MAGGIO 1993 · NUMERO 82 LIRE9.000 I mensile di stor1e, immagini, discussioni e spettacolo
Carmelo Bene LORENZA CCI O e IL TEATRO DI BENE E LA PITTURA DI BACON llflAD'DIIIRA Lire 85.000 (abbonamento 11numeri)suc.c.p.54140207intestatoaLinead'ombraedizioni,ViaGaffurio, 4Milanotel.02/6691132
Gruppo redazionale: Alfonso Berardinelli, Gianfranco Bettin, Grazia Cherchi, Marcello Flores, Goffredo Fofi (direttore), Piergiorgio Giacchè, Gad Lemer, Luigi Manconi, Santina Mobiglia, Lia Sacerdote (direzione editoriale), Marino Sinibaldi. Collaboratori: Adelina Aletti, Chiara Allegra, Enrico Alleva, Livia Apa, Guido Armellini, Giancarlo Ascari, Fabrizio Bagatti, Laura Balbo, Mario Barenghi, Alessandro Baricco, Matteo Bellinelli, Stefano Benni, Andrea Berrini, Giorgio Bert, Paolo Bertinetti, Francesco Binni, Lanfranco Binni, Luigi Bobbio, Norberto Bobbio, Giacomo Borella, Franco Brioschi, Marisa Bulgheroni, Isabella Camera d'Afflitto, Gianni Canova, Marisa Caramella, Rocco Carbone, Caterina Carpinato, Bruno Cartosio, Cesare Cases, Alberto Cavaglion, Roberto Cazzola, Francesco Ciafaloni, Luca Clerici, Pino Corrias, Vincenzo Consolo, Vincenzo Cottinelli, Alberto Cristofori, Mario Cuminetti, Peppo Delconte, Roberto Delera, Stefano De Matteis, Piera Detassis, Vittorio Dini, Carlo Donolo, Riccardo Duranti, Edoardo Esposito, Saverio Esposito, Bruno Falcetto, Giorgio Ferrari, Maria Ferretti, Ernesto Franco, Guido Franzinetti, Giancarlo Gaeta, Alberto Gallas, Nicola Gallerano, Fabio Gambaro, Roberto Gatti, Filippo Gentiloni, Gabriella Giannachi, Giovanni Giovannetti, Paolo Giovannetti, Giovanni Giudici, Bianca Guidetti Serra, Giovanni Jervis, Roberto Koch, Filippo La Porta, Stefano Levi della Torre, Mimmo Lombezzi, Marcello Lorrai, Maria Madema, Maria Teresa Mandalari, Danilo Manera, Bruno Mari, Edoardà Masi, Roberta Mazzanti, Roberto Menin, Paolo Mereghetti, Diego Mormorio, Maria Nadotti, Antonello Negri, Grazia Neri, Luisa Orelli, Maria Teresa Orsi, Pia Pera, Silvio Perrella, Cesare Pianciola, Guido Pigni, Giovanni Pillonca, Bruno Pischedda, Oreste Pivetta, Pietro Polito, Giuliano Pontara, Giuseppe Pontremoli, Sandro Portelli, Fabrizia Ramondino, Michele Ranchetti, Marco Restelli, Marco Revelli, Alessandra Riccio, Fabio Rodriguez Amaya, Paolo Rosa, Roberto Rossi, Gian Enrico Rusconi, Nanni Salio, Paolo Scamecchia, Domenico Scarpa, Maria Schiavo, Franco Serra, Francesco Sisci, Joaqufn Sokolowicz, Piero Spila, Paola Splendore, Antonella Tarpino, Fabio Terragni, Alessandro Triulzi, Gianni Turchetta, Federico Varese, Bruno Ventavoli, Emanuele Vinassa de Regny, Tullio Vinay, Itala Vivan, Gianni Volpi. Progetto grafico: Andrea Rauch/Graphiti Ricerche redazionali: Natalia Delconte Pubblicità: Miriam Corradi Esteri: Pinuccia Ferrari Produzione: Emanuela Re Amministrazione: Patrizia Brogi Hanno contribuito alla preparazione di questo numero: Giovanna Busacca, Marco Capietti, Barbara Galla, Paul Kroker, Lieselotte Longato, Stefano Losurdo, Marco Antonio Sannella, Clara Sereni, Barbara Veduci, Il Leuto libreria dello spettacolo di Roma, la Ledha, il Premio Grinzane Cavour, le agenzie fotografiche Contrasto, Effigie e Grazia Neri. Editore: Linea d'ombra Edizioni srl - Via Gaffurio 4 20124 Milano Te!. 02/6691132. Fax: 6691299 Distrib. edicole Messaggerie Periodici SpA aderente A.D.N. - Via Famagosta 75 - Milano Te!. 02/8467545-8464950 Distrib. librerie PDE- Viale Manfredo Fanti 91, 50137 Firenze - Te!. 055/587242 Stampa Litouric sas - Via Rossini 30 Trezzano SIN - Te!. 02/48403085 LINEA D'OMBRA Iscritta al tribunale di Milano in data 18.5.87 al n. 393. Direttore responsabile: Goffredo Fofi Sped. Abb. Post. Gruppo IIl/70% Numero 82 - Lire 9.000 UNIAD'OMBRA anno XI maggio 1993 numero 82 ILCONDITO 2 5 7 8 10 17 19 21 Francesco Sisci Alessandro Triulzi Hans Magnus Enzensberger Giuseppe Guglielmi Wolf Krotke Maria Nadotti Pico Merzagora Pier Cesare Bori CONFRONTI 24 25 34 37 Fabio Terragni Paola Splendore Gabriella Giannachi Yehoshua Sobol Il drago cinese, pronto ali' attacco Corno d'Africa, il presente che cambia Un'intenzionale ambiguità a cura di Filippo La Porta L'"emergenza profughi" in Germania Bonhoeffer "teologo della DDR" Paura a Los Angeles. Un film di Schumacher Diritti, doveri e questione morale Dubbi sulla chiesa Quarant'anni fa, il DNA Nel regno della memoria seguito da: Una lettera inedita di Enzo Sereni Teatro yoruba a Cambridge seguito da: Due poesie di Gabriel Gbadamosi Il teatro dell'"altro" a cura di Gabriella Steindler Moscati e G. Leonelli sul Joumal diMatilde Manzoni (a p. 28), F. Frascaroli su llgiocodi Gerald di Stephen King (a p. 30) e Majid El Houssi su Fantasia di Abdelwahab Meddeb (a p. 31). 51 57 69 Nuruddin Farah J. M. Coetzee Francesco Orlando STORII Fratelli e sorelle a cura di Armando Pajalich La poetica della reciprocità a cura di David Attwell, seguito da: Discorso di accettazione del Jerusalem Prize Date di nascita a cura di Francesca Borrelli La casa col grande albero a cura di Paola Splendore Soo Haabo I 41 47 73 Daniacew Worku Gamuute Axmed Gamuute Vidosav Stevanovic a cura di Giorgio Banti e Cabdalla Cumar Mansuur Taglio cesareo a cura di Teresa Wator 62 Frank Bidart Tre storie da tre libri a cura di Damiano D. Abeni La copertina di questo numero è di Guido Pigni. Abbonamento annuale: ITALIA L. 85.000, ESTERO L. 100.000 a mezzo assegno bancario o c/c postale n. 54140207 intestato a Linea d'ombra. I manoscritti non vengono restituiti. Si pubblicano poesie solo su richiesta. 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IL CONTESTO Il drago cinese, pronto all'attacco Francesco Sisci Il drago è tornato. Sbuffa fumo, agita la coda, alza le zampe pronto ad attaccare. La Cina non è più paese del terzo mondo, se mai lo è stato; gli economisti di Pechino suffragati da studi australiani, ipotesi della Cia e dal verdetto dell'"Economist" sostengono che il volume della loro economia è grossomodo quello della Germania unificata. Con una differenza: laGermania vanta oggi una crescita zero ed è impelagata in guai di cui per ora non si vede la fine, la Cina corre a un tasso di crescita annuo del 10 per cento del suo prodotto interno lordo (Pil). A questa velocità nel 2000 Pechino sarà la capitale del paese complessivamente più ricco del mondo, che tra il 2010 e il 2020 potrebbe da solo produrre quanto I' 80 per cento dei paesi dell' Ocse (paesi occidentali sviluppati) messi insieme. Certo, in molti ambienti si nutrono dubbi sulla sua capacità di mantenere simili ritmi di crescita, dopo già 15anni di questa corsa. Del resto simili dubbi sono presenti da tempo e sono vecchi di almeno 10 anni. Nel 1982, ad esempio, l"'Economist" e il Fondo monetario internazionale (Fmi) ritenevano che nel 2010, con un tasso di crescita del 7 per cento, laCina avrebbe superato il Pii della Francia. Ma le fonti già allora dubitavano che la Cina sarebbe riuscita a mantenere questo tasso di crescita. In realtà negli anni seguenti il tasso aumentò fino ad arrivare a punte di oltre il 12 per cento, mantenendosi mediamente al di sopra dell'8 per cento. Inoltre, con l'apertura all'Occidente gli uomini delle statistiche cinesi hanno scoperto che il loro modo di tenere i conti dello stato era impreciso e inefficiente. Per esempio, se il prezzo del carbone lo si calcola in base alla tariffa, calmierata, fissata dallo stato, i conti totali saranno molto più bassi che se si calcola il prezzo internazionale del carbone. Questi calcoli sono poi confermati da indici comparativi che guardano al volume pro capite di una serie di beni, da valutazioni indicative dell'enorme economia sommersa e dal volume delle esportazioni in proporzione a una grandezza indicativa del mercato interno. Nulla di certo, sì, sì... ma un'occhiata a qualche altro dato per piacere. Nel 1992 gli investimenti stranieri hanno toccato la cifra record di circa 11,3 miliardi di dollari. Una cifra enorme visto quello che si cerca di raccattare con sforzi giganteschi per non far precipitare la Russia nel baratro. E sono cifre ancora più grandi se appena scomposte per la loro origine. Quattro miliardi vengono da Hong Kong e i 3/4 degli altri sette miliardi vengono da Taiwan e dalle comunità cinesi dell'Asia orientale, l'area che in questi depressi inizi di anni Novanta è diventata la locomotiva del mondo. . È la ~ontrotendenza rispetto ai crucci del resto del globo che unpressiona e soprattutto la tendenza crescente dell'Asia orientale ingener~e ~~ella Cina inparticolare a risucchiare per investimenti o_sempl!ce spec~lazione" finanziaria i capitali ormai in libera ctrColazionesul pianeta, non frenati da alcuna barriera statuale o di ordinamento bancario. È ancora da calcolare esattamente quanti miliardi di d li . . 0 an siano emigrati verso Tokyo durante la tempesta valutaria del settembre 1992, attratti dagli alti rendimenti dello yen. Certo che la recente rivalutazione di circa il 50 per 2 cento dello yen rispetto alla lira indica la direzione di un enorme flusso di denaro dall'Italia al Giappone. Per quanto possa apparire paradossale, la decisa impennata dell'economia cinese è cominciata dopo Tienanmen. Da quel momento è iniziata lapolitica del governo che scambiava consenso per il vertice contro libertà d'impresa e soprattutto nel giro di qualche mese cominciava quasi in silenzio un processo di privatizzazione reale dell'industria statale tramite la vendita diretta o occulta di azioni di fabbriche e aziende. Era la grande corsa all'azione che nel 1991 aveva percorso come una tempesta l'economia cinese, spingendola a crescere di nuovo a tassi superiori al 10 per cento annuo. Il 18 giugno '92 la People's Bank of China avvertiva che bisognava far cessare la "cieca follia" della corsa all'acquisto di azioni. Molti funzionari della banca centrale pensavano che si era già andati troppo oltre, e troppo veloci in qùesta storia della vendita di azioni. La banca per la prima volta riconosceva apertamente di non avere una legislazione adeguata per affrontare la rapida espansione del commercio di titoli. In un primo momento le azioni dovevano essere vendute solo dallo stato e poi non potevano essere ulteriormente cedute. In realtà ben presto il mercato secondario delle azioni era cresciuto a dismisura. La corsa all'azione e l'apertura di borsini semilegali in praticamente tutte le provincie non poteva promettere niente di buono in termini di stabilità e di futuro assetto del paese: e se qualcuno aveva già concentrato, o stava concentrando un grande numero di azioni nelle sue mani? Non diventava un potere alternativo a quello dello stato? E poi, si poteva un domani confiscare a comando anche un solo gruppo di azioni senza far precipitare nel panico il mercato? Il mercato? E che gliene importa allo stato? No, perché lo stato aveva troppo da guadagnarci: per quanto le azioni fossero gravide di rischi futuri, sul momento apparivano come il modo più indolore ed efficace di prelevare ampie fette dell'enorme sacca di risparmio privato senza in pratica cedere nulla in cambio. Il progetto di privatizzare invece su larga scala gli appartamenti delle grandi città era già più pericoloso: nessun vincolo contro una possibile rivendita avrebbe resistito1 e di lì creare un grande potere immobiliare, con il possesso fisico su una ricchezza reale, decine o centinaia di appartamenti a Pechino o Shanghai, appariva molto più direttamente minaccioso. In più la folle corsa all'azione aveva creato un mercato parallelo: c'erano persone che stavano in fila di professione e le triadi, tornate a governare ampi settori e sottosettori dell'economia cinese, si alleavano con poliziotti, si facevano guerra a coltellate per accaparrarsi i preziosi titoli. A Shenzhen, nel 1992, lo stato metteva in vendita non azioni ma biglietti che davano accesso a un sorteggio, uno su dieci di quei biglietti sarebbe stato estratto e il fortunato avrebbe così potuto comprare le azioni. Di fatto lo stato aveva così decuplicato il prezzo dei suoi titoli, dando però la possibilità di sperare a altre nove persone. Crescita disordinata, caotica, piena di interrogativi, ma il
vecchio Deng non era abituato a navigare in queste acque? Ma l'odore di soldi intorno alle azioni rompeva ogni diga morale e la corruzione scivolava giù come il miele su una pila di frittelle. Anche i poliziotti, che dovevano sorvegliare che nessuno si infilasse nelle file, a viva forza spingevano nei punti di testa i propri amici e parenti. Ciò non poteva rimanere senza conseguenze. A luglio Pechino sorrideva di nuovo per la riapertura alle riforme annunciata da Deng, lamenti sordi si levavano dalla "cintura di ruggine", le zone delle inefficienti industrie di stato minacciate da severi licenziamenti e ristrutturazioni. Tutto insomma sembrava andare bene, bisognava solo tener un po' a bada gli operai, ma una pioggia di azioni e ancora una volta il sostegno delle campagne sembrava salvare Deng. A Shenzhen, a luglio, si procedeva a una vendita di azioni straordinaria: due giorni per vendere biglietti che uno su dieci avrebbero dato accesso al sospirato passaporto della fortuna. In città piombarono in un milione da tutta la Cina. Si misero in fila tra gli spintoni dei poliziotti che infilavano i loro raccomandati. Poche ore dopo però le porte dell'asta venivano chiuse. Perché? Sono finiti i biglietti. Ma siamo poi tanti? si chiesero i contadini infila, e si ricordarono dei raccomandati spinti dai poliziotti, ricordarono le storie sulle migliaia di azioni che tra mille inchini non passavano nemmeno per le aste ma viaggiavano per i piani alti dei palazzi nobiliari, dove risiede l'alta burocrazia dell'impero. Prove? Vox populi. E poi una costatazione: avevano promesso due giorni d'asta. Epoi Tienanmen non era passata invano. Centinaia di migliaia di contadini che avevano viaggiato migliaia di chilometri in condizioni infami e avevano accettato già che, nove su dieci, il loro biglietto non gli IL CONftSTO avrebbe dato azioni ... ma essere privati di quell'unica possibilità! Troppo, troppo. Troppa corruzione. Centinaia di migliaia attraversarono le strade della città al grido di "abbasso la corruzione", come a Tienanmen. Alcuni sfasciarono vetrine,distrussero macchine.Gli agenti intervenuti con imanganelli a scariche elettriche vennero travolti. Arrivarono rinforzi; gli scontri durarono quasi tutta la notte, durissimi. Immagini di fuoco vennero ritrasmesse dalla televisione di Hong Kong che parlò anche di due morti. Il consiglio dei ministri si riunì d'urgenza e il giorno dopo inviò un suo emissario. La crisi delle azioni minacciata dagli ortodossi era arrivata? A Shenzhen nel giro di poche ore insieme a camion di agenti in tenuta antirivolta arrivavano segnali contrastanti: prima che altre azioni sarebbero state messe in vendita, poi che le vendite erano invece sospese. Ancora qualche ora e a tutti i forestieri, senza permesso speciale di entrata a SheK .·,en, veniva ordinato di andarsene. Gli uomini dell'ex governatore del Canton Ye Xuanpin erano riusciti a riportare l'ordine senza sparare e, secondo gli annunci ufficiali, anche senza fare morti. Secondo quanto aveva deciso il gruppo dirigente, con una crescita così rapida i sussulti erano inevitabili, l'importante era riportare l'ordine con meno danno possibile, senza dare nell'occhio, e questo a Shenzhen era riuscito: Ye si dimostrava uomo di polso, come suo padre. Inoltre, subito dopo la crisi la stampa provinciale riconosceva che in alcune sezioni c'erano stati imbrogli, si diceva che i responsabili avrebbero pagato. Era una ammissione di colpa delle autorità, anche questa una piccola lezione di Tienanmen: meglio dirsi un po' colpevoli e andare incontro alla gente per placare gli animi. Foto di Geoffrey Hiller logenzio G_ Neri)_ 3
IL CONTESTO Ma pur così gli slogan contro la corruzione di Shenzhen avevano una pessima eco, puntavano il dito sulla più grande ferita in seno al Pc: il partito dei principi ereditari, delegati al congresso di ottobre secondo le voci di Pechino, già possessori di una caterva di azioni delle industrie statali in via di privatizzazione. E Shenzhen ripeteva che le dimostrazioni di Tienanmen non erano cadute nel vuoto: "abbasso la corruzione" era un grido capace di mobilitare d'incanto centinaia di migliaia di persone. Shenzhen insegnava ancora un'altra cosa, che la piccola e media ricchezza cresciuta in questi anni nelle campagne del paese era disposta, per un'opportunità di guadagno, ad andare a uno scontro con la sfacciata prevaricazione: in questo triadi, pestaggi di riscossori del fisco e dissenso politico potevano essere messi pericolosamente in fila e aiutarsi a vicenda. In fondo mafie e triadi sono state da sempre in Cina una base di opposizione per interessi privati o collettivi al governo, e il primo passo di una sovversione di più grande respiro. E questo il Pcc lo sa bene. "Le triadi non sono poi un male" All'inizio del 1992 la giornalista Dai Qing2 disse a dei giornalisti stranieri che la Cina si stava ammorbidendo. E certo poco dopo Deng Xiaoping compì un pellegrinaggio a Shenzhen: annunciava riforme economiche e politiche da perseguire insieme. In pochi giorni i dissidenti sparirono dal cuore e dagli occhi dei cino-americani, i compatrioti d'oltre mare non vedevano l'ora di pensare alla Cina che si riapriva e alle nuove possibilità d'affari. E la Cina si riapriva sul serio. A oltre due anni da Tienanmen l'opposizione politica era stata schiacciata ma la trama sociale si era sfilacciata: il confine settentrionale con la Russia era praticamente del tutto aperto, i doganieri non imponevano i cari dazi statali ma richiedevano più economiche tangenti da infilarsi direttamente in tasca. I viottoli di Budapest o le carrozze della trans-siberiana giù giù fino al Carso italiano, porta non controllata per entrare nell'Europa ricca, erano un unico mercato per trafficanti cinesi di ogni genere. Ed era vero anche il rovescio: avventurieri polacchi, spacciatori di droga romeni, russi bianchi, nuovi cosacchi, armeni, kirghizi e persiani del Tajikistan, mafiosi siciliani e calabresi si riversano sulle strade di Pechino, Shanghai, Canton, nella quasi turca Urmuqi a vendere gli orologi e la fine del comunismo. Che l'Urss non esisteva più,. e il socialismo nel mondo neanche i cinesi lo appresero da questa moltitudine di contrabbandieri e tagliagole. A velocità supersonica i due flussi opposti di ex sovietici e cinesi fecero ripiombare quella porzione di mondo al baillame, confusione di dialetti, lingue, beni di tutti i generi, fumi non d'Qppio ma d'eroina stavolta, che aveva imperato qui negli anni Dieci. Oggi sotto il segno dei jeans e del dollaro americano. Il "Quotidiano del popolo" il 17 gennaio del 1992 se la prese con gli editori clandestini, colpevoli di pubblicare materiale controrivoluzionario, pornografico. Ma soprattutto denunciò "persone che si riuniscono segretamente, si organizzano in decine, forse persino in centinaia di società segrete, sotterranee". Politica? No, mafia, di quella che prospera nelle China town americane e in mezzo sud-est asiatico. Rapinavano i treni e le banche a mano armata, come nel far west americano, e avevano ripreso la lucrosa attività di pirateria marina, spesso e volentieri protetti dai guardiacoste delle forze armate3, ma diversamente da allora ora si commerciava la preziosa China White, l'eroina da sniffare, forte e purissima. Per i baroni del triangolo d'oro, che ormai facevano passare tutto il loro traffico dalla Cina popolare, 4 la China White voleva essere la risposta orientale alla cocaina sudamericana. Nel migliaio di campi di lavoro che alcuni giornalisti occidentali scoprirono in Cina solo una minima parte degli ospiti erano prigionieri politici: la maggior parte erano criminali comuni. Dissidenti e delinquenti diventavano sempre più due facce della stessa medaglia. Questa medaglia però aveva ancora almeno altre due facce. Una faccia era mostrata dal quasi ravvedimento di Xu Jiatun, l'amico di Deng fuggito da Hong Kong in America. Xu, a 76 anni, dava credito al cambio di direzione imposto da Deng al paese, anche se lo interpretava come una conseguenza delle manifestazioni di Tienanmen. Sulla stessa scorta alcuni intellettuali dissidenti fuggiti in America, come Su Shaozhi, cercavano contatti per rientrare in Cina. D'altro canto un'altra faccia ancora si mostrava il 21 luglio 1992. Allora Bao Tong, il segretario di Zhao, intelligente complottista di Tienanmen, venne condannato a nove anni di prigione per "attività controrivoluzionarie e divulgazione di segreti di stato". Era un nuovo inizio o la fine definiti va di Zhao? Dipendeva da come il congresso avrebbe giudicato il processo. Se addossava tutte le colpe a Bao Tong riabilitava Zhao, se viceversa avesse sottolineato i legami tra i due, per il vecchio Zhao non c'erano speranze. E la lotta nel partito non era al coltello, ma alle unghie, denti, forcine per capelli e limette per le unghie. Segnali contrapposti lampeggiavano sulla torrida estate cinese. Gli studenti cinesi all'estero, oltre 40 mila, erano invitati a tornare in patria, veniva apertamente promesso che il passato sarebbe stato dimenticato, non importava se avessero preso parte in Cina o fuori ad attività antigovernative. Alla fine di agosto, a Han Dongfang, un leader della protesta operaia, veniva concesso di uscire di prigione e andare in America. Ma alla fine di agosto quando Shen Tong, un leader studentesco, decise di tornare, fu fermato e "messo sotto sorveglianza" per "il suo coinvolgimento in attività il legali in collaborazione con stranieri". Che significava? Per molti dissidenti questa sembrava una musica già sentita, come la promessa di Li Peng, prima del 4 giugno 1989, che gli studenti non sarebbero stati arrestati e che non si sarebbe sparato loro addosso. Del resto, se chi fa le regole e chi le applica sono la stessa persona, chi può controllare o frenare il loro comportamento? Non c'è verso? Non si può cambiare? Il partito ha due anime e due mani, con una dà e con l'altra prende, lotta per aprire o chiudere il paese; e trova il modo di filtrare le regole che esso stesso fa per trarne il massimo vantaggio: che gli studenti tornino a casa per impiegarli nelle industrie, e se qualcuno più rompipalle che si unisce al mucchio ... beh lo si può imputare di altro, metterlo in prigione senza definire qutll 'atto "arresto", ma magari solo "fermo", "controllo" o qualunque altra cosa. Lo stato comunque avrebbe un suo equilibrio e andrebbe tutto bene se la politica agisse in piena autonomia, se i boss del partito non dovessero pensare ad altre forze. Ma anche qui ci sono due crepe. Il 19agosto il "Quotidiano economico", uno dei pochi giornali ancora controllato dai riformisti, rag.ionasulla produttività. Spiega che le riunioni politiche nelle fabbriche di stato sono una perdita secca di produttività. Un po' di calcoli: ecco, a parlare di comunismo si sprecano fino 50 giornate lavorative all'anno! Oltre due mesi secchi di fatica che invece di tirare fuori filati di seta, gli operai ripetono a campanello l'ultimo editoriale del "Quotidiano del popolo"!
Questa è una patata ben bollente nel mezzo del dibattito sulla produttività, scarsa, delle imprese pubbliche accusate di succhiare soldi e basta. E dice anche: con la politica non si mangia, facciamone a meno se no rimaniamo a stecchetto, argomento diventato ormai fortissimo in Cina negli ultimi 15 anni. Difficile che con calcoli così e una difesa tanto traballante delle imprese pubbliche mangiasoldi, sipossa ancoradifendere l'indottrinamento politico e, precipitando, la repressione dei dissidenti. Resta però la questione del potere, strettamente legata ai corsi di politica, ma su questo la frattura sembra ancora più grave: il territorio infatti appare per buona parte fuori dal controllo centrale. La domanda a questo punto è: può Pechino recuperare il controllo e come in queste condizioni? E pagando quale prezzo? E quanto potere vuole e può recuperare? Le risposte possono essere date solo per tentativi. Un dato solo: 1'8 aprile del 1993 il capo della polizia Tao Siju disse che non era poi tutto male quello che facevano le triadi. Una chiara apertura di credito a una organizzazione che sta acquistando IL CONTESTO sempre maggiore influenza nel paese e che può svolgere un ruolo cruciale nel passaggio di poteri a Hong Kong nel 1997. Del resto già prima del '49 i comunisti si erano appoggiati alla mafia, ma ben più grande era il ruolo che le triadi avevano svolto a favore del capo nazionalista Chang Kai-shek. La storia potrebbe ripetersi anche se non si sa in che forma. E agli occidentali scettici e orripilanti cinici economisti cinesi ricordano il ruolo che la mafia giapponese, la famigerata Yakuza, svolge a Tokyo. In Cina non potrebbe essere la stessa cosa? Note I) Di fatto esiste già da anni un mercato immobiliare privato che con la complicità di impiegati agli uffici urbanizzazione delle grandi città falsifica carte e "vende" a privati o a danwei case spesso di proprietà nominale di altre danwei. · 2) Figlioccia del generale Ye Jianying, arrestata dopo Tienanmen e dopo circa sei mesi liberata. 3) Sul coinvolgimento delle forze armate cinesi in attività di pirateria e contrabbando esistono denunce di Taiwan, Hong Kong e Russia. Corno d'Africa, il presente che cambia Alessandro Triulzi C'è tanto da leggere, e da capire, in questi giorni, sulle cose di casa nostra. Non se ne può più. I SÌ e i NO si accavallano nella nostra mente, e nella memoria collettiva della gente, contesa e ancora più confusa tra l'invocato "rinnovamento" dei più e il confessato "ripensamento" dei molti. E naturalmente il fiume senza argini di dichiarazioni e controdichiarazioni, fughe di notizie pilotate di concussi e collusi, che alimenta un vortice continuo ed ambiguo dove chi trionfa sono soprattutto i media e la loro dilagante lettura-scoop, "giustizialista", del presente e dei suoi mali. Tutto sfascio, tutto bene. Tanto si volta pagina, si dice. Così facciamo fatica, in realtà non vogliamo capire che tra il referendum sul sistema elettorale in Italia, quello sulla formula politica indipendentista in Eritrea, o i rinnovati negoziati sulla formazione di governi "nazionali" in Somalia o in Sudafrica, così come in Russia o nella ex-Jugoslavia, corre un filo rosso che è quello della nuova forma-Stato che stenta ad affermarsi e a innovarsi in contesti storico-politici molto differenti tra loro, ma caratterizzati da un elemento di fondo che li accomuna, l'uscita dalla guerra fredda e dall'eccesso di Stato che ha caratterizzato la maggior parte delle esperienze di governo della seconda parte del secolo ventesimo. In questo non vi è molta differenza tra regimi ex-coloniali o ex-comunisti, e il contagio, o la ')resa", della nuova "libertà" post-comunista ha intaccato il nostro stesso sistema di potere sottoponendolo, per la prima volta dal dopoguerra, a una severa crisi di identità e di scollamento. Riflettere pacatamente sull'evoluzione della forma-Stato in Africa negli anni Novanta vuol dire concorrere a una maggiore comprensibilità, oltre che conoscenza, del difficile presente politico che attraversa il Continente. Il caso del Como d'Africa è in questo senso esemplare. In Etiopia e Eritrea si combatte oggi, dopo trenta anni di lotta armata, una battàglia di idee in cui si j mescolano, da parte etiopica, antiche forme di dominio e nuovi principi di autonomia e autogoverno della periferia rispetto al centro politico e culturale dello Stato, così come questo si è fin qui espresso attraverso governi sia "tradizionali" (Hailé Sellassié) che "socialisti" (Menghistu Haile Mariam); da parte Eritrea si rivaluta la memoria storica di una oppressione da Addis Abeba definita di tipo "coloniale" e il prezzo lungamente combattuto e sofferto di una sanguinosa guerra di indipendenza guidata da un fronte di liberazione egemonico (FPLE). In Somalia peraltro, la ventennale dittatura di Siyad Barre e i sanguinosi conflitti di potere e di dominio nella regione negli ultimi venti anni hanno dato luogo a uno scoppio di conflittualità diffusa resa incandescente da una lotta per la sopravvivenza politica delle principali famiglie cianiche per assicurarsi così il predominio nel periodo post-Siyad Barre, e la spartizione di risorse sempre più scarse in un contesto di generale smobilitazione produttiva del paese e di aspra conflittualità intorno ai flussi e ai centri di smistamento degli aiuti. In Etiopia, infine, un gruppo di potere riunito intorno a un movimento di liberazione regionale (FPLT), dopo aver formato una coalizione composta principalmente da elementi tigrini con gruppi di Oromo e Amhara dissenzienti (EPRDF), sta lentamente trasformando un impero centralizzato e unitario in uno Stato federale con forti autonomie regionali a vocazione monoetnica. Già da questa semplificata descrizione si può intuire che la posta in gioco in tutti questi paesi è lo Stato, o meglio la formaStato che si vuole sostituisca lo Stato-nazione delle prime indipendenze, sia quelle "negoziate" degli anni Sessanta che quelle "combattute" degli anni Settanta e Ottanta, considerate entrambe di derivazione e orientamento neo-coloniali. Gli attuali combattimenti e rivolgimenti in corso, dalla lotta per la parità di voto in 5
IL CONTESTO Sudafrica alla risuddivisione degli spazi politici e decisionali in molti paesi africani, tendono alla ricostruzione di un tessuto politico-istituzionale ovunque in disfacimento e alla ridefinizione di nuovi patti sociali tra governanti e governati. Che tutto questo avvenga nell'ultimo quarto del ventesimo secolo, un periodo tra i più traumatici della storia recente dell'Africa, caratterizzato da rinnovate crisi eco-ambientali quali la siccità della metà degli anni Settanta e Ottanta, le continue guerre intestine o interstatali (Etiopia, Ciad, Mauritania, Sudan, Mozambico, ecc.), la crisi produttiva dovuta ai vari interventi spesso selvaggi di "aggiustamento strutturale", e non ultimo la crisi dei regimi autoritari e dispotici sia "socialisti" (Etiopia, Somalia, Angola, Mozambico) che neo-liberali (Zaire, Liberia, Senegal, Costa d'Avorio), non deve stupire.L'Africa si sta liberando dal giogo ibernante e insidioso della guerra fredda né più né meno come il resto del mondo. Solo che qui c'.è più fame e miseria, e la prima aggregazione politica è quella dettata dalla sopravvivenza del proprio gruppo, famiglia o clan. · Tuttavia la lettura in chiave "etnica" dei traumi presenti dell'Africa in transizione è una lettura sostanzialmente errata e razzista. Errata perché confonde formule tradizionali e le inserisce in contesti di riferimento dove l'aggregazione su base clanica o tribale è una affermazione di identità collettiva, e dunque è una forma di partecipazione alla modernità e di obiettiva "presa" politica sulla scena contemporanea. Razzista perché si ostina a vedere un'Africa statica e immobile, cristallizzata in "etnie" e "tribù" in perpetuo conflitto tra loro, e identifica in questo la causa di fondo dei traumi attuali. Il caso somalo, come per altri versi Mogodiscio. Foto di PeterMenzel (agenzia G. Neri) 6 quello sudafricano, mostra come una spiegazione puramente "tradizionale" della aspra conflittualità in corso (I' antagonismo "tipico" dei pastori somali in lotta tra loro per pozzi e pascoli; la "ferocia" guerriera degli zulu nel preservare l'identità etnica del movimento politico Inkatha op.posto all' ANC in Sudafrica) non permette di individuare gli elementi di novità "politica" della lotta in corso - che è all'ultimo sangue in entrambi i luoghi per la competizione per risorse scarse (gli aiuti) o la supremazia politica (lo Stato) nella nuova morfologia del potere rispettivamente del post-Siyad Barre e del post-apartheid. Altro che tribù e guerrieri: sia i c.d. "signori della guerra" somaÌi, i generali Ali Mahdi e Aidid, che il leader zulu Buthelezi in Sudafrica sono prima di tutto uomini politici, spregiudicati forse, ma politici. E la posta in gioco, la lotta per il potere, spiega la continua recrudescenza di violenza assai più del "tribalismo". ancestrale di etnie o clan "guerrieri". Il più raffinato gioco "etnico" che si sta svolgendo in Etiopia in questa fase di transizione non è meno "politico" né meno significativo. L'attuale governo di coalizione, formalmente interetnico anche se guidato da un movimento regionale minoritario, quello tigrino - un gruppo tradizionalmente dominante insieme a quello Amhara nella cultura politica dell'Etiopia cristiana - ha appoggiato una suddivisione del territorio nazionale, e una spartizione dello spazio politico, in più regioni etniche autonome dal governo centraJe, derivate da un accorto dosaggio di genti e terre incluse per equili'bri politici oltre che etnico-culturali (la suddivisione etnica è stata già denunciata dal movimento degli Oromo riuniti sotto l'OLF). La conseguenza è una misurata politica aggregativa di orientamento regionale in cui un gruppo minoritario, come quello tigrino, sta imponendo la nuova forma-Stato ai rivali Amha:ra e Oromo indebolendo dei primi l'antica pretesa centralista, e dei secondi la non del tutto sopita secessione. Esso può dunque, dopo aver conquistato il potere con la forza, mantenerlo con il consenso o perfino abbandonarlo nella misura in cui riuscirà a strutturare un'organizzazione statale che, se verrà mantenuta, potrà essere di esempio ad altre esperienze nazionali nella regione. Diverso il caso dell'Eritrea dove un movimento di lotta accentratore e na~ionalista, uscito vittorioso da un lungo conflitto per l'indipendenza del proprio paese, e che ha avuto un ruolo non piccolo nei cambiamenti politici e nelle scelte strategiche di Addis Abeba, ottenendone in cambio il riconoscimento ali' indipendenza, ha optato per uno Stato unitario e centralizzato, fortemente dirigista, in cui le spinte ali' autonomia regionale o al plurietnicismo sono al momento guardate come anti-indipendentiste, e dunque da reprimere. Così in Etiopia un movimento regionale minoritario, conquistato il centro politico dello Stato, si predispone a limitare il proprio potere, e eventualmente a lasciarlo, dopo essersi garantito la sopravvivenza attraverso la formazione di uno Stato "etnico" regionalizzato e autonomizzato, mentre in Eritrea il movimento politico che è risultato egemone nella lunga lotta per il diritto nazionale all'indipendenza sta conducendo una dura battaglia per la sopravvivenza economica oltre che politica del pa_ese,che individua in un'articolazione politica forte, cioè di senso opposto a quella maturatasi nella vicina ex-metropoli. Leggere il presente dell'Africa vuol dire non solo capire l'attuale fase di transizione, ma inserirla nel movimento della storia. Continuare a classificarne il presente secondo etichette o pregiudizi di comodo vuol dire semplicemente non farlo, e così rinunciare ali' intelligenza delle cose lontane, che sono poi molto vicine ai vari "tribalismi" e faide di casa nostra anche se non vogliamo ammetterlÒ, o non sappiamo accettarlo'.
IL CONTESTO Un'intenzionale ambiguità Incontro con Hans Magnus Enzensberger a cura di Filippo La Porta In occasione della presentazione a Roma del suo ultimo libro tradotto in italiano, La grande migrazione (Einaudi, a cura di Paola Sorge), abbiamo incontrato H.M. Enzensberger e gli abbiamo rivolto alcune domande su un tema ricorrente nella sua opera: gli intellettuali (trasformazione di status, perdita del privilegio, presunti doveri, rapporto con i media). Un tema che appare solo sfiorato in questo pamphlet sul razzismo e sulla xenofobia in Germania (e altrove). Nelle nostre società, dominate dalla piccola borghesia alfabetizzata, l'intelligenza è quasi un obbligo sociale, unico valore superstite nel crepuscolo degli idoli. Tutti vogliono essere o almeno sembrare intelligenti. Ma le cose stanno proprio così? E poi: di che tipo di intelligenza si tratta? C'è un aspetto importante della faccenda legato al mercato del lavoro, che privilegia certe qualità come 1ajlessibilità, che per me è invece un valore molto relativo. Una persona capace di essere flessibile guadagna molti più soldi di chi non lo è. La mia ipotesi sarebbe che questo vale anche per un certo tipo di intelligenza.oggi molto diffusa, come facoltà di captare l'occasione, di fare la cosa giusta al momento giusto: un'intelligenza che definirei occasionale. Tra le molte definizioni correnti di intellettuale vorrei proporle questa (che tiene conto soprattutto dello strapotere dei media): è tale non chi possiede una tecnica o una competenza specifica ma chiunque "fa opinione" (Gullit che parla dell'apartheid o Sting che parla degli indios). Ora, il fatto che un calciatore è un intellettuale (così come Musil notava che oggi "genio" si dice di un boxeur o di un cavallo da corsa) le sembra un fatto emancipativo o le crea disagio? Il punto è proprio quello della relazione di queste voci con i media. C'è come una specializzazione di certe voci, che diventano pubbliche in quanto hanno una presenza maniacale, una onnipresenza in tutti i canali, in tutti i talk-show, in tutti i giornali ecc. (un fenomeno largamente presente in Germania e, immagino, anche in Italia). E naturalmente questa è una specializzazione che non c'entra tanto con la facoltà cognitiva. Assistiamo insomma a un particolare sviluppo della divisione del lavoro. Sarebbe auspicabile avere nelle Pagine gialle una categoria a sé - che chiameremo "sofista"-, cioè una persona che posso invitare a una trasmissione, a una tavola-rotonda, a un qualche dibattito su un certo tema, in cambio di un previsto gettone, di un regolare compenso. E questa persona dovrebbe essere in grado, diciamo tra una settimana, con l'ausilio di una banca-dati, di una bibliografia rapida ecc., di intervenire su quel tema, disponendo s1intende di una retorica adeguata, "televisiva". Insomma si tratterebbe di una professione come tutte le altre. ' Si dice che la cultura critica, d'opposizione è morta (non si sa più bene su cosa potrebbe appoggiarsi), che gli intellettuali non sono più in grado di giudicare la società. Ma questa funzione critica della cultura si può oggi in qualche modo riaffermare? Credo che in questa presunta funzione critica, trasformatrice, assegnata alla cultura, ci sia una evidente esagerazione, una grande e nobile illusione, che riguarda soprattutto il carattere maggioritario che la cultura dovrebbe avere. L'idea marxiana che quando le masse assorbono un'idea, questa si converte in una forza oggettiva, si è rivelata in larga parte illusoria. In questo senso mi va benissimo l'attuale ridimensionamento. Credo al contrario che vada recuperato un lavoro di minoranze. Le minoranze sono una parte essenziale di qualsiasi società. E poi se si volesse proprio stabilire un'etica dell'intelligenza, la prima regola sarebbe: non illudersi. Il concetto di impegno dell'intellettuale, per quanto obsoleto, può essere riformulato, ripreso (ad es. Christopher Lasch ha scritto che lui si sente "obbligato" verso i deboli, i poveri e i diseredati del mondo non in quanto vittime ma in quanto fratelli)? Innanzitutto non credo alla superiorità morale o etica dell' intellettuale, né nel comportamento personale, né nei fatti della vita ... In questa faccenda dell'impegno c'è una parte fittizia, anche qui di illusione su se stessi: ovvero immaginarsi più nobili di ciò che si è. Certo, esistono eccezioni e differenze; ci sono ad esempio intellettuali che hanno .dimostrato una certa assenza di venalità. Ma esiterei nell'attribuire all'intellettuale, che ha essenzialmente un ruolo cognitivo, compiti morali più generali. Forse l'etica dell' intellettuale consiste soprattutto nel cercare di non falsificare il pensiero. Questo è il suo crimine specifico, mentre se per il resto della sua esistenza si comporta magari come un cane, rifiutando di aiutare gli altri ecc., beh, questo può essere condannabile ma non è specifico dell'intellettuale. Non è che noi europei lasciamo agli àmericani, da un po' di tempo a questa parte, i temi generali, rinchiudendoci in tecnicismi o problemi settoriali? Sì, è vero, c'è una tradizione americana in questo senso, idealistica, ma anche ambigua o ingenua (con i suoi aspetti missionari). Qui va registrata una differenza rilevante, e loro ci considerano (e soprattutto considerano gli italiani) cinici assoluti, secondo una vecchia (e mutua) mitologia. Lei descrive molto bene, e da sempre, alcune decisive trasformazioni culturali e del costume, offrendoci attraverso uno stile preciso e divagante diagnosi suggestive e attendibili. Ma, dato che usa spesso il pedale dell'ironia e del paradosso, non sempre si capisce bene come e dove sta. Il suo punto di vista insomma non è sempre chiaramente percepibile, come lo era ad esempio quello di un altro osservatore sociale tendenzioso, Pasolini. Cosa ne pensa? Sì, è così, ma io parto sempre da una premessa che giudico essenziale. Quando cerco di capire una cosa che ha a che fare con il sociale, considero sempre che sono parte della cosa che sto indagando. Se invece facessi il "marziano", l'alieno dalla cosa, non capirei molto. Inoltre ci sarebbe anche il rischio del fariseismo, di pensare cioè di non essere come gli altri, mentre invece io sono .anche come tutti gli altri. Il che impedisce che mi erga a giudice: sarebbe falso, sbagliato, sia dal punto di vista morale che dal punto di vista metodologico. Nel mio farmi solidale con ciò di cui parlo o di cui scrivo (in un modo che può risultare irritante), e nel mio tenermi nello stesso tempo a distanza, c'è insomma una ambiguità intenzionale, e secondo me produttiva. 7
IL CONTESTO L'''emergenza profughi" in Germania Giuseppe Guglielmi Secondo una stima del Comitato delle Nazioni Unite per i profughi (UNHCR), dei 18 milioni di profughi politici che cercano attualmente rifugio circa un milione e mezzo (1'8%) ha fatto dal 1980 domanda di asilo politico in Germania. Uno sguardo alle statistiche mette in evidenza come a livello europeo la Germania assorba un numero più che proporzionale di rifugiati politici rispetto ai suoi stati vicini. Per esempio nel 1991 quasi il 50% del mezzo milione di profughi politici ha chiesto asilo politico in Germania. Nello stesso periodo in Italia sono state presentate 23.000 richieste d'asilo. • Non c'è da meravigliarsi quindi se il problema profughi viene considerato dall'80% dei tedeschi - secondo uno degli ultimi sondaggi d'opinione - come uno dei problemi più urgenti del paese. Le fonti governative e la stampa però hanno èontribuito negli ultimi anni a diffondere un quadro distorto della situazione con la pubblicazione quasi quotidiana dei "nuovi arrivati". Stando a queste cifre in Germania dovrebbero momentaneamente trovarsi più di 2 milioni di profughi politici riconosciuti-o in attesa di riconoscimento. Solo un'attenta lettura dell'ultima interrogazione parlamentare mette sotto un'altra luce la gravità del problema profughi. Dall'istituzione dell'Ufficio Federale per il riconoscimento dei profughi politici nel lontano 1953 fino al 31 dicembre del 1991 su circa un milione e quattrocentomila domande d'asilo politico solo 150.000 persone (o l' 11,2%) sono state riconosciute come profughi politici. Delle 420.000 pratiche che dovevano essere ancora evase nel settembre del 1992, 320.000 erano le richieste d'asilo politico presentate nello stesso anno. Queste cifre da sole relativizzano, a mio avviso, l'entità del problema. Non è un caso per esempio se ancora oggi non esistono dati ufficiali sul numero esatto dei rifugiati politici al netto di coloro che vengono rimpatriati o perché la loro domanda è stata bocciata oppure perché il loro ricorso in appello non è stato accolto. Uno dei pochi dati certi che si può trarre dalle statistiche è la quota media di riconoscimento del 4,5% dagli inizi degli anni Ottanta. Dunque la Germania non è una facile seconda patria per chiunque si presenti alla frontiera e pronunci la magica parola "Asyl" così come stampa e partiti stanno facendo credere già da anni. La mancanza di una discussione seria ed equilibrata del problema ha alimentato insoddisfazione e diffuso un clima di panico irrazionale tra i cittadini tedeschi accentuando la sottile ma pur presente tendenza xenofoba. La strumentalizzazione del problema dei profughi politici ha messo completamente in secondo piano gli altri problemi ben più urgenti del paese quali la disoccupazione, il degrado sociale ed ambientale dei nuovi Stati Federali, l'escalante offensiva del neonazismo. Di fronte a quest'ultimo per esempio si è cercato di minimizzarne la gravità mettendolo sempre in relazione con l'irrisolto problema profughi. Per così dire una specie di risposta "popolare" di fronte all'immobilità del mondo politico, incapace di trovare una soluzione al problema. I vergognosi attacchi e l'interminabile serie di attentati contro i centri di accoglienza profughi hanno provocato una reazione 8 unanime di sdegno e di condanna da parte delle forze politiche, allo stesso tempo però hanno anche sottolineato nuovamente la gravità del problema (i profughi e non il nazismo!). A questo punto è più che doveroso ricordare che nel solo 1992 gruppi di neonazisti hanno ucciso 17 persone, più di quante ne abbia uccise il gruppo terroristico della Rote Armee Fraktion in quindici anni. La "valanga", la "marea" di "profughi economici", "gli imbroglioni che abusano dell'art. 16 della Costituzione" - tanto per usare alcuni correnti stereotipi della stampa - "mettono in crisi interi comuni che li accolgono, strapazzano la pazienza e il portafoglio dei cittadini, mettono in pericolo la pacifica convivenza civile". Il capovolgimento dei fatti porta a una perversione del rapporto causa-effetto. A livello politico la strumentalizzazione del problema dei profughi porta a una conseguenza più che assurda. I partiti responsabili per la cosiddetta "emergenza profughi" - come lo ha definito nello scorso dicembre il Cancelliere Kohl - richiamano l'opposizione alle sue responsabilità politiche, cioè le forze governative scaricano il problema sulla SPD che, ferma ai suoi principi, non era disposta a modificare l'articolo 16 della Costituzione tedesca che garantisce il diritto d'asilo. Gli aspetti appena accennati mostrano come il problema profughi sia in realtà da una parte un surrogato per distogliere dai veri problemi del Paese e dall'altra svolga una funzione di politica interna non poco irrilevante. Bisogna per esempio menzionare che la discussione tendente a concedere un nuovo stato giuridico e sociale ai circa 7 milioni di stranieri che vivono in Germania è stata automaticamente bloccata dagli eventi. Il diritto di voto, le facilitazioni economiche e sociali per l'integrazione degli immigrati sono stati congelati forse per sempre. Non è un caso a mio avviso che l'incaricata governativa per gli immigrati, la democristiana Liselotte Funcke, abbia ceduto con amarezza l'incarico dopo 10 anni di sincero impegno e abbia allo stesso tempo denunciato e condannato la debolissima volontà politica e il diffuso disinteresse per i problemi degli stranieri. Basta pensare che ancora oggi il governo di Bonn ritiene la residenza degli immigrati di carattere temporaneo e si rifiuta di considerarsi un paese d'immigrazione. Ebbene, è mia intenzione nel seguente articolo sfatare la leggenda della "valanga dei rifugiati" che invade la Germania e inoltre di dimostrare il divario esistente tra garanzia costituzionale e realtà. L'art. 16 della Costituzione parla chiaro: "I perseguitati politici godono-del diritto d'asilo". Questa garanzia costituzionale e la pubblicazione quasi quotidiana dei rifugiati che si ammassano alle frontiere hanno contribuito a diffondere la falsa impressione che senza grandi formalità burocratiche la Germania diventi un'arca di Noè per i disperati politici e non di tutta la terra. In effetti è un'opinione molto diffusa in Germania che solo una minima parte dei cosiddetti rifugiati sono da considerarsi politici, la gran parte dei profughi abusano dell'art. 16 e sono quindi profughi economici. Il numero sempre crescente di domande d'asilo politico e la quota media di riconoscimento molto bassa del 4,5% hanno posto il problema dell'abuso dell'art. 16..inprimissimo piano e hanno creato un pericoloso clima di caccia alle streghe discriminando e diffamando l'intera categoria dei perseguitati politici. La realtà è ben diversa anche se politici e mass media hanno sistematicamente svolto un ruolo di disinformazione molto tendenzioso. Gli appelli, le petizioni e gli sforzi delle organizzazioni umanitarie e di alcuni ecclesiastici per correggere' questo quadro deviante della realtà sono rimasti purtroppo senza esito. \
In realtà il diritto d'asilo garantito dalla Costituzione è stato notevolmente ristretto nel corso dell'ultimo decennio e precisamente nell'era Kohl. Il recente compromesso tra governo e opposizione ha ulteriormente ristretto la garanzia del diritto d'asilo come hanno fatto notare le associazioni profughi e Amnesty International. Esiste in effetti un enorme divario tra la garanzia costituzionale e la realtà politica. Bastano alcuni esempi per evidenziare questa discrepanza: ~ Dal 1983 la tortura non è più una ragione sufficiente per richiedere asilo politico. La Corte del Baden-Wiirttemberg ha per esempio respinto la domanda d'asilo politico di un cittadino turco nel 1989 con la motivazione "che in Turchia la prassi della tortura non viene usata solo contro i perseguitati politici". - Dal 1985 esiste l'obbligo del visto per molti paesi (ci si immagini la tragica situazione di un profugo politico che sotto gli occhi dei suoi persecutori si presenti al consolato tedesco del luogo per richiedere il visto). - I provenienti da un paese che si trova in guerra civile non vengono riconosciuti come rifugiati politici per la mancanza di uno stato giuridico degli stessi. - Da diversi anni la quota di riconoscimento di asilo politico è molto bassa, cioè del 4,5%. Nell'ultimo accordo tra governo e opposizione oltre a diverse restrizioni di natura giuridica e amministrativa è stata introdotta la molto discutibile clausola del "terzo paese". Se un profugo romeno per esempio si presenta alla frontiera polacco-tedesca, non ha diritto di chiedere asilo politico in Germania poiché, essendo la Polonia considerata un paese sicuro, la "presunta persecuzione" del profugo viene a cadere. Per Berlino. Foto di Egidio Paoni (agenzia Controsto) IL CONTESTO assurdo quindi solo i profughi provenienti con l'aereo avrebbero in futuro la possibilità di venire riconosciuti profughi politici. Non a caso Amnesty Intemational ha parlato di "profughi di lusso". Con questa regolamentazione la Germania ha dunque da una parte richiamato i paesi confinanti alle loro responsabilità e dall'altra ha per così dire innalzato una nuova cortina di ferro. Proprio questa legge ha aumentato in numero considerevole i perseguitati che cercano di passare la frontiera illegalmente. Ancora più grave è a mio avviso la lista elaborata dal Ministero degli Interni dei cosiddetti "paesi sicuri". Si viène così a creare una situazione dove i membri di molte minoranze etniche o religiose perseguitate e di gruppi politici d'opposizione non hanno praticamente nessuna possibilità di venire riconosciuti perseguitati politici se il loro paese è considerato un "paese sicuro". Quindi paesi come la Turchia, il Togo, la Liberia, l'India, la Nigeria, il Pakistan, e tanti altri dove secondo l'ultimo libro bianco di Amnesty Intemational gravissime violazioni dei diritti umani sono ali' ordine del giorno, vengono catalogati come paesi sicuri e democratici. Dejure non è stata toccata la Costituzione, de facto però con gli emendamenti di legge e una nuova procedura giuridica si è resa molto fragile la garanzia del diritto d'asilo contenuta nell'art.16. Dopo anni di "garantismo" spietato la SPD ha rivisto di colpo le proprie posizioni riguardo al problema e si è quindi addossata delle responsabilità che secondo me erano unicamente frutto di negligenze dei partiti governativi. A questo proposito vorrei menzionare: - L'estrema lentezza della macchina burocratica. Nonostan9
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