~ re un dialogo con persone diverse da sé, che si tradurrà poi nella violenza fisica dello stupro e nel boicottaggio linguistico attuati dal servo nero, che notte dopo notte immette rabbia e silenzio nel ventre di Magda. Mentre nel monologo si fa strada la convinzione che "non è la parola che fa dell'uomo un uomo, ma la parola degli altri", e si afferma con forza la necessità di trovare un'alternativa ali' opposizione fra Sé e Altro ("Il medio, la linea mediana - ecco cosa volevo essere! Né padrone né schiavo, né genitore né figlio, ma il ponte tra di loro, per riconciliare in me i contrari"), Magda appare sempre più come un essere umano dimezzato, farneticante, impigliato nella sua stessa rete di contraddizioni, arrivato ali' impasse. La voce femminile, desiderante e impotente, della figlia dellà colonia, che ha provato ad amare il padre-lingua-autorità-legge per poter vivere e, alternativamente, ha immaginato di ucciderlo per poter rinascere, invita il lettore a un'analisi attenta della complessità dei rapporti di potere, e dà al contempo espressione lirica al blocco psicologico e politico vissuto dal bianco sudafricano, che come Magda è convinto della possibilità di continuare a vivere nel suo "paradiso", ma che per il momento deve fare i conti con il "giardino pietrificato" del deserto di Coetzee. I Tiepide condanne A proposito della gioventù scrivente Filippo La Porta Al termine di una severa disamina apparsa su "Leggere" (Gioventù bruciata, n. 48, marzo 1993) Stefano Giovanardi conclude che la condizione di cui si fa interprete la giovane narrativa italiana è soprattutto quella di una "condanna ad esserci". E dichiara, conseguentemente, di essere preso da grave sconcerto. Prima di risalire lungo la sua argomentazione dico subito che il mio sconcerto non è minore, e anzi le conclusioni di Giovanardi mi sembra pecchino per difetto (e per autoindulgenza). Credo cioè che quella "condanna ad esserci" riguardi fatalmente tutti noi (lettori comuni, critici militanti, cittadini ecc.), e non solo i giovani scrittori (che anzi dovrebbero farne oggetto di narrazione, ironica o risentita). Dunque, Giovanardi dice varie cose sui "giovani narratori degli anni Ottanta", alcune molto condivisibili e anzi storiograficamente preziose, altre divenute ormai moneta corrente dello sguardo critico su quel periodo, ed altre ancora che mi sembrano fuorvianti. Ma proviamo, per comodità, a riassumere in alcuni punti gli aspetti e i passaggi decisivi del suo ragionamento e a tentare alcune correzioni di tiro. 1) È certamente vero, e non del tutto scontato, che "sotto quell'etichetta hanno circolato autori poco più che ventenni come ultraquarantenni, con backgrounds culturali e letterari diversissimi": insomma non solo non è riscontrabile alcuna poetica o tendenza letteraria comune, ma a ben vedere non si tratta nemmeno di una generazione di coetanei. Ed è anche incontestabile che tra questi scrittori si è presto sviluppata "una solidarietà di casta su null'altro basata se non sull'interesse comune di gestire al meglio un'insperata fortuna". Insomma l'etichetta di "giovane narrativa", rifiutata in modi stizzosi e sdegnati dagli stessi protagonisti, è stata tempestivamente utilizzata proprio da questi per autopromuoversi e autoinvestirsi ("passaggi televisivi", "inchieste giornalistiche", "premi letterari"). 2) Nutro invece qualche dubbio sul presunto effetto trascinante, o semplicemente trainante, che avrebbe avuto sulla nostra editoria, tradizionalmente pavida, il successo planetario (giusto all'inizio degli anni Ottanta) del Nome della rosa. Questa stessa tesi è stata formulata, in modo meno sintetico, da Stefano Tani nel suo meticoloso ed esaustivo Romanza di ritomo (Mursia), e certo ha l'indubbio pregio di spiegare persuasivamente ogni cosa. Ma non credo si possa dedurre la letteratura dalla letteratura stessa, o comunque restando entro i confini dell'industria culturale, ricorrendo cioè a fattori esclusivamente endogeni. Soprattutto nelle pagine di Tani, pur così puntuali nella documentazione, aleggia una vaga teoria del complotto (ricordate il Piano del Capitale?), per cui tutto si ridurrebbe a uffici-stampa, strategie editoriali, marketing e calcoli di target. Il romanzo dell'esordiente Eco in realtà sembrò segnalare ai riostri poco immaginosi editori la possibilità di un filone letterario nuovo e particolarmente redditizio: il romanzo storico-poliziesco fatto da scrittori-professori. Ma questo filone si rivelò quasi 'subito meno fertile del previsto (ricordo il fallimento del romanzo coevo di Vittorio Saltini), e comunque è proseguito fino ad oggi con alterne fortune e in differenti versioni (ad esempio il romanzo neostorico ). La ripresa della narrativa comincia invece nella società italiana già nella 21

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