Linea d'ombra - anno XI - n. 80 - marzo 1993

SAGGI/BERARDINELLI generale, del romanzo moderno o novecentesco in particolare, della situazione italiana nella quale Elsa Morante ha scritto i suoi romanzi. L'idea che un autore si fa delle proprie opere non è detto che sia la più obiettivamente attendibile. Intenzioni e autovalutazioni sono a loro volta testi da interpretare. Ma anche le interpretazioni critiche rivelano presupposti non chiaramente dichiarati. Un certo squilibrio, comunque, una ricorrente difficoltà, quanto meno, nei rapporti fra la critica letteraria italiana e i romanzi di Elsa Morante, è un fatto ben noto a tutti, al punto da poter essere preso, ormai, come un punto di partenza. Se si considerano però, per un momento, le cose in prospettiva panoramica, si può osservare che almeno nella seconda metà del Novecento, nessun altro scrittore italiano ha sentito e affrontato la crisi e la minaccia di fine del romanzo con la lucidità e il coraggio inventivo di Elsa Morante. Accanto a Giacomo Debenedetti, che ha dedicato al problelna la maggior parte delle sue energie e del suo genio critico, Elsa Morante ha visto nel romanzo la forma letteraria moderna per eccellenza. Moderna anche per la sua potenzialità magnetica di ripercorrere a ritroso la propria storia borghese, per risalire a origini pre-borghesi, all'epica antica e a quella cavalleresca, nonché ai grandi cicli fiabeschi occidentali e orientali. Qui la comprensione ininterrotta e generosa che la critica ha accordato a Italo Calvino potrebbe tornare utile anche al di fuori dei confini dell'opera di Calvino. Il quale, si può dire senza rischio di grave errore, ha considerato la cultura, diciamo ottocentesca, del romanzo esaurita, se non pericolosa e inutilmente ingombrante, fin dall'inizio della sua attività di scrittore. E Calvino, ponendosi al di là del romanzo, evitando i labirinti dell'autocoscienza e i mosaici sociologici, doveva risalire al di là del romanzo realistico, psicologico e sociale borghese, verso il "conte philosophique" e oltre, più indietro, verso poemi cavallereschi, fiabe medievali, libri di viaggio e infine poemi filosofici e mitologici antichi (insomma dall'Odissea, epica di avventure e portenti e viaggi, ali' Orlando furioso, epica di magie e favole illusorie popolata da personaggi nitidi e coloriti come proverbi, per arrivare a Robinson e Candido). Voglio dire che qualcosa di analogo a quanto ha fatto, ed è stato costretto a fare, Calvino con il racconto e la narrazione breve e snella, Elsa Morante ha fatto con la forma del romanzo: l'apparente continuità con le forme tradizionali del romanzo nascondeva e insieme rivelava la coscienza, e direi l'ansia, dell'interruzione di quella continuità, con i rischi di distruzione e di perdita che ogni interruzione di tradizione comporta. Non diversamente da Calvino, Elsa Morante ha sentito la fine del romanzo, l'esaurimento del suo ciclo vitale e della sua fisiologia realistica e naturalistica. Ma diversamente da Calvino, che ha sempre avuto la vocazione per le forme brevi (dalla fiaba all'elzeviro), Elsa Morante ha avuto invece la vocazione di accogliere e riassumere una totalità di esperienze personali e letterarie dentro una forma onnicomprensiva, protettiva, fatta di volte vertiginose e di navate e cappelle laterali. Più che usata come una modalità stilistica a portata di mano, la forma romanzesca andava però evocata dal suo passato. Menzagna e sortilegio è stata la resurrezione ironica e sublime del romanzo dopo la sua fine: o un momento prima che questa fine giungesse. Mentre Calvino è stato un narratore che 50 virtuos1st1camente evade dal romanzo, facendone perfino dimenticare la precedente esistenza, Elsa Morante ha virtuosisticamente costruito il romanzo come lo strumento di una meditazione trascendentale sul presente e come esercizio di memoria rituale rispetto alla forma narrativa centrale di una tradizione minacciata. Quella stregata atmosfera di tempo sospeso, o di sognata, meditativa intemporalità, che colpiva tanto in Menzogna e sortilegio (e che si prolunga anche nei tre romanzi successivi), indicava che l'esistenza del romanzo, quale Elsa Morante lo intendeva e lo amava, non apparteneva interamente al presente storico, di fatto e per diritto naturale. Apparteneva almeno in eguale misura al passato, al suo passato storico e, ormai, al suo passato immemoriale di archetipo. Era l'archetipo narrativo a rendere umanamente, cioè culturalmente reali gli eventi disgregati della cronaca. Di questa natura di archetipo fanno parte, nei romanzi di Elsa Morante, tutti i livelli e le strutture dello stile: dalle tipologie dei personaggi fino alla sintassi e, a volte, al lessico. Arcaismi che non hanno niente del calco o dell'innesto filologico: perché la lingua letteraria usata dalla scrittrice (anche nelle invenzioni lirico-saggistiche che si trovano in quel lungo monologo tragico che èAracoeli) è una lingua che si potrebbe definire con una frase delle prime pagine di Menzogna e sortilegio: la lingua nella quale una bambina morbosamente fantasiosa di dieci anni trasforma il "dramma piccolo-borghese" dei suoi genitori "in una leggenda" (p. 18, ediz. 1975). Ciò che perciò avviene nell'insieme del romanzo, avviene, deve avvenire, anche nella lingua. Il dramma è un dramma vero, vissuto e scontato interamente dai suoi protagonisti, anche se la sua determinazione storica e sociale è piccoloborghese (la classe che nel modo più moralistico, ma anche più follemente fantastico, ha vissuto le vocazioni culturali). Visto da una bambina, per la quale quella società è la sola società reale e possibile, ed è la scorza contingente del destino, il dramma piccolo-borghese si trasforma in una leggenda. Così la lingua limpidamente ordinata e perfettamente comuni'tativa di Elsa Morante è la lingua borghese media trasfigurata in una lingua leggendaria, una lingua adatta a raccontare quelle vite di re, eroi e santi su cui la piccola borghesia letterata ha sognato fino alla perdizione per più di un secolo. Lingua media sublime, si potrebbe dire, sollevata fuori della sua normalità, in un tempo fermo di leggenda. La definizione che ne diede nel 1964 Pasolini in Nuove questioni linguistiche, benché fosse una definizione in parte limitativa e negativa, data la poetica pasoliniana del mimetismo linguistico sperimentale (non priva di qualche estetismo da filologo, sulle orme di Contini), mi sembra una definizione che va al di là della considerazione linguistica in senso stretto, e che tocca alla radice il rapporto di Elsa Morante sia con la letteratura che con il linguaggio in generale. Scrive Pasolini:"Molto particolare è il rapporto con l'italiano medio di Elsa Morante: per così dire essa occupa tutti i livelli al di sopra della linea media: dal livello che sfiora la lingua media, a quello eccelso occupato dagli scrittori in stile sublimis. Infatti la Morante accetta l'italiano in quanto corpo grammaticale e sintattico mistico, prescindendo dalla letteratura. Essa pone in contatto diretto la grammatica con

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