Linea d'ombra - anno XI - n. 80 - marzo 1993

IL CONTESTO produrre e a valorizzare - inghiotte se stessa, anche i successi e le affermazioni, gli errori e i problemi che ciascuno può esibire perdono senso e importanza. Facendoci fare un passo indietro, portandoci per così dire sull'orlo dell'abisso dal quale stiamo parlando, Il grande cocomero racconta come l'unico modo di stare dentro questo mondo e salvare qualcosa del proprio senso e del proprio valore stia nel tenere continuamente aperto il varco, nel divaricare al massimo lo spazio dove costruire la possibilità di una pratica critica, della concreta e quolidiana capacità di dire, trasformare, curare. E come l'unica maniera per reggere questo sforzo minimo e faticosissimo stia nella capacità di coltivare una propria utopia. E qui bisogna aggiungere qualcosa, perché nemmeno le parole più nobili scampano al degrado dei tempi. Utopia, dunque, non come sistema di valori da imporre o realizzare e nemmeno tanto come chance diversa concessa agli uomini. Utopia anzitutto come una possibilità che ciascuno di noi dà a se stesso, come espressione di impegno intanto individuale, di fiducia intanto nel proprio io, nella propria potenzialità. Dietro la generosità disincantata e imperiosa di Marco come nelladisponibilitàmiteequasi dimessadell' Arturo del film c'è in realtà un grande orgoglio, un forte senso di sé; ma soprattutto la precisa consapevolezza che questo valore ha senso solo se si dà valore agli altri, alle loro identità, alle loro qualità. Anche questa elementare connotazione della rilevanza individuale è stata cancellata da un tempo che ha deteriorato non solo le virtù ma persino i vizi. E infatti gli anni del cinismo individualista non hanno 6 prodotto individualità. Ma solo un conformismo senza spessore né prospettive, e una massa di corrotti senza qualità e senza dignità, fantocci che immediatamente si afflosciano non appena si svela il disastro grottesco che hanno provocato. Il frutto della stagione del narcisismo è un io minimo e mediocre. Per salvare la società bisogna salvare gli individui. Il medico che sacrificando ogni altra dimensione della vita prova a salvare gli altri, sta salvando se stesso. E lo sa. Nelle ore buie in cui questo film appare sugli schermi, c'è un messaggio politico che non so se siamo ancora in tempo a raccogliere. Potrebbe essere una sorta di appello ai tanti dispersi dagli anni degli arricchimenti e del disimpegno, delle famiglie e dell'isolamento, delle professioni e delle corruzioni, ai tanti artefici apatici e alle vittime compiaciute degli anni Ottanta. In questo paese ormai le ragioni della salvezza individuale e quelle della salute pubblica coincidono. Dal campo di segale sembra che stiamo cadendo tutti, e nessun medico-Dio ci può salvare. Eppure la fiducia, la realizzazione, il piccolo successo che Il grande cocomero racconta finiscono per uscire dall'ambito della storia singola e irrip~ibile che vi si racconta. Bisogna credere in se stessi e negli altri per uscire dalla palude esistenziale e sociale. E ritrovare il coraggio di fare quello che si può fare, col senso dei propri limiti e ancor più degli enormi, tragici limiti universali ("Perché i bambini muoiono?"), ma anche con la consapevolezza dell'importanza di ogni gesto, ogni scelta, ogni azione (e ogni omissione). Il grande cocomero, l'esperienza che vi traspare e che vi leggiamo, ci invita a rimettere in gioco gli adulti che siamo diventati in questa Italia avvilita e invecchiata.

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