Linea d'ombra - anno XI - n. 80 - marzo 1993

SAGGI/BERARDINELLI normatività che la lingua media, in quanto lingua d'uso, di comunicazione empirica, non può conoscere. L'assolutezza e sublimità linguistica notata da Pasolini è insomma artistica e non linguistica. Anche quando la polemica contro la normalità piccoloborghese diventerà una polemica violenta (con gli anni Sessanta: in Pro o contro la bomba atomica, ne Il mondo salvato dai ragazz.ini e ne La Storia), la lingua, anche quella del saggio e della lirica-pamphlet, sprigionerà violenza polemica dall'alto di una cantante allegria, scaraventando le idee di libertà più sublimi come petardi e girandole contro la "normale criminalità" della storia moderna. Ciò che ben pochi allora riuscivano ad accettare, e cioè la trasformazione del saggio ideologico in favola e racconto d'avventure, con lotte infantili fra il bene e il male, era in realtà un modo di scoprire la sostanza mitica che alimenta ogni azione agonistica e un modo di custodirne il potenziale simbolico al di là delle contingenze. La favola ideologica raccontata in Pro o contro la bomba atomica risulta oggi più realistica e più politicamente nutritiva dell'intera collezione dei Quaderni rossi. Essendo caduto, sbadatamente, nell'imbuto della polemica, vorrei restarci ancora un momento, approfittandone per ricordare rapidamente (ma ho anche un dovere di informazione) alcune circostanze poco gradevoli. Questo convegno vorrebbe, tra l'altro, superare quelle circostanze: che, all'incirca, consistono in questo: nonostante i giudizi ammirati (non senza repentini scarti limitativi: tipiche certe battute insidiose di Emilio Cecchi), nonostante i riconoscimenti che alle opere diElsa Morante, soprattutto all'inizio, hanno tributato critici famosi e geniali (ricordo almeno Debenedetti e Lukacs), per diverse ragioni che sarebbe interessante analizzare, questa scrittrice, possiamo dirlo, non è mai entrata in pacifica sintonia con la cultura letteraria, specialmente italiana, del proprio tempo. Questo tempo, di cui parlo un po' pomposamente come se fossi uno storico, è ancora il nostro tempo: un periodo che parte dagli anni Quaranta e occupa la seconda metà del Novecento. Ora, se guardiamo senza preconcetti a questo periodo semi-secolare e valutiamo, per esempio, l'importanza centrale, l'autorità quasi da "classici del presente", che hanno assunto Pasolini e Calvino, non può sfuggirci, anche nel confronto, la grandezza di Elsa Morante. Le graduatorie e le misurazioni non godono di buona fama: vengono ritenute improponibili, difficilmente motivabili, se non insensate e meschine. Però mi piace Forster quando dice: "Nessun romanziere inglese è grande come Tolstoj". Eppure se ne fanno di continuo, e per lo più senza dichiararlo, cioè senza che ci si assuma la responsabilità delle gerarchie e delle preferenze su cui si fondano non solo le nostre "insindacabili" (diciamo) letture private, ma anche i discorsi professionali sulla letteratura più spersonalizzati (una novità confortante la trovo nella Storia della letteratura italiana, recente, di Giulio Ferroni. È la prima volta che in una storia letteraria viene dedicato ad Elsa Morante un intero capitolo monografico accanto a pochi altri: Pirandello, Svevo, Montale, Gadda e Calvino). È vero che l'originalità, o a volte la grandezza solitaria di uno scrittore provocano reazioni di rigetto e di ostilità da parte della critica conformista (che ovviamente, per definizione, è anche la maggior parte della critica). Ma certo questo non può servire ad assolvere, per fare un solo specifico esempio, la persistente 52 sordità di quella folla di cosiddetti narratologi, o scienziati delle strutture narrative, che quasi non si sono accorti di quanta coscienza meta-letteraria, storica e tecnica, contenessero i romanzi di Elsa Morante. Soprattutto Menzagna e sortilegio e La Storia, che dispiegano una pluralità di piani, episodi e sviluppi narrativi concomitanti e secondari, possono essere considerati delle riletture sinottiche della tradizione del romanzo: vere e proprie enciclopedie delle tecniche e delle tematiche romanzesche precedenti. Quasi che il romanzo, per conquistarsi il suo ormai contrastato diritto di esistenza, avesse bisogno, dopo crisi e catastrofi, di fare appello a remote fonti di legittimazione, di ritrovare fondamenta profonde e stabili, evocando, con un atto di strenua magia artigianale, tutte le forme più solide e preziose del suo glorioso passato, sia moderno che pre-modemo. Si potrebbero infine, per comodità didascalica e per divertimento polemico, individuare almeno tre fronti di resistenza e di ostilità, che hanno lavorato per tenere a distanza la grandezza evidente, credo, di questa scrittrice: 1. Il fronte, possiamo dire, avanguardistico in senso lato, favorevole alle scritture provvisorie, sperimentali, d'intervento: qui troviamo Vittorini, dal "Politecnico" al "Menabò", l'espressionismo filologizzante e ideologico di "Officina", il Gruppo 63 quasi al completo, e più tardi anche Calvino, ambiguo e astuto alleato dell'avanguardia francese. 2. Un fronte politico, prima prevalentemente populista e poi prevalentemente super-marxista, favorevole prima ad un impegno letterario politicamente conforme, o più tardi negatore del valore conoscitivo di ogni forma d'arte: qui si va dal neorealismo alla Nuova Sinistra, con qualche rara eccezione (Cases, tra il sì e il no, Fortini, pronto a riconoscere l'eccellenza artistica, pronto a non farsela bastare, eccetera). 3. Il fronte, infine, definibile "degli scienziati della letteratura": che avendo messo al bando, come non scientifico, non professionistico, sia il giudizio di gusto che il giudizio di valore, si sono tramutati in lettori senza giudizio: si sono resi muti e ciechi di fronte alla qualità dei libri che leggevano, o, più precisamente, radiografavano. La Storia, per loro, valeva, se valeva, come best seller. Bisogna constatare, del tutto obiettivamente, che il dominio di queste tendenze, spesso alleate, della cultura letteraria italiana negli ultimi decenni ha fatto sì che, dopo la scomparsa dei maggiori critici della prima metà del secolo, si determinasse un vuoto nella "ricezione" delle opere di Elsa Morante. Un vuoto che peraltro, periodicamente, si è riempito di un'ostilità accesa e un po' cieca. Solo più recentemente, negli ultimi dieci anni, un certo esaurimento di quelle culture ha permesso che si cominciasse a vedere più chiaramente, e senza pregiudizi, l'edificio grandioso costruito da questa scrittrice: in cui l'audacia intellettuale e morale non è stata inferiore al genio letterario. Se poi non sappiamo più che cosa significa "genio letterario", allora credo che questa sia una buona occasione per scoprirlo. Elsa Morante sapeva che le difficoltà umane da cui nasce la più alta cultura sono vulnerabili e perseguitate da vari mostri, e che la loro difesa richiede sempre, anche nelle circostanze più comuni, una certa dose di istintivo eroismo.

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