Linea d'ombra - anno XI - n. 82 - maggio 1993

Paura a Los Angeles. A Cannes, un firm rivelatore Maria Nadotti Los Angeles, 1993. Siamo su una delle tante megastrade di raccordo che attraversano la città dividendone il corpo in comparti non comunicanti. Grandi arterie sopraelevate che fanno da sistema circolatorio alla metropoli garantendone la frammentazione. Miracolo di un'ingegneria dell'apartheid, è grazie ad esse che i ricchi possono abitare gomito a gomito con i dannati della terra, certi di non venire mai a contatto fisico con loro. Il ghetto di Watts, al centro della metropoli californiana, esiste perché a fargli da sbarramento ci sono le sopraelevate. E le sopraelevate incidono/sfregiano il territorio, non creano comunità. Non attraversabili né percorribili a piedi, esse postulano corpi umani che, per esistere e essere funzionali, hanno bisogno di protesi. Questa protesi è l'automobile, passata da simbolo di status e/o diversivo consumistico a appendice necessaria e necessitata dell'anatomia umana. Nella città degli Angeli non è previsto il pedone. Non si passeggia e non si va a zonzo. Si va da un punto a un altro. Le strade sono vettori. Guai a perdersi. Su una di queste strade, una mattina come tante altre, cielo implacabilmente azzurro e senza nuvole, si crea un micidiale ingorgo. Le auto si incolonnano, rallentano e poi si fermano del tutto. Impossibile andare avanti, ma anche tornare indietro. Una trappola. Le superstrade americane sono a senso unico. Si entra e si rischia di non uscirne più. Roba da attacco claustrofobico. Infatti, al termine di una magistrale sequenza iniziale (una Ci sono volute quaranta ore di camera di consiglio, perché la giuria che doveva giudicare una volta per tutte l'operato di quattro poliziotti (bianchi) di Los Angeles, responsabili del brutale pestaggio ai danni del nero Rodney King, riuscisse a e»zettere un verdetto. L'anno scorso, esattamente di questi tempi, il giudizio di primo grado che mandava assolti i quattro nonostante l'evidenza della loro colpa,fissata dal video amato-' riale di un cittadino qualsiasi, aveva fatto esplodere alcu~i ghetti d'America, da Los Angeles a Chicago. Se in quell'occasione i ghetti di New York, da Harlem a Bedford- Stuyvesant, non avevano preso fuoco era stato grazie a una mediazione spasmodica operata dal sindaco nero Dinkins e dai molti capi carismatici delle chiese attorno a cui si raccoglie la comunità nera locale. In previsione del verdetto d'ultimo grado, emesso nella giornata del 17 aprile scorso, l'America bianca - ma probabilmente anche quella nera - si era organizzata. Los Angeles era stata asserragliata in una sorta di morsa militare - seimila uomini della guardia nazionale pronti a tutto - e gli altri grandi centri erano stati allertati. Ma la sentenza - e questo non pu,ònon far pensare che, nel passaggio dal!' amministrazione repubblicana a quella democratica, alcuni equilibri si siano ridisegnati-è stata perfetta. Intelligente, salomonica, inattaccabile, capace di dare all'America disorientata, ma piena di speranza di questa nuova era politica, la sensazione che si fosse fatta davvero giustizia. Per tutti. Senza vinti né vincitori. Di più-e questa èforse la genialità della scommessa clintoniana - dando a tutti la sensazione di avere vinto. A Harlem i fuochi si sono accesi comunque nella notte del 17 aprile, ma erano fuochi di festa, con il reverendo Jackson IL CONTESTO lezione su come si costruisce l'ansia nel cinema e su come dare a un film il battesimo dell'allarme. Impossibile non pensare al David Lynch di Velluto blu o all'Hitchcock di Gli uccelli) il cittadino Joe, bianco e middle class, fa - a seconda del punto di vista e delle identificazioni spettatoriali - le seguenti cose: si ribella al sistema, dà di matto, fa vendetta simbolica per tutti noi. Quello che succede è banale: Joe scende dalla macchina - occhiali/camicia bianca/cravatta nera/cartella da lavoro in mano: un uomo al di sopra di ogni sospetto-, la chiude a chiave come se l'avesse parcheggiata, la pianta nel bel mezzo dell'ingorgo e si avvia a piedi dichiarando che lui "va a casa". Chi non ha pensato o magari tentato di fare almeno una volta la stessa cosa? Se il sistema non funziona e impazzisce su se stesso - eccesso di benessere uguale eccesso di beni d'uso uguale saturazione dello spazio comune- uno sarà pur legittimato a una piccola rivolta individuale, a un atto simbolico e in fondo innocuo rispetto ai soprusi che siamo abituati a subire. Joe vuole semplicemente andare a casa, è un suo diritto. Se gli impediscono di farlo con la macchina, lo farà a piedi e chi era in colonna dietro di lui si arrangi. Sembra facile e, invece, date le caratteristiche del tessuto urbano di cui sopra, diventa un'odissea, anzi un'impresa impossibile. Per Joe - e questo gli spettatori di Falling Down, precipitare, lo sanno dall'inizio (il titolo italiano del film di Joel Schumacher è Un giorno di ordinaria follia)- non c'è ritorno possibile. L'uscita, sia pur minuscola, dal contratto sociale non prevede circolarità e osmosi: chi è dentro è dentro e chi è fuori è fuori. E ad aspettare il nostro eroe non c'è- come ci viene ben presto fatto capire - nessuna Penelope. E forse nessuna casa. Amani nude e, guarda caso, proprio là dove il grande raccordo stradale incrocia il ghetto di East Los Angeles, il nostro eroe si mette in marcia. È un cittadino per bene, lavora come ingegnere in una fabbrica militare, non ha mai avuto problemi con la L'aggressionea Radney King ISigma/G. Neri). benedicente il nuovo corso delle ingegnerie politiche statunitensi. Il rogo e la carneficina annunciati naturalmente non potevano mancare. È una regola a cui nessuna regia nordamericana si è mai saputa sottrarre: quando si è accumulata una dose suffi.çiente di tensione, la catarsi non può che consumarsi in tragedia. Come non pensare dunque che il grandefalò di Waco, Texas, non abbia a che vedere- informa traslata e simbolica - con quello che poteva succedere e non è successo nei ghetti d'America? Una sorta di dichiarazione di intenti su cui riflettere: conflitti e contraddizioni vanno risolti con l'arma della ragione e del compromesso. Finché èpossibile. Poi non resta che il ricorso alla forza. (M. N.) 17

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