CONFRONTI scontrarsi su uno dei luoghi principali della religione yoruba che vuole che ciascuno di noi abbia un fratello gemello, un doppio, nato nella foresta, veicolo delle forze occulte, della magia e del travestimento, ma anche depositario del nostro dolore, delle nostre colpe e dei nostri peccati. Quando Mefistofele spiega a Faust che non c'è duplicità e che lui, così come il suo dio, è uno e uno solo, Faust evoca ancora una volta Eshu che appare nuovamente all'altare. La terza e ultima parte dello spettacolo ritrae una battaglia fra Eshu e Mefistofele dalla quale Eshu uscirà vincitore. Dal la struttura di base ripeti tiva e realmente semplice, Eshu 's Faust si rivela invece estremamente complesso dal punto di vista drammatico. Diversamente dal Faust di Marlowe·, o di Goethe, il fulcro dello spettacolo è costituito dall'intreccio di diverse nozioni di identità e dallo scontro fra vari piani di composizione del reale. La personalità dei personaggi principali e di quelli secondari sono ad esempio fra di loro speculari, così come sono speculari gli itinerari scenici degli attori, la cui astratta rarefazione e la cui simmetrica precisione ricordano il funzionamento di un meccanismo a orologeria. In Eshu 's Faust la cultura occidentale e quella africana non si scontrano solamente a livello contenutistico, ma anche a livello linguistico e artistico: mentre infatti i personaggi secondari e Mefistofele parlano un inglese impeccabile, Faust ha un forte accento africano; mentre Mefistofele parla, Eshu danza. Eppure vi è un momento all'interno dello spettacolo dove i vari universi artistici della messa in scena sembrano incontrarsi. Il regista Foto di Ivan Klinc. Matthias Gehrt ha identificato in questo momento una delle trasgressioni culturali più emozionanti dello spettacolo: "Si tratta di un istante", racconta Gehrt, "a valore profondamente simbolico. L'organo della cappella sta suonando una fuga di Bach e, all'improvviso, si sente il suono dei tamburi, sempre più forte. È quasi come se l'organo e i tamburi stessero lottando. Ma c'è un momento in cui i due strumenti suonano insieme. Questo momento, che dura solamente un istante, rappresenta per me la magia di questo testo". Lo spettacolo è costruito attorno all'idea della duplicità. La interessante scenografa Gabriele Trinczek, compagna e collabor:atriceabituale del regista dal 1988, ha quindi pensato di costruire una scenografia che riflettesse questa immagine: "Per me", racconta la Trinczek, "è importante costruire dei quadri in cui la gente possa vedere delle storie. In Eshu's Faust, ad esempio, la scenografia è costituita da due croci, una bianca e una blu, gemelle l'una dell'altra. Quella bianca, del colore della religione cristiana, è sospesa, come gli angeli, quella blu, del colore degli yoruba, è distesa per terra come un morbido tappeto. Mentre la croce bianca è stabile ed eterna, quella blu è mobile e temporanea, fatta di polvere e segatura colorata. Quando gli attori iniziano a camminare sulla croce blu il materiale si distribuisce per terra, venendo così a creare una testimonianza dei diversi itinerari scenici che riflettono a loro volta le diverse personalità degli attori". Peter Badejo, che ha interpretato il ruolo di Faust e ha lavorato come coreografo, ballerino, musicista, cantante, attore e regista in Gran Bretagna, America, Africa, India e in Europa dell'Est, oltre a essere fondatore di "Badejo Arts", un ente dedicato alla promozione e allo sviluppo della cultura africana in Gran Bretagna, ha commentato: "È stato interessante lavorare con un cast di diverse nazionalità la cui unica lingua in comune fosse la lingua del teatro. Si sono però presentate delle grosse diversità culturali. Per me, ad esempio, è stato molto difficile soddisfare le richieste del regista per quanto riguarda l'interiorizzazione delle emozioni perché nella mia cultura le emozioni si esprimono fisicamente e non vengono 'interiorizzate'. Un altro elemento di diversità è costituito dalle nostre diverse nozioni di tempo. In Occidente il tempo del teatro è definito dalle leggi di mercato e uno spettacolo deve durare un determinato arco di tempo, non troppo, e non troppo poco. In Africa il senso del tempo è molto diverso, anche se in questo spettacolo offriamo solamente un accenno, una stilizzazione di quello che facciamo nel rituale, ma lo scontro non si è verificato solamente fra la cultura occidentale e quella africana. Koffi, ad esempio, è africano, come me, e nonostante il fatto che entrambi parliamo "graficamente", con la danza, utilizziamo due linguaggi differenti. Mentre i miei movimenti sono curvi, arrotondati, legati l'uno ali' altro, i movimenti di Koffi sono staccati e lineari, il che rappresenta una innovazione anche all'interno della danza rituale della tradizione yoruba". Abbiamo infine incontrato l'interprete di Eshu, Koffi Kòkò, ballerino e coreografo di fama internazionale, collaboratore di Yoshi Oida e Peter Brook a Parigi e fondatore di una scuola di danza e di una compagnia recanti il suo nome, costituite entrambe da ballerini di diverse nazionalità. Giunto alla danza in Benin, all'età di undici anni, attraverso l'iniziazione ai riti vodù e successivamente maestro di cerimonia, Koffi Kòkò racconta a proposito della sua formazione: "A ventinove anni, dopo aver fatto una scuola di danza in Africa, un corso di coreografia e una scuola d'arte drammatica in Costa d'Avorio, sono andato in Francia dove ho seguito dei corsi di danza contemporanea per conoscere e comprendere la storia della danza europea. Per me la danza rappresenta la celebrazione di una situazione spirituale e tutta la mia ispirazione proviene dal patrimonio culturale yoruba. 35
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