cevole. Avrei dovuto riconoscere dall'inizio la frattura filosofica tra me e il giornalista. Due tradizioni, mi sembra, convergono e si rinforzano nell'intervista giornalistica. La prima è di tipo legale: l'intervista è una versione più educata dell'interrogatorio in tribunale o, meglio ancora, l'interrogatorio che un magistrato conduce prima del processo pubblico. La seconda deriva direttamente da Rousseau, credo, ma attinge anche a un filone antico di entusiasmo religioso e alla pratica della psicoterapia: nell'impeto di un discorso improvvisato, il soggetto esprime delle verità sconosciute al suo io sveglio. Il giornalista prende il posto del prete o iatros che estrae il discorso della verità. Per me, d'altro canto, la verità è legata al silenzio, alla riflessione, alla pratica dello scrivere. Il discorso non è una fonte di verità ma una versione esangue e provvisoria dello scrivere. La stoccata di sorpresa effettuata dal magistrato o dall'intervistatore non è uno strumento di verità ma al contrario, un'arma, un segno della natura intrinsecamente oppositiva della transazione. L'intervistatore si allinea con il Lovelace di Richardson, l'uomo che crede che la verità stia all'interno del corpo del soggetto e che con il suo fallospada può trovarla lì. Reazione eccessiva? Paranoia? Filippica paranoica? La lascio a lei senza censura. Ne faccia quel che vuole. Un 'ultima domanda. Lei è ritornato sul problema della reciprocità nel discorso per l'accettazione del Jerusalem Prize, dieci anni dopo lapubblicazione del saggio suAchterberg edi Deserto, in una società che in quel momento (1987) era lacerata dalla violenza forse più che in ogni altro momento della sua storia moderna. Lei ha parlato con trasporto emotivo della storia dal colonialismo all'apartheid, del modo in cui essa ha portato a una letteratura "in servaggio", ma ha anche menzionato il potere rude e irresistibile della storia in Sud Africa. Mi lasci fare un'osservazione che vorrei che lei commentasse: mentre è abbastanza comune per gli scrittori in Sud Africa cercare di rappresentare la storia o le forze storiche, è raro che la storia emerga, come credo che avvenga nelle sue opere, come necessità, come limite assoluto aUa consapevolezza. Cioè, la storia, nelle sue opere, non appare tanto un processo che può essere rappresentato quanto piuttosto una forza che agisce sulla rappresentazione, una forza che è essa stessa in definitiva non rappresentabile. Vista in questa luce, la libertà produttiva dell'atto di scrivere è qualificata al meglio, o provvisoria. Lei ha sollevato questa osservazione alla luce del discorso di Gerusalemme. Perciò vorrei dire qualcosa sul contesto di quel discorso. Il vincitore del Jerusalem Prize prima di me era stato Milan Kundera. Il discorso di Milan Kundera era stato in gran parte un tributo a Cervantes. Leggendo quel discorso, ho creduto di capire come tutti gli altri cosa volesse dire che un ceco scegliesse di parlare di Cervantes a Gerusalemme nel 1985, vale a dire un certo disprezzo nei confronti del ruolo che gli era stato imposto dalla storia (se lo si considera in un senso) o dalla moda (se lo si guarda in un altro senso). (Un decennio prima Kundera aveva affermato, con tono ancora più provocatorio: "Oggi, che la politica è divenuta una religione, io considero il romanzo una delle ultime forme di ateismo".) C'è una parte di me che desidera essere un ateo à la Kundera. INCONTRI/COET.ZEI Anch'io vorrei essere capace di andare a Gerusalemme a parlare di Cervantes. Non perché vedo Kundera, o addirittura Cervantes, come una persona socialmente irresponsabile. Al contrario, vorrei poter essere capace di dire che la prova della loro profonda responsabilità sociale e storica sta nella penetrazione con cui, in modi diversi e a livelli diversi, essi riflettono sulla natura e la crisi del romanzo o del fare narrativa, nelle loro rispettive epoche. Ma - lasciando ora da parte Cervantes, che è su un piano molto diverso - non posso fare quello che fa Kundera (o, per essere giusto nei suoi confronti, quello che lui afferma di stare facendo). Codardia da parte mia? Forse. La storia può essere, come lei afferma, un processo che può essere rappresentato, ma a me sembra più una forza di rappresentazione, e in questo senso, sì, non è rappresentabile. (Non ho mai saputo quanto seriamente prendere l' affermazione "La storia è un incubo dal quale sto cercando di svegliarmi" di Joyce o Stephen Dedalus.) C'è una poesia di Zbigniew Herbert degli anni Sessanta che mi ha profondamente impressionato. Si chiamaFive Men. Cinque prigionieri condannati passano la loro ultima notte a parlare di donne, ricordandosi dei giochi a carte. Il giorno dopo vengono portati fuori e sparati. Herbert scrive: quindi si possono scrivere poesie sui fiori, pastori greci e via dicendo. Una poesia quindi che giustifica le poesie che si allontanano dagli incitamenti all'azione rivoluzionaria. Forse non è una grande poesia - dipende, sebbene non ne sia sicuro, più dalla sua retorica che da una logica poetica che conduce tutto di fronte ad essa - ma l'effetto di quel quindi resta imperioso e trionfante. Cosa mi potrebbe preparare a dire una cosa equivalente? Una fede umanistica profonda come quella di Herbert, suppongo. Ma non ce l'ho. Ma perché ho citato Herbert? Herbert non parla di Storia, ma parla del barbaro, dello spirito del barbaro (incarnato in persone come Stalin) che è quasi la stessa cosa della storia-non-rappresentabile. La forza di Herbert sta nel fatto che lui ha qualcosa da opporre al barbaro, che per gli attuali scopi possiamo chiamare l'umano e il minore, sul quale lui ha le sue riserve ironiche ma dal quale può tracciare una sorta di genealogia che arriva fino al passato europeo. È per questo che Herbert si sente così tanto un europeo e crede, con qualsivoglia copertura e riserva, nella vitalità, la vitalità sociale, della letteratura dei pastori, delle rose e via discorrendo, nel potere della poesia di far nascere quei simboli, che lui può opporre la poesia alla grande bestia carnefice della storia. In Polonia si possono ancora avere queste credenze; e chi, dopo gli eventi del 1989 oserebbe disprezzare il loro potere? Ma in Africa ....? In Polonia si può ancora parlare ai cinque uomini in cella, o ai loro boia nel cortile, indirettamente, attraverso la grata quasi infinita che una comune cultura europea fornisce. In Africa l'unico modo di parlare che si può immaginare è un modo brutalmente diretto una sorta di rappresentazione pura, non mediata; quello che ~stacola l'immaginazione, ~iò c~e spinge ~d affrontare quella stessa cosa, è ciò che io qm chiamo stona. "L'unico modo di parlare che si può immaginare"-:-: un'~ssione di sconfitta. Quindi, il compito diviene quello d11mmagmare questo inimmaginabile, immaginare un modo di parlare che permette al gioco dello scrivere di iniziare. 61
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