CONFRONTI Vicinoa Manzoni. ConversazioneconMatilde Giuseppe Leonelli Intervenendo a circa un anno dalla prima edizione e a qualche mese dalla seconda del Journal di Matilde Manzoni edito e prefato da Cesare Garboli (Adelphi, pp. 196, L. 14.000) vorrei offrire, più che un parere critico ritardato, qualcosa come un frammento d'analisi, il referto d'una discussione.L'operazione compiuta da Garboli costringe a abitare stanze dell'anima in cui entro di rado e sempre malvolentieri. La prima di queste stanze è la paternità, nella fattispecie il rapporto padre-figlia. Il modulo culturalmente più accreditato è quello dell'invadenza gelosa, della.proprietà. Dalla prefazione di Garboli scopriamo una sindrome opposta: Manzoni è un padre in fuga, inseguito da una offerta d'affetto che non vuol ricevere, da cui teme di essere invaso. Dietro la corazzatura delle buone, sublimemente e inconsciamente ipocrite parole di un Padre con la p maiuscola, con tanto di benedizioni e raccomandazioni, s'arrocca, intransigente sino alla crudeltà, un io diviso, malato, fragilissimo. Manzoni sente l'amore della figlia come una forza capace di rompere ragnatele di equilibri nevrotici invecchiati con lui. L'oscura forza di quell'amore lo atterrisce, impedendogli d'assumere un'identità sconosciuta e insostenibile. In questi casi, l'inconscio può reagire con un decreto di morte per l'altro, l'elemento estraneo che ci minaccia. La malattia, strutturata nella personalità, si difende con tutte le sue forze. Sono noti i limiti nervosi di quello che il Praga definiva, a torto, in una sua famosa poesia "casto poeta ... vegliardo in sante visioni assorto": vecchio patriarca delle nostre lettere, uomo ormai di un altro tempo. In realtà, il più rappresentativo, almeno da noi, fra quei "padri ammalati" di cui il Praga si dichiara, in apertura di poesia, figlio con gli altri della sua generazione. Il rapporto con la malattia preannuncia, in Manzoni, un paradigma novecentesco: la malattia come metafora, male oscuro le cui sostanze si combinano, per un chimismo ignoto agli antichi e tipico dell'età moderna, in una sorta di ossigeno vitale. Meccanismo, quest'ultimo, ben noto a Garboli, che l'ha descritto, vero e proprio thème obsédant, in molti suoi saggi. La malattia è per lui un sole nero intorno al quale ruotano molti pianeti dell'universo problematico della modernità: pianeti diversi fra loro, separati da spazi storici, psicologici e culturali, ma appartenenti allo stesso sistema. Il tema, intuito, secondo Garboli, nel cuore del Seicento da un Molière rivoluzionario, un Molière noir, tutto proiettato verso la nostra epoca (il Molière soprattutto del Tartuffe, del Malade imaginairè, del Misanthrope), investe tutta 28 l'arte moderna. Garboli l'ha studiato in particolare in Pascoli, Delfini, Penna. Il tema entra, di scorcio, anche nella prefazione al Journal; dico di scorcio, perché la protagonista è, come è giusto, Matilde. Ma chi le fa da interlocutore irraggiungibile, imprendibile, è la nevrosi del padre. Un personaggio in fuga, l'abbiamo già visto, che si rifiuta per paura di perdersi, di scomparire, ossessionato com'è da un'immagine materna ambivalente, insieme protettiva e persecutoria. In quell'immagine è la radice di quello che Manzoni definiva il suo mal de nerfs: le sindromi vertiginose, la paura della folla, le fobìe, le idee paranoidi, le compulsioni motorie, i rituali elaborati, col passare degli anni, come un bozzolo in cui rifugiarsi. La malattia sviluppa nell'io manzoniano un sistema complesso di aderenze, giunge a metabolizzarsi con il suo psichismo, compenetrandosi con esso: è una forma parassitaria, ma anche protettiva, di contenimento e sollecitazione. Matilde incontrò in quel nesso inscindibile di forza e debolezza, di salute e malattia (lo stampo in cui si forgiarono/ promessi sposi), un muro invalicabile. Scrive Garboli: "Dal padre non arriva mai un segno d'interesse reale, mai una vera confidenza. Non risulta che Manzoni, in dieci anni di carteggio, abbia mai scambiato un'opinione o un'emozione con la figlia. Non risulta che mai le abbia chiesto o dato un parere, una notizia che superasse la cordialità formale di rapporti teneramente convenzionali, costituiti una volta per sempre, programmati e come protetti da un codice. Le lettere che Manzoni scrive alla figlia sono tutte uguali, tutte prevedibili. È già terribile che l'amore di Matilde, così generoso e forte, fosse tanto divaricato rispetto all'affetto e all'interesse che il padre nutriva per lei. Di questa sproporzione, della vanità e dell'irrealtà dei suoi sforzi per essere corrisposta, Matilde ebbe forse oscura coscienza, nel più profondo di sé, dopo la visita che il padre le rese nel 1852, e allora si ammalò e per sempre" (p. 21). La tisi è in Matilde la conseguenza mortale di un ardore spinto fino all'auto-consunzione. È una malattia del corpo, che ha oscure radici nell'anima, ma non si metaforizza, non la invade, facendosi ragione di sovrainvestimenti affettivi e strutturazioni. La malattia di Matilde non assomiglia a quella del padre: essa è fonte di sofferenze fisiche e come tale circoscritta, addirittura rimossa. Dal febbraio del' 53, in cui ebbe la prima emottisi, la malattia diventa per Matilde una presenza dolorosa, quotidiana, da sopportarsi e da tenere a bada. Entra come tema inevitabile nell'epistolario con il padre, ma le è concesso il meno possibile. I referti sono precisi, ma secchi, quasi sbrigativi: sono malati i polmoni, non lo spirito. Si tratta di un rapporto con il male, che non viene elaborato e sublimato nel "mal di vivere", la malattia-nutrimento diagnosticata nel nostro tempo da Montale. L'immagine che Matilde dà di sé, al di là della piaga dolente dei polmoni, rinvia piuttosto al Leopardi, il grande interlocutore dei tre mesi di Journal. Non vi è contiguità fra l'infelicità leopardiana e la malattia fisica: rimangono due distinti, elementi che non giungono mai a fondersi e elaborarsi in un composto molecolare. È appena il caso di ricordare un passo della notissima lettera al De Sinner del 24 marzo 1832: "Mes sentiments envers la destinée ont été et sont toujours ceux que j' ai exprimés dans Bruto minore. ç'a été par suite de ce meme · courage, qu' étant amené par mes recherches à une philosophie désespérante,je n'ai pas hésité à I' embrasser toute entière; tandis que de I' autre còté ce n' a été que par effet de la llìcheté des hommes, qui ont besoin d'etre persuadés du mérite de l'existence, que l'on a voulu considérer mes opinions philosophiques comme le résultat de mes souffrances particulières, et que l'on s'obstine à attribuer à mes circostances matérielles ce qu' on ne doit qu' à mon entendement. Avant de mourir,je vais protester contre cette inventi on de la faiblesse et de la vulgarité, et prier mes lecteurs de s' attacher a détruire mes observations et mes raisonnements plutòt que d'accuser mes maladies". Nelle ventinove lettere scritte al padre, prima e dopo l'erompere della tisi, Matilde si mostra "quasi testardamente allegra", con parole di fiducia e di ottimismo: "Per giustificare la sua indifferenza, il suo bisogno di solitudine, o la sua riluttanza ad alterare in qualsiasi modo e con qualsiasi emozione - magari con un viaggio in Toscana - la sua tranquillità di valetudinario dalle rassicuranti abitudini coniugali - il padre non perde occasione per tingere la propria vita a lutto e accusare il peso, la gravità di un'esistenza, la
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