IL CONTESTO Un'intenzionale ambiguità Incontro con Hans Magnus Enzensberger a cura di Filippo La Porta In occasione della presentazione a Roma del suo ultimo libro tradotto in italiano, La grande migrazione (Einaudi, a cura di Paola Sorge), abbiamo incontrato H.M. Enzensberger e gli abbiamo rivolto alcune domande su un tema ricorrente nella sua opera: gli intellettuali (trasformazione di status, perdita del privilegio, presunti doveri, rapporto con i media). Un tema che appare solo sfiorato in questo pamphlet sul razzismo e sulla xenofobia in Germania (e altrove). Nelle nostre società, dominate dalla piccola borghesia alfabetizzata, l'intelligenza è quasi un obbligo sociale, unico valore superstite nel crepuscolo degli idoli. Tutti vogliono essere o almeno sembrare intelligenti. Ma le cose stanno proprio così? E poi: di che tipo di intelligenza si tratta? C'è un aspetto importante della faccenda legato al mercato del lavoro, che privilegia certe qualità come 1ajlessibilità, che per me è invece un valore molto relativo. Una persona capace di essere flessibile guadagna molti più soldi di chi non lo è. La mia ipotesi sarebbe che questo vale anche per un certo tipo di intelligenza.oggi molto diffusa, come facoltà di captare l'occasione, di fare la cosa giusta al momento giusto: un'intelligenza che definirei occasionale. Tra le molte definizioni correnti di intellettuale vorrei proporle questa (che tiene conto soprattutto dello strapotere dei media): è tale non chi possiede una tecnica o una competenza specifica ma chiunque "fa opinione" (Gullit che parla dell'apartheid o Sting che parla degli indios). Ora, il fatto che un calciatore è un intellettuale (così come Musil notava che oggi "genio" si dice di un boxeur o di un cavallo da corsa) le sembra un fatto emancipativo o le crea disagio? Il punto è proprio quello della relazione di queste voci con i media. C'è come una specializzazione di certe voci, che diventano pubbliche in quanto hanno una presenza maniacale, una onnipresenza in tutti i canali, in tutti i talk-show, in tutti i giornali ecc. (un fenomeno largamente presente in Germania e, immagino, anche in Italia). E naturalmente questa è una specializzazione che non c'entra tanto con la facoltà cognitiva. Assistiamo insomma a un particolare sviluppo della divisione del lavoro. Sarebbe auspicabile avere nelle Pagine gialle una categoria a sé - che chiameremo "sofista"-, cioè una persona che posso invitare a una trasmissione, a una tavola-rotonda, a un qualche dibattito su un certo tema, in cambio di un previsto gettone, di un regolare compenso. E questa persona dovrebbe essere in grado, diciamo tra una settimana, con l'ausilio di una banca-dati, di una bibliografia rapida ecc., di intervenire su quel tema, disponendo s1intende di una retorica adeguata, "televisiva". Insomma si tratterebbe di una professione come tutte le altre. ' Si dice che la cultura critica, d'opposizione è morta (non si sa più bene su cosa potrebbe appoggiarsi), che gli intellettuali non sono più in grado di giudicare la società. Ma questa funzione critica della cultura si può oggi in qualche modo riaffermare? Credo che in questa presunta funzione critica, trasformatrice, assegnata alla cultura, ci sia una evidente esagerazione, una grande e nobile illusione, che riguarda soprattutto il carattere maggioritario che la cultura dovrebbe avere. L'idea marxiana che quando le masse assorbono un'idea, questa si converte in una forza oggettiva, si è rivelata in larga parte illusoria. In questo senso mi va benissimo l'attuale ridimensionamento. Credo al contrario che vada recuperato un lavoro di minoranze. Le minoranze sono una parte essenziale di qualsiasi società. E poi se si volesse proprio stabilire un'etica dell'intelligenza, la prima regola sarebbe: non illudersi. Il concetto di impegno dell'intellettuale, per quanto obsoleto, può essere riformulato, ripreso (ad es. Christopher Lasch ha scritto che lui si sente "obbligato" verso i deboli, i poveri e i diseredati del mondo non in quanto vittime ma in quanto fratelli)? Innanzitutto non credo alla superiorità morale o etica dell' intellettuale, né nel comportamento personale, né nei fatti della vita ... In questa faccenda dell'impegno c'è una parte fittizia, anche qui di illusione su se stessi: ovvero immaginarsi più nobili di ciò che si è. Certo, esistono eccezioni e differenze; ci sono ad esempio intellettuali che hanno .dimostrato una certa assenza di venalità. Ma esiterei nell'attribuire all'intellettuale, che ha essenzialmente un ruolo cognitivo, compiti morali più generali. Forse l'etica dell' intellettuale consiste soprattutto nel cercare di non falsificare il pensiero. Questo è il suo crimine specifico, mentre se per il resto della sua esistenza si comporta magari come un cane, rifiutando di aiutare gli altri ecc., beh, questo può essere condannabile ma non è specifico dell'intellettuale. Non è che noi europei lasciamo agli àmericani, da un po' di tempo a questa parte, i temi generali, rinchiudendoci in tecnicismi o problemi settoriali? Sì, è vero, c'è una tradizione americana in questo senso, idealistica, ma anche ambigua o ingenua (con i suoi aspetti missionari). Qui va registrata una differenza rilevante, e loro ci considerano (e soprattutto considerano gli italiani) cinici assoluti, secondo una vecchia (e mutua) mitologia. Lei descrive molto bene, e da sempre, alcune decisive trasformazioni culturali e del costume, offrendoci attraverso uno stile preciso e divagante diagnosi suggestive e attendibili. Ma, dato che usa spesso il pedale dell'ironia e del paradosso, non sempre si capisce bene come e dove sta. Il suo punto di vista insomma non è sempre chiaramente percepibile, come lo era ad esempio quello di un altro osservatore sociale tendenzioso, Pasolini. Cosa ne pensa? Sì, è così, ma io parto sempre da una premessa che giudico essenziale. Quando cerco di capire una cosa che ha a che fare con il sociale, considero sempre che sono parte della cosa che sto indagando. Se invece facessi il "marziano", l'alieno dalla cosa, non capirei molto. Inoltre ci sarebbe anche il rischio del fariseismo, di pensare cioè di non essere come gli altri, mentre invece io sono .anche come tutti gli altri. Il che impedisce che mi erga a giudice: sarebbe falso, sbagliato, sia dal punto di vista morale che dal punto di vista metodologico. Nel mio farmi solidale con ciò di cui parlo o di cui scrivo (in un modo che può risultare irritante), e nel mio tenermi nello stesso tempo a distanza, c'è insomma una ambiguità intenzionale, e secondo me produttiva. 7
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