SAGGI/BERARDINELLI Ogni destino è una storia di precedenti. La, narrazione è un metodo di conoscenza per precedenti e conseguenze, dove lo spazio si incrocia col tempo, e ogni "ora" ha un "prima". di cui è capace il romanzo. Il romanzo è il rimedio del romanzesco. La fantasia che narra è la cura della fantasticheria vissuta come accecamento. Sempre il romanzo ha raccontato questa vicenda (se possiamo parlare del romanzo come di una struttura perenne, di un archetipo): la fantasia giovanile si trasforma e diventa cosciente di sé. Tutti i rischi di infatuazione radicati nell'esperienza erotica, estetica, religiosa e snobistica, si fissano in vicende e figure dipinte per sempre nel tessuto durevole del romanzo. Il romanzo è una cattedrale elevata alla realtà con il materiale del sogno. C'è qualcosa di austero e, appunto, di kantiano in questa devozione di Elsa Morante per la forma a priori del romanzo. Il romanzo viene inteso come una fonte di princìpi ordinatori dell'esperienza.Un sostegno e conforto dell'intelletto perché non si smarrisca nei labirinti demoniaci della gretta stupidità o della pazzia. Il saggio di "Nuovi Argomenti" Sul romanza, scritto nel '59, rende esplicite le ragioni di questa devozione. Ed è anche notevole che, dopo molti anni in cui cercò, e sembrava prediligere, altre forme e generi letterari, come il pamphlet poetico o la lirica ideologica (nel Mondo salvato dai ragazzini e in Pro o contro la bomba atomica), E.M. sia poi tornata alla grande architettura romanzesca con La Storia, epica realistica della società, come Menzagna e sortilegio era epica della coscienza (una sorta di fiabesca "fenomenologia dello spirito"). Il romanzo veniva continuamente abbandonato e più tardi reinventato. In ogni romanzo di Elsa Morante è proprio l'intera struttura e costituzione del mondo, si direbbe, che viene rielaborata e definita di nuovo. Prima l'irrealtà divorante, il morbo fantastico, che sprigiona follia da una passione idolatrica, erotico-snobistica. Poi l'isola della felicità e dell'avventurosa innocenza, l'eroe ragazzo che incontra la realtà come incubo della degradazione e dell'umiliazione. Poi la strage degli indifesi e della stessa realtà vivente da parte di una Storia che si mostra col volto di una sanguinaria impresa burocratica. Poi infine l'invocazione desolata di un infelice uomo maturo a sua madre, oltre la morte, perché alla madre risalgono tutte le più drogate promesse di felicità. Sempre i padri e le madri, che sono, per ogni figlio, divinità primordiali e primarie, i garanti della realtà, gli ispiratori di un destino, sempre i padri e le madri ingannano e corrompono. Nello svelamento della loro umiliazione, miseria, follia e auto-distruzione (Anna, Wilhelm, Ida, Aracoeli) preparano l'infelicità dei loro figli. Con la loro rovina, è tutta la realtà che vacilla, che viene investita dalla bufera del nulla. Ogni destino è una storia di precedenti. La storia di ogni figlio e figlia è preceduta dalle storie di padri e madri. E dalla storia dei genitori, anche, dei padri e delle madri. La narrazione romanzesca è un metodo di conoscenza per precedenti e conseguenze, dove lo spazio si incrocia col tempo, e ogni "ora" ha un "prima". Ogni eroe protagonista, per conoscere e rivelare se stesso, deve raccontare la storia della propria famiglia. È lì, è all'insaputa del personaggio, che vengono decise le carte con cui si giocherà la partita fra io e mondo. I romanzi di Elsa Morante propongono ogni volta un intero "sistema del mondo" tramite un nuovo personaggio. Come ha osservato anche Giacomo Debenedetti, interrogandosi su che cosa fa di una narrazione un romanzo, è il personaggio, è questa misteriosa forma di "alibi" o di proiezione e trasposizione del narratore, il vero agente vitale della forma del romanzo. Il romanziere è letteralmente "infestato", occupato, posseduto dai suoi personaggi. È questo che periodicamente avveniva a Elsa Morante. La misteriosa chiamata a narrare la storia di un personaggio era un evento che continuava a meravigliarla, e di cui a volte parlava, scherzosamente, come di un'anomalia ben strana, e incoercibile, nella mente del romanziere: la cui vocazione è, precisamente, mettersi al servizio di personaggi i quali comandano all'autore che la loro vicenda venga raccontata. Ma il personaggio che guida e comanda, e che permette la narrazione romanzesca, è anche un emissario delle Muse, è un inviato dell'ispirazione. È il mediatore, grazie al quale chi scrive e racconta può all'improvviso parlare di tutto, nominare l'intera vita dal punto di vista "relativo" di un destino in atto, cioè di un carattere e di una vicenda. È il personaggio il tramite, per il romanziere, alla conoscenza della realtà: "E allora, nel momento di fissare la propria verità attraverso una sua attenzione del mondo reale, il romanziere moderno" - scrive Elsa Morante nel saggio Sul romanza (1959, "Nuovi Argomenti")- "in luogo di invocare le Muse, è indotto a suscitare un io recitante (protagonista e interprete) che gli valga da alibi. Quasi per significare, a propria difesa: 'S'intende che quella da me rappresentata non è la realtà; ma una realtà relativa ali' io di me stesso, o ad un altro io, diverso in apparenza, da me stesso, che in sostanza, però, m'appartiene, e nel quale io, adesso, m'impersono per intero'" (in Pro o contro la bomba atomica, pp. 53-54). Misteriosa, insondabile è la nascita del personaggio, l'evocazione di un "io recitante", non meno di quanto fosse l'intervento decisivo delle Muse. Personaggio e "io recitante" è dunque l'altro nome dell'ispirazione: della condizione necessaria non solo a iniziare, ma a condurre nel giusto senso il veicolo del romanzo. È solo la sua presenza che trasforma un'opera in prosa, prosa d'arte, di riflessione, in romanzo, in una continuità verisimile del tessuto narrativo, che stringe insieme il qui e ora, il prima e il poi, in una serie di atti ai quali una coscienza dà o cerca di dare un senso. È quasi inevitabile, o comunque è una tentazione continua, quando si parla di Elsa Morante, riflettere su quella vera e propria, implicita ma ben consapevole, teoria del romanza che è contenuta nei suoi romanzi. Non posso credere di inoltrarmi in un tale argomento e di uscirne poco dopo con una topografia soddisfacente. Posso solo limitarmi, come ho fatto, a ricordare una serie di evidenze, sulle quali tuttavia non mi pare che si sia ancora fermata abbastanza l'attenzione. Neppure sulla più macroscopica di queste evidenze, cioè l'idea di romanzo e la sua realizzazione, si è ancora stabilito fra i lettori e i critici, mi pare, un minimo e utile accordo. Chiedendomi, anzitutto, come ho fatto all'inizio, che cos'è un romanzo, che cos'è il romanzo per Elsa Morante, volevo suggerire che forse, in verità, non si è neppure presa ancora in seria considerazione, come dotata di valore oggettivo, la riflessione della scrittrice su questo tema. Né ci si è chiesti, ad esempio, se le curiose oscillazioni interpretative di critici e recensori siano per caso dovute proprio ad un'idea presupposta del romanzo in 49
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