SAGGI/STEINER Leggere e ricordare procedono parola per parola. Come gli scolastici, il lettore sa che "Dio risiede nel dettaglio". la rende presente nel e al lettore non dipende più dalla conferma esterna. Tali ordini di interiorizzazione non sono finzioni ideali, anche se possono sembrare tali nel nostro attuale clima di amnesia istituzionalizzata. In altre epoche, società e tradizioni, il coinvolgimento della memoria, la disponibilità alla memorizzazione e ali' integrale ripetizione di massicci corpi testuali - epici, rituali, liturgici, storici, tassonomici - era, ed è sempre, routine, come è routine ancora oggi per i numerosi musicisti che fanno a meno degli spartiti e imparano a memoria, nella muta chiarezza di un' introspezione controllata, grandi pagine di musica polifonica. (Ho visto universitari spegnere la colonna sonora di un amatissimo film di Bogart per ripetere in coro lunghi brani di dialogo perfettamente memorizzati.) La negazione della distanza, di cui la memorizzazione è la logica finale, porta a un'estrema contrazione della messa a fuoco. Senso e spirito si confondono, come sempre succede, sulla superficie reale del testo. E qui di nuovo, significativamente, il parallelo con la percezione degli oggetti d'arte visiva comincia a sgretolarsi. Nel caso della tela, della statua, o dell'edificio, dobbiamo, in una misura maggiore o minore, fare un passo indietro per guardare. Ma è proprio nei testi che avviene la contrazione della messa a fuoco che fa della singola pardla o della frase l'unità cruciale della lettura, e della sua stessa memorizzazione. Le pratiche di meditazione e di commento sulla singola parola o verso, essendo sviluppate da esegeti di testi rivelati, legali e "trovati" - "trovati" nel senso che sono documenti di identità nazionale, epiche e cronache dei primordi - non sono strumenti tecnici o casuali. La meditazione esegetica sull'unità minimale è la logica estrema della vera lettura. Leggere e ricordare procedono parola per parola, secondo un uso implicito nel suggerimento di Benjamin secondo cui il vero traduttore, il traduttore che opera al di là della parafrasi del critico, è uno che crea nell'interlinea tra una parola e l'altra. Come gli scolastici, il lettore sa che "Dio risiede nel dettaglio". È in questo senso del tutto pratico che gli esempi più evidenti di lettura iconica sono esegetici: l'ermeneutica ltttera per lettera dei cabalisti, i commentari parola per parola dei lettori talmudisti e della patristica, il procedere frase per frase nel ladino di Karl Barth. Ma proprio questa stessa contrazione prospettica, con le sue relative stravaganze e miopie metodologiche, può essere applicata alla poesia laica, al testo filosofico (Heidegger su Anassimandro o Eraclito), e al documento legale. La differenza è semplicemente che l'esegeta rabbinico o il Calvino che commenta i Vangeli può andare avanti senza giustificazioni o metafore razionalizzanti, "come se" la vera presenza operasse in maniera non ambigua nel testo. In breve, egli può esplicitare l'assunzione, implicita in ogni vera lettura, che la garanzia di significato, quella che alla fine vidima la facoltà del linguaggio di avere un senso e una forza al di là del senso, è di ordine teologico. L'onesto critico-realista, al contrario, opera in virtù di presupposti immanenti e laici. Sono questi che gli danno l'autorità di giudicare, di consegnare opere "inferiori" all'oblio (la critica è uno dei mezzi per dimenticare). Sia nella sua forza che nella sua potenziale debolezza, una lettura parola per parola tenderà ad essere filologica. È la filologia, il letterale "amore per il logos" che è stato lo strumento naturale, la lente d'ingrandimento dell'esegeta. Analogamente, la musicologia può attardarsi su ogni nota o battuta. La critica testuale è acutamente "critica", ma in un senso quasi antitetico a quello della critica del critico. La critica testuale è una scopa nella casa della rimembranza, che spazza via ogni eccesso di faziosità per rendere !"'effetto di presenza" translucido. Essa non valuta il suo testo come deve fare il critico; essa opera per restituirlo esattamente al suo mistero. Che esistano profondi rispecchiamenti tra filologia e musica, che entrambe siano discipline d'accesso all'elementare pulsione di essere al tempo stesso proiettati e respinti dall'intelletto, era un fatto già noto a Platone e ricordato da Nietzsche. La filologia e la musica appartengono a sfere di "lettura" più che di "critica" (quanta critica musicale vale la pena di dimenticare?). Il critico prescrive un programma di studi; il lettore è portato a rispondere e a interiorizzare un canone. In pratica, si può esser certi che le due cose coincidano. Il "programma di studi" di una data cultura selezionerà e celebrerà, catalogherà come "classici" i "grandi libri" attorno a cui un linguaggio e una società costruiscono i loro codici di riconoscimento. Questi "grandi libri" possono quindi far parte del canone del lettore (sarà questo il caso più ovvio dove la critica si concentra sui testi rivelati). Ma, considerata in senso stretto, l'inclusione nel canone dei "capolavori" selezionati nei programmi di studio è accidentale. Le motivazioni di ciò che è canonico non sono, alla radice, quelle di un'attività prescrittiva e interessata nel senso in cui le giudichiamo fondamentali nell'esercizio critico ordinante. Il fine del canone - e "fine" è in effetti la parola peggiore da usare qui - non è quello di un'esemplarità •stilistica nel senso in cui, per esempio, la retorica di Boileau e Racine può aver fornito "pesi e misure" ufficiali a generazioni di retori francesi. Non ha un valore didattico nazionale nel senso in cui l'ha avuto gran parte di Shakespeare per la comunità politica anglosassone. In breve, il canone non è un catalogo di eccellenza monumentalizzata e selezionata in determinate circostanze. Un canone è l'ammasso individualmente interiorizzato della cristallizzazione di testi o frammenti di testi ricordati e esegeticamente recuperati che risultano da un incontro (molto spesso) involontario e indesiderato, e dalla capacità di rapportarsi alla "vera presenza". Il canone autentico non è, o almeno non è in primo luogo, il prodotto di un'intenzione ragionata. La sua cristallizzazione all'interno del lettore risulta dal paradosso della "dinamica passività", dalla sospensione della nostra identità che esperiamo quando prestiamo una forte attenzione a qualcosa, quando aguzziamo le nostre facoltà di accettazione e di apprendimento. Tale condizione può produrre un'apertura che permette, che invita il testo "a leggerci" almeno quanto noi lo leggiamo. Canonici sono testi e frammenti di testo - la critica deve cercare di avere uno sguardo complessivo mentre la lettura può risiedere nelle componenti più minute - il cui ingresso nella mente del lettore (e "mente" in questo contesto è una designazione del tutto inadeguata e restrittiva), la cui immediatezza al richiamo e alla rievocazione del lettore, sopraggiunge ad alterare il tessuto della coscienza. Il lettore rivisita, ritorna nella viva consapevolezza di essere ingigantito nel rapporto e nel colloquio silenzioso con e attraverso la citazione di testi e di frammenti di testo. Il ricorso arcaico alla sorte, il fatto di porre un dito a caso su qualche passo tratto da un libro delle Scritture o da un libro di poesie, è una drammatizzazione esteriore della sua intima ricerca di una visione profonda e della comprensione del proprio destino. Il testo canoni41
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