Linea d'ombra - anno XI - n. 82 - maggio 1993

STORIE/DANIACEW "Quante volte era scappato via da scuola? Due volte? Sì, così le pareva, quando faceva la scuola media. E come era stato felice il capovillaggio. Quanto a lui non sapeva scrivere nemmeno il suo nome e disprezzava la scuola. Diceva che gli avrebbe insegnato a diventare un guerriero come suo padre, il mio adorato marito. Anzi gli offrì persino un lavoro di ufficio per trenta dollari all'anno. Aveva convinto anche me, e ogni volta che mio figlio scappava da scuola litigavo con quelli che venivano a riprenderselo. Rifiutavo di riconsegnarlo e il capovillaggio mi aiutava sempre. Ma poi ho dovuto cedere, era difficile opporsi agli ordini dell'Imperatore. Così vinse lui, il nostro Imperatore, lo fece studiare. Proprio come un padre sovrano! Gli dava da mangiare, da vestire e gli dava persino i soldi per comprare dei regali ai suoi genitori quando veniva a trovarci nella stagione delle piogge!" Cercò un posto per sedersi e cominciò a togliersi le scarpe - si sentì subito molto sollevata. Le piaceva camminare a piedi scalzi e quasi non se ne accorgeva, accarezzati come erano dalla ricca terra scura e dal dolce respiro della campagna. Come tutta l'altra gente del villaggio, aveva fatto la spesa camminando per circa novanta chilometri tra andata e ritorno dalla città. Quando tornava, aveva l'abitudine di sedersi per prendere respiro sotto un gigantesco worka3 che era proprio davanti a casa sua. Qui lentamente scioglieva il fagotto entro cui aveva legato le cose che aveva comprato, e trovava ciò che voleva - qualcosa che riconosceva al tatto - mentre l'aria fresca e sottile le entrava dentro scuotendola da capo a piedi proprio come faceva con l'albero accanto a lei. Le dava un senso di pace. Le faceva spuntare le lacrime agli occhi come la marea fa straripare le pozze tranquille. Era stato mentre era seduta lì, quattro giorni prima, che finalmente aveva stabilito il giorno della partenza. "Sì, anche la casa del Signore, la chiesa di Dio poteva essere danneggiata e distrutta. Non c'era stata proprio la settimana scorsa una frana al cimitero? Proprio così. Per fortuna la tomba dei suoi genitori e quella di suo marito erano rimaste intatte. Ma altre tombe vecchie e nuove si erano aperte e l'odore, specie da quelle nuove, aveva reso il luogo insopportabile per quei pochi che andavano in chiesa ..." Fu svegliata da queste fantasticherie dal guizzo delle luci elettriche che si erano accese tutt'intorno. Mai prima di allora aveva visto una luce così intensa da poter cambiare la notte in giorno e ne fu abbagliata. Era rimasta lì seduta a lungo e la luce sembrava ipnotizzarla; perché invece di renderla consapevole dell'avvicinarsi dell'oscurità, le era sembrato che fosse l'alba del nuovo giorno e questo le fece rimandare il momento in cui si sarebbe messa alla ricerca del posto che lei chiamava "Unberist". II mattino dopo si svegliò contenta, ma si rese subito conto che era accaduto qualcosa di strano durante la notte. "Come è potuto accadere! Come poteva accadere una cosa simile nel posto stesso dove risiede l'Imperatore; dove si trovano tutti i saggi e quelli che fanno le leggi; dove si trovano i trentatre santi? No, no, deve esserci stato un errore; qualcuno deve aver scambiato la mia roba con la sua, però non ha lasciato niente. È possibile che una persona malvagia sia venuta nel buio della notte e l'abbia presa? Ma qui non c'è oscurità; c'è luce dappertutto; è 44 tutto un paradiso. Avrebbe avuto paura di fare una cosa simile perché qualcuno poteva vederlo. Ma forse, sì, così deve essere stato, forse l'ho lasciata sull'autobus. Se è così, non mi devo preoccupare. Sanno di mio figlio; verranno a cercarmi e me la porteranno" si consolò e poi si sentì colpevole. "Dio mio, come sono malvagia. Come ho potuto pensare che una persona cattiva mi ha preso la roba! Perdona i miei peccati. Perdonami perché non sapevo quello che facevo." Così pregò. Nella borsa c'erano i suoi due abiti migliori, quelli che voleva indossare nella città dell'Imperatore. Le restava solo il vestito trasandato che aveva portato in viaggio. Quanto alle scarpe non se ne era neanche accorta. Ma si rattristò quando si accorse che neanche il cibo c'era più - il dabbo kolo e l' annebabero, i piatti preferiti di suo figlio, specialmente se preparati da lei. Se ne era ricordata non appena aveva preso la decisione di fargli visita. L"'Unberist" si rivelò, naturalmente, molto difficile da trovare. La maggior parte delle persone a cui chiedeva diceva di non aver mai sentito di un posto del genere. Passò gran parte della mattinata a cercare qualcuno che potesse saperlo. Finalmente uno studente suggerì la possibilità che poteva trattarsi dell'Università e ve la condusse. Giunta al cancello dell'Università, Yeshet chiese a un guardiano se conosceva suo figlio. "Aberalegn Desta?", il guardiano ripeté il nome senza riconoscerlo. Andò all'ufficio centrale e chiese alle persone giuste. Scoprì che c'era un nuovo docente con quel nome che faceva lezione proprio a quell'ora. Così invitò Yeshet a entrare nel campus e le indicò un buon posto per sedersi in attesa dell'arrivo del suo "unico figlio". "Sì, è mio figlio, è il mio unico figlio", aveva detto al guardiano con orgoglio. Si era sentita anche un po' offesa perché lui non aveva riconosciuto immediatamente il nome di suo figlio. E tuttavia gli aveva perdonato. Dopo tutto, è solo un guardiano, pensò. Ali' ora di colazione molti giovani che portavano "strisce di stoffa colorata intorno al collo" uscirono dal cancello che lei teneva sotto osservazione. Ma nessuno somigliava a suo figlio. Fu sul punto di abbandonare ogni speranza quando da ultimo uscì un gruppetto di tre bianchi e due etiopi infervorati in una discussione animata. "Sì, sì, abbiamo la nostra cultura, i nostri valori e il potenziale del nostro paese. Ciò di cui abbiamo bisogno è l'equilibrio tra il vecchio e il nuovo. II nostro stile di vita dovrebbe emergere dalle esperienze passate della nostra comunità. Certo, non voglio dire che dovremmo restare in adorazione di quello che hanno fatto i nostri padri" diceva Aberalegn a voce alta. "Così parlano gli intellettuali" sbuffò l'altro etiope. "Sono stufo delle tue teorie da bar, Aberalegn" aggiunse mentre entrava in macchina. Yeshet li guardava parlare mentre si dirigevano verso le macchine. Passarono oltre il punto in cui era seduta. "Come parlano bene la lingua deiferenj", pensò. Il custode, che aveva ormai imparato a collegare il nome con il volto, le si fece incontro e le indicò Aberalegn che stava per entrare in macchina. Yeshet quasi fece un salto, voleva correre, dirgli che era lì, sua madre, quando notò il suo bel vestito, e il

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