SAGGI/STEINER Ciò di cui abbiamo bisogno sono luoghi, per esempio un tavolo con delle sedie attorno, in cui imparare di nuovo a leggere, a leggere insieme. - un riflesso psicologico (leggermente) affine a quello che abbiamo definito prima, anche per l'arte, un'intermittente dialettica del ritrarsi e dell'epifania. È da questa posizione divisa che crescono le "scuole di lettura", le discipline esegetiche ed ermeneutiche - siano esse rabbiniche, monastiche, accademiche, o semplicemente familiali - con cui un "maestro" o un primo lettore cerca di aprire i suoi discepoli e lettori al testo. L'apertura del testo avviene in seguito all'aprirsi del lettore. La ripetizione letterale, la trascrizione, il coinvolgimento della memoria spesso procedono insieme e arrivano sempre al capolinea con l'interpretazione. Il critico procede di pari passo mimeticamente o per parafrasi; egli non trascrive, non memorizza l'oggetto del suo giudizio. Il cabalista, il filologo, il musicista devono fare altrettanto. Così, quando invita altri nell'"intimo penetrale" della sua sensibilità - la frase era di Sant' Agostino prima di diventare di Keats -, quando invita altri a vitalizzare il canone costitutivo del proprio essere, il lettore legge insieme a loro. Nel grande critico c'è, intrinsecamente, il pregiudizio di leggere per noi. Ne discendono altre disgiunzioni. Il critico robusto è un futurista. Qualunque sia l'acutezza d'analisi e di giudizio che egli fa pesare su un'opera del passato, il suo fine, la sensibilità delle sue antenne, deve corrispondere all'introduzione nei programmi di studio della "tradizione del nuovo" (nell'efficace espressione di Harold Rosenberg). Egli tratta, per adottare ancora una volta la metafora della borsa, in "futures". Abbiamo visto che è in rapporto al rischio speculativo, è nell'eventualità che alcuni dei suoi più ingenti investimenti si dimostrino fallimentari, che risiede la dignità della sua arte. Il vero lettore, al contrario, è, quasi inevitabilmente, memore del passato. È nell'ontologica "retrospettività" del canonico, nel fatto che tante delle Euridici che si trovano sul cammino del lettore (les orages pèlerins) stiano nell'ombra dietro di lui, che risiede la dimensione immateriale, la polverosa tristezza del suo richiamo. Questo volgersi verso il passato è sia individuale che tipologico: gran parte del canone viene incamerato, e s'incontra, durante l'infanzia o in gioventù, quando gli spazi dell'interiorità sono ancora inesplorati e la memoria è rapace. Il grande lettore, che è raro, è precisamente colui che resta anche in età matura totalmente vulnerabile, totalmente aperto alla luce e alla minaccia dell'annunciazione. Molto di quanto è canonico è anche storico. Perciò per il lettore è cosa pericolosamente ragionevole sentire e agire in base al pregiudizio che non vi saranno testi prodotti mentre è in vita, o anche in seguito, che sorpassino, oppure eguaglino quelli che attribuiamo all'anonimato di Omero o al libro di Giobbe. Il lettore moderno si ritrova a supporre, quasi senza verifica, che certe figure "trascendenti" nel canone come Eschilo, Dante, Shakespeare, Goethe, rappresentino personalità compiute di un tipo che la cultura, quantomeno quella occidentale, non rigenererà. Il sentimento del critico su questo punto deve essere di dubbiosa ribellione e di speranza contraria. Quando visita il museo egli deve essere presente quando vengono appesi i nuovi dipinti. 3. Il dualismo che abbiamo menzionato, e molti altri che sono impliciti in quest'argomentazione, può essere meglio sussunto sotto un'antitesi fondamentale. L'atto critico è una funzione dell'ego in una condizione di volontà. Il critico determina la sua prassi. Anche dove la sua relazione con l'oggetto che mette a . fuoco è più affermativa, delucidativa e araldica, e quindi di evidente utilità per l'oggetto, essa è strutturalmente e dinamicamente egoistica (volendo usare questo termine in senso non moralistico). Il prodotto che ne emerge è, come abbiamo visto, una controrelazione, uno stare "al di sopra e contro" il testo e l'oggetto d'arte da cui ha origine la sua proposizione. Il critico firma la sua percezione non meno, e spesso con maggiore enfasi, di quanto abbia fatto il creatore dell'oggetto prima di lui. Abbiamo anche visto che in questo ineluttabile e legittimo egoismo c'è un potenziale di rivalità. Coscientemente o meno, il critico compete con il testo o con le opere d'arte che lo precedono. Anche la celebrazione può, come avviene frequentemente, eclissare la causale che è alla sua origine. Questo, come ho suggerito, dimostra perché l'inflazione attuale di critici, il vocabolario, l'autorità didattica, il linguaggio, i media di diffusione, e la stima di sé non siano sottoprodotti accidentali della mandarinizzazione della letteratura. La prepotenza della critica nei confronti della composizione originale, l'interporsi del critico-personaggio tra il testo e la luce generale, sono tradimenti strutturalmente radicati nell'atto critico.L'impulso verso la sovranità solipsistica, verso la scoperta che sia avanzato davvero poco che sia degno di critica seria, o che ciò che c'è debba essere "decostruito" dal critico e immerso nel calderone di Medea, non è affatto un paradosso bizantino. È una spinta latente che esiste in tutta la critica. In definitiva, e irrimediabilmente, il critico è giudice e padrone del testo. Il lettore è servo del testo. Il vero insegnante, il curatore di testi, lo scriba sono chiamati a un servizio clericale. Il testo scopre il suo degno lettore. Spesso egli resiste al suo ingresso perentorio, anche se il profeta cerca di stringere i denti contro gli imperativi della sua vocazione (Giona era un "lettore"). L'accettazione del canone da parte del lettore comporta una sua gestione muta e privata, tranne in quelle pratiche di ripetizione collettiva, di coinvolgimento della memoria e di commentario euristico menzionati sopra. Ma che sia singolo o partecipativo, inespresso o manifesto, il lettore è "al servizio" del testo. Roy Campbell ricorda come fosse spiritualmente e fisicamente piegato quando il testo di San Giovanni della Croce "gli saltò addosso" in una fortuita imboscata. Egli divenne, come succede ad ogni vero le~tore,un pastore del testo, un guardiano davanti ai cancelli aperti e chiusi del significato.Quest'ultima immagine è, ovviamente, un prestito dalla parabola del portiere di Kafka davanti all'uscio della Legge. Nell'apparente contraddittorietà della sua chiusura e apertura, questa fabula illustra concretamente il processo dialogico con un testo canonico. Noi comprendiamo e al contempo non comprendiamo abbastanza; afferriamo e ciò che non afferriamo ci sfugge. Ancora una volta, non c'è niente di occulto nel processo in sé, per quanto sia difficile da parafrasare. È l'esperienza dell'attore quando la parte che ha custodito nella memoria riemerge prepotentemente a vita autonoma; è l'ordinaria esperienza del musicista che suona uno spartito esterno o interiorizzato. Ma se non c'è niente di occulto in questo processo, nella sua motivazione e finalità sussiste un contratto con il trascendente. In conclusione, il lettore ha firmato un contratto di implicita presenza. Egli deve "fare la sua parte come se" la lettera, per quanto 43
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