Linea d'ombra - anno XI - n. 82 - maggio 1993

propria o quella della moglie Teresa, sempre travagliata e sempre opprimente. Che il padre goda ottima salute, e sia pieno di gioia dopo la bella traversata di un lago, la figlia lo deve sapere da altri. Così alle eterne lagne sulla tosse e sugli insuperabili acciacchi di una coppia di media e lunga vita, fa riscontro la gaiezza, la gioia di vivere e la capacità di sperare di una ragazza afflitta da uno di quei mali che non perdonano" (pp. 28-29). Nel diario, a tu per tu con se stessa, l' immagine di Matilde sostanzialmente non cambia. Anche nei momenti di più intima e sofferta comunicazione, come nel passo datato 24 marzo, osserviamo la stessa capacità di obiettivazione, di dirsi la verità quasi freddamente, anche quando l'autodiagnosi è tale da aprire la porta ad ogni possibile elaborazione narcisistica. Il testo è scritto originariamente in francese; lo citiamo nella traduzione compresa nel volume curato da Garboli: "Tutti i miei malesseri vanno ricondotti alla fragilità nervosa: risento a tal punto di qualunque turbamento fisico o morale che una minima cosa riesce quasi a farmi ammalare! Mi pare che la mia sensibilità si accentui di giorno in giorno e che i miei nervi diventino sempre più irritabili. Ciò che sfiora appena gli altri mi ferisce a sangue e sento il mio scarso coraggio abbandonarmi quando penso che nella vita qualche scossa è inevitabile! Se non riesco a diventare un po' più forte, come farò mai? Ripongo tutta la mia fiducia nel buon Dio, sento che la mia debolezza è estrema! Ci sono momenti in cui una profonda malinconia si impossessa del mio animo, senza che vi sia un solo motivo a giustificare il turbamento che si desta dentro di me. In questi periodi soffro moltissimo! Tutte le sventure del passato, i più piccoli contrattempi del presente e l'orribile incertezza del futuro mi si offrono alla mente con tale immediatezza e mi turbano a tal punto che resto come schiacciata sotto il peso di una nuova sventura" (pp. 171-172). Matilde scoprì Leopardi intorno al 1850. Il libro dei Canti le fu prestato da un giovane di nome Turrini, da identificarsi forse in Giuseppe Turrini. Osserva Garboli: "Un giovane di ventiquattro anni che presta i Canti di Leopardi a una ragazza di venti, alla figlia di Manzoni - niente di più ovvio, ma nessun manuale di storia letteraria ce lo ha mai raccontato, con tutto il parlare che pure s'è fatto e ancora si fa intorno a questa dicotomia, a questo contrapporsi di valori e di persone prime, Manzoni e Leopardi. Un evento che avrebbe potuto succedere, e che sappiamo che è successo" (p. 83). Questo particolare del vissuto, degno di un'invenzioneromanzesca,di un' AntoniaByatt italiana, se ce ne fossero, attrae come una rivelazione l'interesse del curatore. Come si consumò quell'incontro? I "fatti" a nostra disposizione, ricostruiti da Garboli, sono quelli che seguono. Matilde ricopiò buona parte dei CONFRONTI canti leopardiani servendosi di un album e di un quaderno, costituendo un'antologia di uso personale e riversando le proprie impressioni di lettrice, per quel che resta a noi, nel Diario. Si tratta, rileva Garboli, di un referto di lettura di straordinario valore culturale e umano. La lettura di Matilde, una delle più precoci di cui si abbia notizia, è anche unica per intensità emotiva. Si tratta di una lettura "non letteraria", una lettura "dove l'anima è in gioco". Garboli rinvia, saltando la prima esperienza leopardiana del De Sanctis, appena precedente, al vero termine di confronto, alle pagine di Gioberti nel Primato. Per Matilde la lettura dei versi di Giacomo è addirittura insostenibile: "Leggendo Leopardi" scrive il 23 gennaio "devo spesso chiudere il libro; ques_talettura mi strema e non posso farla che a tratti. Resto come schiacciata sotto la bellezza e tristezza dei suoi versi" (p. 165). Si trattò, dice Garbo li con bella espressione, d'una lettura dal "di dentro", fino al punto da farci pensare che Silvia e Nerina, le due fanciulle leopardiane, non siano che "Matilde stessa", un capitolo della propria autobiografia riflesso nella pupilla di un altro. Ma c'è forse qualcosa in più, che è facile, e per me inevitabile, far scaturire dalle parole di Garboli. Matilde, assorbita fino al deliquio entro il libro dei Canti, presta la propria immagine a un evento letterario, reintroducendolo e dandogli seguito nel vissuto: si fa segno vivente di un messaggio che viene da una realtà formale e, incarnandolo, ne offre la decifrazione. In lei Silvia e Nerina, fanciulle lunari ormai tramontate, consegnate alla morte e per sempre mute, si rianimano e rispondono. L'insopportabilità della lettura leopardiana ha la sua radice in un fenomeno assai più marcato di una identificazione empatica. Matilde viene eletta a medium, si fa voce in cui si risolve il silenzio delle fanciulle leopardiane e le accade di dialogare con il poeta e di leggere, nella memoria amorosa di lui, nelle parole che la invocano, il proprio destino non ancora adempiuto. Questo incontro si sarebbe perso nei mille disguidi dell' essere senza lasciar segno di sé, se una serie di eventi che è stato possibile ricollegare fra loro - l'esistenza di Matilde, il rapporto con il padre scandito dalle lettere fra i due, il gesto gentile di Giuseppe Turrini - se tutti questi "fatti" in cui si esprime e si codifica un senso, assume realtà una sfumatura del possibile, non fossero stati inseguiti, rintracciati, connessi fra loro e interpretati. Il saggio introduttivo di Garbo li al diario di Matilde decodifica e traduce in una nuova forma un fantasma del passato, restituendolo alt-'esistenza e permettendoci di incontrarlo e assumerne cognizione. È un modo tutto personale di leggere i documenti e di promuovere l'incontro fra io e dati in un' operazione critica che mobilita l'immaginario, ma che se ne serve come di uno strumento di obiettivazione. È un modo di mettere le proprie viscere al servizio della realtà già esperito a proposito di scrittori come Pascoli e Delfini, come dire soggetti dotati di illustre; soprattutto Pascoli, pedigree letterario. Garboli andava a stanare la loro immagine in una zona brumosa, intermedia fra letteratura e vita, fatta di ricordi, lettere personali, poesie di circolazione familiare. Ne risultavano due scrittori completamente reinventati nel momento che l'aderenza ai documenti si faceva più attenta, fino ad implicare sfumature maniacali. È proprio quel che stupiva e non cessa di colpire il lettore. Contrariamente ad un andazzo molto diffuso nella prassi letteraria odierna, il romanzo di una vita si disegna nel cuore stesso, filologicamente accertato, del vero e non nelle sue propaggini fantastiche. La curatela del diario di Matilde si spinge ancora oltre, fino a raccogliere una realtà che non si è espressa. Matilde è tutta lì: prima che Garboli se ne occupasse, si può dire che quasi non esistesse. Anche Natalia Ginzburg, in una prima stesuradellaFamigliaManzani, le aveva destinato un capitolo in coabitazione con la sorella Vittoria, da cui s'era risolta a separarla, solo per insistenza dello stesso Garboli. È possibile dire, in tutti i sensi, che solo questo libro garboliano torna a far esistere la sfortunata figlia di Manzoni e a riscoprire le implicazioni, anche letterarie, di quell'esistenza. E a proposito di Manzoni, visto che siamo più che mai in tema: questo modo di riportare alla luce il vissuto reinvestendo con la fantasia il vero accertato dalla storia ha indubbiamente molto di manzoniano ed è stato teorizzato, relativamente alla poesia drammatica, nellalettre à M. Chauvet. Dopo Adelchi e Ermengarda, nei Promessi sposi Manzoni è andato a cercarsi il suo vero, i suoi puri di cuore, polemizzando implicitamente con la storia, nelle umili persone di Renzo e Lucia, ponendo sullo sfondo i grandi della terra. C'è un'analogia anche in questo: dopo Pascoli e Delfini, Garboli è andato a inseguire le tracce labili, quasi perdute di Matilde. Ma Manzoni è un romanziere, anche se forse il suo vero talento era distorico, come ci testimonia la Storia della colonna infame: un sublime storico, da far concorrenza a Tucidide. Come romanziere, però, non poteva impedire al suo immaginario di proiettarsi sulla realtà e far esistere il mondo a propria immagine e somiglianza, renderlo manzoniano, insomma, dilatando nel verosimile i fatti storici che fanno da puntello al vero. Fatte le debite proporzioni, Garboli vuole che il mondo resti com'è, scavando nella stratigrafia del vissuto fino a recuperarne, documentandoli, tutti gli eventi superstiti. È questo un modo di far storia? Lo storico, come sapeva bene Manzoni, si ferma ai fatti ("Car enfin" si legge nella Lettre à M. Chauvet "que nous donne l'histoire? des événements qui ne sont, pour ainsi dire, connus que par leurs dehors, ce que les hommes ont exécuté" 1 • Mi chiedo allora che cosa sia Garboli, che cosa rappresenti nella cultura italiana di oggi. Uno scrittore che ci racconta quel che esiste già, ma non sapevamo o non vedevamo ci fosse? O piuttosto uno storico d'una storia non ancora, o solo parzialmente, e recentissimamente istituzionalizzata? Prestare la propria voce al mondo per rivelarlo, portarlo alla luce esattamente com'è stato, nella sua documentabile verità, nei documenti accertati filologicamente, sug29

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