INCONTRI/COETZEE L'asprezza della vita in Sud Africa, la forza nuda del suo fascino, la sua durezza e le sue brutalità, la sua fame e la sua collera, la sua avidità e le sue menzogne ... bucolico o antibucolico alla maniera di Cervantes. La sua domanda riguarda l'umanesimo in Sud Africa - che arriva in quanto parte della cultura liberale britannica, poiché sicuramente non è calvinista - e il suo fallimento nel creare una letteratura di rapporti uguali e reciproci. La risposta ovvia deve essere quella per cui il liberalismo britannico non è riuscito a creare rapporti uguali e reciproci, punto - non è riuscito a persuadere i coloni, britannici e olandesi, del fatto che i rapporti uguali e reciproci erano una cosa per cui valeva la pena fare dei sacrifici. Io penso che una strada più interessante da esplorare sarebbe quella di chiedersi ad esempio perché l'amore nel romanzo postmoderno - dato che stiamo parlando di amore -è trattato come la figura di un rapporto (Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes è I' ars amatoria dell'epoca postmoderna) piuttosto che come un rapporto di per sé. Sarebbe semplicistico dire che le precondizioni sociali per l'amore (ritardo, separazione e via dicendo) non esistono più in Occidente; ma sembra che l'amore, l'innamorarsi siano stati irrevocabilmente storicizzati. Ecco perché Magda è una figura anomala: la sua passione non appartiene al genere in cui lei si trova. E qui mi fermo, ma lei può ben vedere quali implicazioni abbia per me in quanto scrittore. Continuiamo su questo tema: prima lei ha parlato di passione, dell'incapacità della critica di riflettere la passione nella sua pienezza. Qui, lei parla di cosa si è perso nel postmodernismo, una volta abbandonate le risonanze allegoriche, forse senza scopo, ma senza tener conto del se ci piacerebbe o no che le cose rappresentassero se stesse. (Lei parla di storicizzazione del romanza postmoderno: colgo questa affermazione per riferirmi agli effetti distanzianti o contestualizzanti della riflessività.) Questi timori tendono verso un'analoga direzione: il suo lavoro è trasparente per quanto riguarda le convenzioni, ma lei staforse affermando che c'è un certo pathos proprio in questa trasparenza, che risiede nella cultura postmoderna, a cui lei si trova a doversi adeguare? Una consapevolezza storicizzante o, come dice lei, l'effetto distanziante della riflessività, o perfino la testualizzazione - nell'attuale contesto questi sono tutti modi di tracciare lo stesso fenomeno: una consapevolezza, quando ci si accinge a mettere la penna sul foglio, del fatto che si sta mettendo in moto un gioco particolare di significanti ognuno con la sua storia passata di intergioco. Defoe aveva questo tipo di consapevolezza? E Hardy? Ci piace pensare che non la avessero, ma, per così dire, riuscivano ad essere più disinvolti. Ma anche se loro avevano questa consapevolezza, sicuramente non sarà stato difficile per loro lasciarsela dietro, per isolarla in un altro compartimento della mente, mentre si dedicavano ai problemi seriosi di Molle della guardia o di Jude e Arabella. Quindi forse è giusto, come dice lei, considerarlo semplicemente un problema di cultura: loro vivevano in una cultura che permetteva loro di andare avanti con il lavoro, mentre noi no. Da qui il pathos - nel senso banale del termine - della nostra posizione di bambini chiusi nella stanza da gioco, la stanza del gioco testuale, che guardano con desiderio fuori, attraverso le sbarre, al mondo seducente degli adulti, un mondo che ci hanno insegnato a pensare come il mero mondo illusorio del realismo ma che ostinatamente non riusciamo a non pensare come il reale. D'altro canto, ci piacerebbe pensare che sia qualcosa di più sostanzioso di un cambiamento culturale - che, in questo contesto, non significa molto di più che un cambiamento nella modaad avere questo effetto massiccio e in pratica determinante sulla consapevolezza. Qualcosa di più sostanziale storicamente. È il desiderio che quello che agisce su di noi dovrebbe almeno essere parte "sostanziale" di quello stesso desiderio, quel pathos? I bambini di oggi dividono con noi questa malinconia, o sono felici nella stanza da gioco? Solleviamo a questo punto il problema dell'intervista in quanto genere del giornalismo letterario. Con poche eccezioni, le interviste che lei ha concesso e che sono state pubblicate non sembrano ben riuscite. La maggior parte non va oltre un tentativo di chiarimento o di trovarsi d'accordo su alcuni presupposti di fondo intorno allo scambio che avviene (che le rende anche interessanti, ma per ragioni diverse). Cosa è che la preoccupa nelle interviste? L'intervista non è solo quello che lei definisce uno "scambio": è nove volte su dieci (grazie a Dio questo è il decimo caso), uno scambio con uno sconosciuto assoluto, eppure uno sconosciuto che grazie alle convenzioni del genere può attraversare le frontiere di quello che è accettato nelle conversazioni fra sconosciuti. lo non mi considero una figura pubblica, una figura di dominio pubblico. Non amo la violazione di proprietà, per non parlare della violazione dello spazio privato che avviene generalmente durante l'intervista. Ecco la mia prima reazione. Poi c'è l'approssimazione e la mancanza di professionalità e perfino la mancanza di vera curiosità, vero interesse, che si incontra. Giornalisti che danno appena uno sguardo alla fascetta pubblicitaria del tuo libro. Studenti che non si fanno alcun problema di venirti a chiedere cosa intendessi per X o per Y. Accademici stranieri che vengono in Africa con borse di studio e che fanno interviste faccia a faccia ("Qual è secondo lei il ruolo dello scrittore in Sud Africa?" -si possono prevedere le domande insignificanti prima ancora che vengano fatte). Ho parlato di queste cose per scusare, per quanto possa essere scusata, la mia generale irritabilità e la mia mancanza di collaborazione nei confronti degli intervistatori. C'è anche il problema del controllo, il controllo dell'intervista. Gli scrittori usano avere il controllo del testo e non lo abbandonano facilmente. Ma la mia resistenza non è solo il problema di proteggere un'onnipotenza fantasmatica. Scrivere non è espressione libera. Effettivamente è vero che scrivere è dialogico: si tratta di risvegliare le controvoci in se stessi e intraprendere un discorso con loro. Si può misurare la serietà dello scrittore se egli evoca/invoca queste controvoci in se stesso, cioè si ritira dalla posizione di quello che Lacan chiama "il soggetto che sa". Mentre gli intervistatori vogliono un discorso, un flusso di parole. Un discorso che registrano, portano via, censurano, di cui tagliano tutto ciò che non quadra, finché non diventa conforme a un ideale monologico. Se fossi stato previdente, non avrei mai avuto a che fare con i giornalisti sin dall'inizio. Ora è troppo tardi: è circolata ormai la voce, è passata da un giornalista ali' altro, almeno in questo paese, che io sono un cliente evasivo, arrogante e generalmente spia59
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