IL CONTESTO Il drago cinese, pronto all'attacco Francesco Sisci Il drago è tornato. Sbuffa fumo, agita la coda, alza le zampe pronto ad attaccare. La Cina non è più paese del terzo mondo, se mai lo è stato; gli economisti di Pechino suffragati da studi australiani, ipotesi della Cia e dal verdetto dell'"Economist" sostengono che il volume della loro economia è grossomodo quello della Germania unificata. Con una differenza: laGermania vanta oggi una crescita zero ed è impelagata in guai di cui per ora non si vede la fine, la Cina corre a un tasso di crescita annuo del 10 per cento del suo prodotto interno lordo (Pil). A questa velocità nel 2000 Pechino sarà la capitale del paese complessivamente più ricco del mondo, che tra il 2010 e il 2020 potrebbe da solo produrre quanto I' 80 per cento dei paesi dell' Ocse (paesi occidentali sviluppati) messi insieme. Certo, in molti ambienti si nutrono dubbi sulla sua capacità di mantenere simili ritmi di crescita, dopo già 15anni di questa corsa. Del resto simili dubbi sono presenti da tempo e sono vecchi di almeno 10 anni. Nel 1982, ad esempio, l"'Economist" e il Fondo monetario internazionale (Fmi) ritenevano che nel 2010, con un tasso di crescita del 7 per cento, laCina avrebbe superato il Pii della Francia. Ma le fonti già allora dubitavano che la Cina sarebbe riuscita a mantenere questo tasso di crescita. In realtà negli anni seguenti il tasso aumentò fino ad arrivare a punte di oltre il 12 per cento, mantenendosi mediamente al di sopra dell'8 per cento. Inoltre, con l'apertura all'Occidente gli uomini delle statistiche cinesi hanno scoperto che il loro modo di tenere i conti dello stato era impreciso e inefficiente. Per esempio, se il prezzo del carbone lo si calcola in base alla tariffa, calmierata, fissata dallo stato, i conti totali saranno molto più bassi che se si calcola il prezzo internazionale del carbone. Questi calcoli sono poi confermati da indici comparativi che guardano al volume pro capite di una serie di beni, da valutazioni indicative dell'enorme economia sommersa e dal volume delle esportazioni in proporzione a una grandezza indicativa del mercato interno. Nulla di certo, sì, sì... ma un'occhiata a qualche altro dato per piacere. Nel 1992 gli investimenti stranieri hanno toccato la cifra record di circa 11,3 miliardi di dollari. Una cifra enorme visto quello che si cerca di raccattare con sforzi giganteschi per non far precipitare la Russia nel baratro. E sono cifre ancora più grandi se appena scomposte per la loro origine. Quattro miliardi vengono da Hong Kong e i 3/4 degli altri sette miliardi vengono da Taiwan e dalle comunità cinesi dell'Asia orientale, l'area che in questi depressi inizi di anni Novanta è diventata la locomotiva del mondo. . È la ~ontrotendenza rispetto ai crucci del resto del globo che unpressiona e soprattutto la tendenza crescente dell'Asia orientale ingener~e ~~ella Cina inparticolare a risucchiare per investimenti o_sempl!ce spec~lazione" finanziaria i capitali ormai in libera ctrColazionesul pianeta, non frenati da alcuna barriera statuale o di ordinamento bancario. È ancora da calcolare esattamente quanti miliardi di d li . . 0 an siano emigrati verso Tokyo durante la tempesta valutaria del settembre 1992, attratti dagli alti rendimenti dello yen. Certo che la recente rivalutazione di circa il 50 per 2 cento dello yen rispetto alla lira indica la direzione di un enorme flusso di denaro dall'Italia al Giappone. Per quanto possa apparire paradossale, la decisa impennata dell'economia cinese è cominciata dopo Tienanmen. Da quel momento è iniziata lapolitica del governo che scambiava consenso per il vertice contro libertà d'impresa e soprattutto nel giro di qualche mese cominciava quasi in silenzio un processo di privatizzazione reale dell'industria statale tramite la vendita diretta o occulta di azioni di fabbriche e aziende. Era la grande corsa all'azione che nel 1991 aveva percorso come una tempesta l'economia cinese, spingendola a crescere di nuovo a tassi superiori al 10 per cento annuo. Il 18 giugno '92 la People's Bank of China avvertiva che bisognava far cessare la "cieca follia" della corsa all'acquisto di azioni. Molti funzionari della banca centrale pensavano che si era già andati troppo oltre, e troppo veloci in qùesta storia della vendita di azioni. La banca per la prima volta riconosceva apertamente di non avere una legislazione adeguata per affrontare la rapida espansione del commercio di titoli. In un primo momento le azioni dovevano essere vendute solo dallo stato e poi non potevano essere ulteriormente cedute. In realtà ben presto il mercato secondario delle azioni era cresciuto a dismisura. La corsa all'azione e l'apertura di borsini semilegali in praticamente tutte le provincie non poteva promettere niente di buono in termini di stabilità e di futuro assetto del paese: e se qualcuno aveva già concentrato, o stava concentrando un grande numero di azioni nelle sue mani? Non diventava un potere alternativo a quello dello stato? E poi, si poteva un domani confiscare a comando anche un solo gruppo di azioni senza far precipitare nel panico il mercato? Il mercato? E che gliene importa allo stato? No, perché lo stato aveva troppo da guadagnarci: per quanto le azioni fossero gravide di rischi futuri, sul momento apparivano come il modo più indolore ed efficace di prelevare ampie fette dell'enorme sacca di risparmio privato senza in pratica cedere nulla in cambio. Il progetto di privatizzare invece su larga scala gli appartamenti delle grandi città era già più pericoloso: nessun vincolo contro una possibile rivendita avrebbe resistito1 e di lì creare un grande potere immobiliare, con il possesso fisico su una ricchezza reale, decine o centinaia di appartamenti a Pechino o Shanghai, appariva molto più direttamente minaccioso. In più la folle corsa all'azione aveva creato un mercato parallelo: c'erano persone che stavano in fila di professione e le triadi, tornate a governare ampi settori e sottosettori dell'economia cinese, si alleavano con poliziotti, si facevano guerra a coltellate per accaparrarsi i preziosi titoli. A Shenzhen, nel 1992, lo stato metteva in vendita non azioni ma biglietti che davano accesso a un sorteggio, uno su dieci di quei biglietti sarebbe stato estratto e il fortunato avrebbe così potuto comprare le azioni. Di fatto lo stato aveva così decuplicato il prezzo dei suoi titoli, dando però la possibilità di sperare a altre nove persone. Crescita disordinata, caotica, piena di interrogativi, ma il
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