CONFRONTI fantasie dell'infanzia come le sofferenze ancora inconsapevoli" (p. 57). È forse questa l'eredità più preziosa che la famiglia ha lasciato a Clara, quella della passione per le parole, della scrittura come gesto quotidiano e necessario per capire, per fare chiarezza dentro di sé, la capacità di saper scegliere le parole con parsimonia, di poter giungere alla fine della storia senza alcuna caduta sentimentale o retorica. Le brevi scene che formano i cinque capitoli del romanzo si susseguono incalzanti dando alla scrittura il senso veloce dello scorrere del tempo che non si dà pause, nemmeno per indugiare sui momenti felici o quelli più dolorosi e drammatici, che nel libro sono tanti - la morte di Enrico, la malattia di Xenia, il "testamento" di Enzo. Di scena in scena si arriva così alla fine, e dentro rimane un senso di vuoto, uno sgomento, un silenzio, il senso della sproporzione tra Storia e individuo. Resta impressa soprattutto una scena, tra le ultime del romanzo, lo svuotamento degli scaffali della libreria patema, quando il vecchio dirigente comunista non riesce più a comprendere quello che gli accade intorno - le facce più repressive del comunismo, i fatti d'Ungheria, la guerra dei sei giorni, l'occupazione di Praga . La sua fede resta incrollabile, ma sente il bisogno di separarsi dai libri, di allontanare da sé le parole, la passione di una vita, perché è un amore che può anche tradire. È la stessa passione che muove le parole di questo romanzo. Una leNera inedita di Enzo Sereni Il momento attuale è propizio alla revisione storica, alla ridiscussione del passato. Direi anzi che queste cose le esige. Dopo il crollo dei muri, dopo il chiudersi - qui - delle galere anche sugli insospettabili di sinistra e non solo sui sospettati dei molti cuori del potere, urge ripercorrere il passato delle grandi scelte, delle opzioni politiche e morali di fondo. E non solo quelle che contrapposero i nostri padri politici al nazismo, al fascismo; anche quelle che li divisero tra coloro che, apparentemente più idealisti, rifiutarono la logica chiesasticocinica della Terza Internazionale (e il suo puntare ali' assoluto, chiedendo all'individuo tutto), e coloro che invece l'accettarono. Per esempio, in Italia, tra chi sposò la "novità definitiva del comunismo" (il potere al proletariato, cioè al partito che per auto-investitura sostiene di rappresentarlo meglio degli altri) e la tradizione di "giustizia e libertà", ora più cauta e mediatrice ora, sotto tanti aspetti, più radicale e perfino più estremista. Direttamente, anche un romanzo che è dichiaratamente familiare-storico come quello, assai bello e importante, di Clara Sereni, Il gioco dei regni, ripropone questo vecchio dilemma tornato d'attualità, ma attraverso due scelte particolari, interne alla stessa famiglia borghese e intellettuale. I due fratelli Sereni, Emilio ed Enzo, fecero scelte diverse: il primo il Pci, di cui fu esponente di punta durissimo, inflessibile nelle sue convinzioni, e il secondo Israele, una prospettiva utopicosocialista di valenza anche etico-religiosa. Enzo morì poi nei lager, mentre Emilio morì amareggiato e ammutolito dal XX congresso. Queste due storie parallele sono, assieme a quelle delle donne di famiglia, al centro della lineare e aperta ricostruzione del romanzo. Grazie all'autrice abbiamo la possibilità di pubblicare una lettera ritrovata di Enzo a Emilio, del lontano' 28, quando si era già consumata, ma ancora nel dialogo, la diversità della scelta. È una lettera utile a capire, la cui critica del marxismo può ancora dar da riflettere. È un documento forse in sé non attuale, ma attuale in quanto ricorda come, nel rigore di scelte davvero di vita, la Storia abbia macinato e distrutto energie appassionate, e possa continuare a farlo. Solo che oggi di scelte radicali e davvero di vita, non ce ne sono in giro molte (G. F.) 26 Rechovot, 4 febbraio 1928 Caro Uriello, rispondo alla tua lettera filosofica che in verità non mi ha molto convinto, anzi mi ha lasciato assai freddo circa la consistenza della nuova tua dottrina. Sono contento intanto che tu abbia dovuto mettere in chiaro a te stesso (contrariamente a quel chefacevi nelle tueprime lettere) che l'accettazione del mat. star. implica una revisione di tutta lapropria impostazione ideologica. In ciò sono assolutamente d'accordo con quel che tu affermi circa idealismo e socialismo (in quanto questo si identifica con il mat. star., naturalmente). O si accetta l'una o l'altra concezione della vita: vie di mezzo sono per chi non sa pensare. Ma invano ho cercato di trovare nelle tueparole una risposta alle mie domande di ordine filosofico. Senza ombra di orgoglio o modestia che sia ti posso dire che mi avvicino sempre alle tue lettere con il più vivo desiderio di uscirne convinto. Sai che - nonostante le apparenze - io sono sempre stato uno spirito critico e esitante, natura/iter liberale in teoria, anche se in pratica deciso su una posizione. Mi trovo perciò in una posizione assai diversa dalla tua che, prima e ora, hai sempre accettato senz'altro le posizioni mentali considerate da te come vere e non ti sei troppo preoccupato della critica interna di esse. Perciò non credere che sia uno spunto rettorico se ti dico che ho vanamente cercato quale sia in sostanza la tua risposta. Ma esemplifico. Tu riporti leparole di Gentile sulla realtà che non può essere concepita dopo Berkeley che spirituale nel o del pensiero. E commenti: "laposizione sarebbe giusta ma manca un se: e questo se è nientemeno che lo Spirito". Confesso che non riesco a capire che cosa significhi una tale proposizione. Cosa vuol mai dire che "questo se è lo Spirito"? Né ciò che segue serve a chiarire il pensiero precedente e tanto meno dà una risposta alla obbiezione gentiliana della inconcepibilità della realtà se non come spirituale. A un certo punto però tu ci parli di come Marx (o meglio Feuerbach) abbia concepito lo Spirito "relazione, funzione delle cose, della materia la quale non è concepita affatto teologicamente ma storicamente". Epoi ancora che "solo il mat. star. ha veramente uccisa la teologia e concepita la realtà dinamicamente come processo non formale ma reale, come autocrisi" e poi di nuovo "se vogliamo comprendere il reale dobbiamo considerare l'uomo, il mondo nella loro realtà materiale di cui l'idea non è la creatrice ma il prodotto". Nelle quali tutte affermazioni una cosa mi pare chiara: che difetti la logica propriamente. Si tratta di affermazioni senza alcuna dimostrazione. Se la realtà è davvero da concepirsi dinamicamente, come autocrisi, che vale allora affannarsi contro l'idealismo che è stato appunto l'instauratore di tale concetto nel mondo filosofico? Chiama pure il tutto Materia se ti pare. Troveremo solo che la denominazione è storicamente inesatta perché serve nella storia filosofica a determinare altro concetto ma non ci accapiglieremo per delle parole. Ma ecco che si scopre il veleno del!' argomento. Questa realtà che va concepita come autocrisi, ( cioè come perenne creazione di sé, è la "realtà materiale". Cioè solo una parte della realtà che il lnat. star. mise in luce ·erivelò. Ma il resto della realtà, quella che non è materiale? Ossia, per usare la tua terminologia, "l'idea"? Questa naturalmente è "prodotto", per questa non si può più parlare di autocrisi dunque. E come mai? Mentre l'idealismo (sia nella bistrattata dialettica dei distinti di Croce sia nelle forme assolute dello spirito di Gentile o
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