SAGGI/BERARDINELLI "Ero convinta che il romanzo, come lo si intendeva nell'800, era in agonia. Allora, io ho voluto fare quello che per i poemi cavallereschi ha fatto Ariosto: scrivere l'ultimo e uccidere il genere." vista in uno stato di sogno, ridirla come si è vista, cercare soprattutto di ricordare. Ché forse tutto l'inventare è un ricordare". Il romanzo come sogno e ricordo di una cattedrale? Siamo forse autorizzati a ipotizzare, in Elsa Morante, un sogno del romanzo in quanto forma a priori, forma simbolica, ordinatrice dell'esperienza nella sua globalità. Sogno e ricordo, memoria cosciente e rimemorazione onirica della forma romanzo come cattedrale che si erge a garanzia del significato reale dell'esperienza. Nel diario dei sogni da cui sto citando, intorno a quelle strane cattedrali, che fanno pensare alle solide, felici e solenni forme di un passato culturale glorioso (Roma, Venezia, Firenze, Pisa, o l' Alhambra di Granada), intorno a quelle architetture "grandi" e "ombrose" che occupano lo spazio fra cielo e terra, c'è uno spazio occupato da un'ansia desolata (la paura della stupidità e della schiavitù) e dalle minacce del più distruttivo dei sentimenti: l'umiliazione. Quella subìta, e, immediatamente dopo, quella inflitta a qualcun altro. Il diario, al 19 gennaio, si apre proprio così: "la mia vita diventa ogni giorno più stupida, una schiavitù e un'ansia dei bisogni fisici: materiali e sessuali. Me ne accorgo dai miei sogni". E il giorno dopo: "Ieri dev'essere stata per me una giornata piena di soffocate umiliazioni. In tal modo spiego i sogni di stanotte( ...) Che ero umiliata si vede dal fatto che poi, nel sogno, ho umiliato, mi sono accanita nell'umiliare. Ho umiliato delle creature indifese, abbiette". Poco oltre, alla data 23 gennaio, si legge: "Voglio altri sogni, un'altra vita. I miei sogni continuano a rivelarmi le sudicie correnti della mia vita, i bassi padroni che la tengono preda". Non credo di fare interpretazioni psicanalitiche azzardate se dico che è da questa zona oscura (l'umiliazione familiare, sociale, sessuale) che si alzano le cattedrali misteriose. Quasi che il caos onirico, con le sue sabbie mobili, trovi o prometta un cosmo nella solida architettura della "costruzione romanzesca". La composizione di Menzagna e sortilegio ha inizio nel 1943 (il titolo iniziale era Vita di mia nonna), e apre un nuovo periodo nel!' attività di Elsa Morante. Rispetto al precedente, occupato dai racconti e da un'intensa produzione "feuilletonista", questo periodo, come osservano Cecchi e Garboli nella Prefazione alle Opere (Mondadori 1988), è caratterizzato da "un diverso ritmo di produzione". In questo senso, il passaggio dalla forma breve del racconto e della puntata di "feuilleton" alla forma distesa e pacata del romanzo coincide con un modo diverso di concepire e di vivere il lavoro letterario. La scoperta del romanzo, che sarà anche una continua riscoperta ad ogni nuovo romanzo, avviene in quegli anni come sintesi e superamento delle precedenti esperienze. Il romanzo è un modo di rivivere, scrivendo, costruendo un completo e complesso edificio, la propria vera storia e il proprio mito. Celebrare quel mito e interpretarlo. Celebrarlo e demolirlo. Si può dire che questo rallentamento del ritmo compositivo, e l'apertura di un orizzonte straordinariamente ampio, si sente fin dalle prime battute di Menzagna e sortilegio. La scelta della forma-romanzo segna il passaggio alla maturità: "Le mie immaginazioni giovanili - riconoscibili nei racconti del Gioco segreto -" (come scriverà anni più tardi, intorno al 1959) "furono stravolte dalla guerra, sopravvenuta in quel tempo. Il passaggio dalla fantasia alla coscienza (dalla giovinezza alla maturità) significa per tutti un'esperienza tragica e fondamentale. Per me, tale esperienza è stata anticipata e rappresentata dalla guerra: è lì che, precocemente e con violenza rovinosa, io ho incontrato la maturità. Tutto questo io l'ho detto nel mio romanzo Menzagna e sortilegio anche se della guerra, nel romanzo, non si parla affatto. Menzogna e sortilegio, pubblicato da Einaudi nel 1948, rimane per me il libro più notevole che io ho scritto fino a oggi: tale che forse non potrò mai scriverne un altro dello stesso valore" (Opere, I, p. XLIV). Vocazione e ambizione romanzesca trovano appunto solo allora il loro momento di realizzazione matura. Due cose, per ora, sappiamo sul senso di questa scelta: il romanzo è una vasta e solenne architettura, una cattedrale con le sue vetrate: è il tempio nel quale si svolgono i riti del riconoscimento di sé e della conquista della coscienza. Vasta costruzione e passaggio dalla giovinezza alla maturità, il romanzo è però anche, come abbiamo intravisto in una pagina di diario, il sogno del romanzo: la rimemorazione di un'idea platonica, o meglio l'attivazione, l'attualizzazione di una fondamentale forma simbolica a priori. Elsa Morante scrive Menzagna e sortilegio ricordando il passato, ripercorrendo la storia di due donne, la nonna Cesira e la madre Anna, da cui è segnato lo stesso destino di Elsa, la protagonista narrante. Ma ciò che viene ricordato e ridisegnato con ogni attenzione e cura, con uno scrupolo artigianale che ha qualcosa della devozione religiosa, o della venerazione e ammirazione idolatrica, è la costruzione romanzesca per se stessa. Il romanzo è cioè anche l'evocazione magica, stregonesca, dell'idea, dell'archetipo del Romanzo. Così il gesto, l'atto inaugurale con cui la scrittrice pone mano alla sua prima opera romanzesca, era anche il gesto e l'atto con cui veniva evocata una forma artistica gloriosamente inattuale. Le esplicite dichiarazioni in proposito di Elsa Morante sono note: le leggiamo sulla quarta di copertina dell'edizione Einaudi Struzzi del '75: si tratta di una pagina preziosa di auto-interpretazione retrospettiva: "( ...) assediata da tali 'magnifiche ombre', l'io-recitante di Menzogna e sortilegio s'incammina verso la necropoli del proprio mito familiare: pari a un archeologo che parte verso una città leggendaria, per disseppellire, alla fine, solo delle povere macerie. (...) Il modello supremo di Menzagna e sortilegio è stato il Don Chisciotte - senza dimenticare, in diversa forma, l'Orlando furioso. Difatti, come quegli iniziatori esemplari della narrativa moderna segnavano il termine dell'antica epopea cavalleresca, così, nell'ambizione giovanile di Elsa Morante, questo suo primo romanzo voleva anche essere l'ultimo possibile nel suo genere: a salutare la fine della narrativa romantica e post-romantica, ossia dell'epopea borghese. E una tale ambizione non poteva, naturalmente, non rendersi nel linguaggio, in cui la dovizia romantico-barocca, decorata allusivamente di arcaismi sette-ottocenteschi, è corretta dai giochi dell'ironia. (...) Una parte dei critici( ...) lo hanno situato fra i classici del realismo sociale; mentre altri lo hanno sistemato nel regno onirico della fiaba e dell'inconscio, o dentro le fantasie nere alla Poe". Qualche anno prima, in un'intervista a Miche! David per "Le Monde", venivano dette, più o meno, le stesse cose: "Non ho il 47
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